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Ammesso che le commemorazioni possano servire a qualcosa, e non è affatto certo, condizione necessaria di una loro potenziale utilità è che esse si propongano come occasioni di una riflessione critica, e non apologetica, intorno all’evento di cui ricorre l’anniversario. Nello specifico, l’anniversario che ci apprestiamo a commemorare, il 1861, segna una data di importanza straordinaria nella storia del nostro paese. Tra breve ricorreranno centocinquanta anni, un secolo e mezzo, dall’unificazione politica dell’Italia. Una riflessione sul significato di quel risultato, un sia pur sommario esame delle promesse che esso conteneva per vedere in che misura, da allora a oggi, esse siano state mantenute, sembrano dunque quanto mai opportuni. Ma se le domande sono legittime, le risposte sono tutt’altro che facili.

Poniamo subito un punto fermo. Per le ragioni sulle quali tornerò tra poco, credo che nessuna persona seria possa mettere in dubbio che il 1861 debba essere ritenuta una data in tutto e per tutto fausta. So bene che nel clima grigio in cui viviamo, nel disorientamento delle menti e dello spirito che accompagna i nostri giorni, questo giudizio positivo è oggetto di numerose e spesso scomposte contestazioni. Ma su di un piano critico non credo che esse meritino particolare considerazione, perché, nella loro generalità, queste contestazioni sono viziate da due gravi errori.

In primo luogo, nonostante il modo arrogante con il quale le loro ragioni sono presentate, il più delle volte ciò che esse affermano non corrisponde al vero: così, ad esempio, il carattere paternamente bonario di alcuni governi, o lo stato di salute di alcune economie locali, o il preteso già raggiunto grado di sviluppo civile di alcune realtà regionali. Quando in realtà noi sappiamo che, in rapporto ai risultati già raggiunti in gran parte della moderna Europa, nelle regioni italiane regnava ovunque l’arretratezza, e che questa arretratezza, sia civile che economica, raggiungeva in alcune regioni livelli di una degradante miseria materiale e morale e di autentica barbarie.

In secondo luogo, queste contestazioni si compiacciono spesso di segnalare ogni pagina moralmente disdicevole, ogni episodio dai connotati truci, ogni esempio di violenza o di crudeltà, di cui sono certamente ricche anche le cronache risorgimentali. E si reputa che il provare la fondatezza di queste denunce sia di per sé sufficiente a mettere in dubbio il valore dei risultati a cui quel processo è giunto o, addirittura, a ribaltarne il significato. Il che è semplicemente prova di ingenuità.

Ora, l’ingenuità può essere, non sempre, una qualità simpatica nei rapporti umani, ma certamente non è una virtù nell’esame e nel giudizio della vita pubblica, che è quanto dire nell’analisi storica. Dove maestro rimane pur sempre Machiavelli, la cui lezione, una lezione di realismo, dovrebbe avere a tutti insegnato che, gli esseri umani essendo quello che sono, non esistono fenomeni storici di una certa complessità nei quali il bene non si accompagni al male, e se noi giudichiamo positivamente un certo evento non è perché riteniamo che esso sia privo di ombre ma, più semplicemente perché, nonostante queste ombre, i frutti a cui ha dato luogo presentano quelle qualità che più corrispondono a un nostro ideale di vita civile. E questo deve essere il nostro metro di giudizio nel giudicare il processo storico che si conclude nel 1861 e a cui si dà il nome di Risorgimento.

Fermiamoci, allora, su un dato certo, che è poi il nostro punto di partenza. Il 1861 corrisponde alla fondazione di uno stato, il Regno d’Italia, uno stato che per la prima volta nella storia raccoglieva in unità politica la più parte di quei territori che chiamiamo Italia. A sua volta, questa unità politica consentiva che gli italiani nel loro insieme si ricongiungessero alla storia della moderna Europa. Da quel processo eravamo rimasti emarginati per circa tre secoli, durante i quali profonde trasformazioni avevano aperto la strada a un impetuoso sviluppo non solo economico ma civile. Si aggiunga che questo sviluppo – il problema si presenta ovunque ai giorni nostri – non era una libera scelta ma una dura necessità, perché in presenza di un forte incremento demografico, quale era in corso anche in Italia, la modernizzazione è l’unica strada che consente di evitare conseguenze tragiche. Ma pur senza sottovalutare il significato di questa unità politica e i benefici che ne conseguivano anche sul piano economico-sociale, di non minore importanza è il fatto che il Regno d’Italia era retto da libere istituzioni. Con il 1861 finiva di esistere il dominio di governi come che sia assolutisti. Era anche in Italia – il processo si sarebbe concluso nel 1870 – il tramonto dell’Ancien Régime. Da allora gli italiani cessavano di essere sudditi e si accingevano al difficile apprendistato per diventare cittadini, cioè persone libere. Per questo solo e semplice fatto ritengo del tutto pacifico che il 1861 debba essere valutato positivamente. Ma, ovviamente, come spesso nella storia e come spesso nella vita, le occasioni vanno sapute cogliere.

La storia alla quale il 1861 apriva la strada è proprio la storia di come gli italiani hanno saputo mettere a frutto l’occasione che è stata loro offerta di diventare liberi cittadini. Se e in che misura l’occasione sia stata colta è questione che nel momento conviene lasciare aperta, ma possiamo già anticipare, e ci torneremo tra breve, che un pur sommario esame delle condizioni, oggi, della nostra vita pubblica rende quanto meno lecito dubitare che quel compito di educazione politica sia stato assolto. Il problema, il problema vero, di una seria riflessione intorno alla data dell’Unità d’Italia non riguarda il valore di quel risultato di per sé, riguarda piuttosto il perché alcune promesse implicite in quel risultato non siano poi state mantenute, ed è nostro compito, di questo scarto tra le cose sperate e le cose ottenute, tra gli ideali e la realtà, una realtà ancora ben presente, comprendere le ragioni. Ma questioni del genere non consentono mai risposte chiaramente definite. Per indirizzare la nostra riflessione, fermiamoci su un altro dato, ugualmente certo ma problematico.

Il Regno d’Italia si definisce uno stato nazionale. Ciò significa che la comunità politica raccolta nello stato unitario avrebbe dovuto corrispondere a una “nazione”. Uso la forma dubitativa, perché il termine nazione è assai ambiguo, e se tale è rimasto negli studi, dove la sua definizione rimane ancora controversa, ambiguo era certamente alla data 1861. E qui occorre fare un po’ di chiarezza. Non c’è bisogno del senno del poi, un’arma lecita a ogni studioso di storia, per affermare che al momento dell’Unità la più parte delle popolazioni non aveva e non poteva avere alcuna idea di che cosa fosse l’Italia. Il che significa che, al di fuori di immagini retoriche, una nazione italiana non esisteva. In proposito i documenti sono innumerevoli quanto univoci. Basti dire che al momento dell’Unità, anche accettando le stime più ottimistiche, non più del dieci per cento degli abitanti erano italofoni, cioè parlavano e capivano la lingua italiana. Ed è noto quanto sia importante nella definizione di nazione il comune denominatore linguistico. Questo semplice richiamo, al quale molti altri potrebbero aggiungersi, basta a far capire quanto fosse attuale all’indomani dell’Unità il monito (e poco conta se di scorretta attribuzione) che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani. Il che equivale a dire che se con il 1861 si fonda uno stato, rimaneva ancora del tutto aperto il compito di formare, come base di questo stato, quella comunità politica che definiamo comunque una nazione. In termini generali il problema che si poneva era quello della cosiddetta nazionalizzazione delle masse e che ogni stato moderno ha dovuto affrontare. Ma la questione era complicata dal fatto che del concetto di nazione si davano letture diverse, il che vale a dire che non vi era accordo sul modo come il compito di formare una nazione andasse svolto. E qui occorre fare un passo indietro.

Risorgimento, come già si chiamò il processo unitario durante il suo corso, è un termine suggestivo ma al tempo stesso ingannevole. Esso rispecchiava la presunzione, assai diffusa nella cultura italiana dell’Ottocento, che l’Italia non fosse qualcosa che ancora doveva nascere e a cui il processo unitario si proponeva di dare vita. Al contrario, si riteneva che essa fosse una realtà già esistente, che doveva solo uscire dal proprio secolare letargo per riprendere un cammino glorioso, che le vicende del tempo avevano solo interrotto. In questa ottica, incoraggiata da suggestioni letterarie che impedivano di vedere la realtà effettiva, si affermava che già prima del 1861 esistesse una nazione italiana, la quale evidentemente poco aveva a che fare con i termini concreti della situazione esistente, cioè con le effettive condizioni di vita degli italiani. Si trattava, come fu chiamato, di un concetto “romantico” di nazione e che trovò largo seguito. Contrapposta a questa visione del Risorgimento, a questo concetto di nazione, si fronteggiano modi ben diversi di veder le cose. Alla data 1861 e negli anni seguenti, nella cultura italiana e tra le classi dirigenti sono ugualmente presenti richiami pensosi e appassionati alle dolorose condizioni sociali delle plebi, al generale stato di arretratezza del paese, nella consapevolezza che in uno stato retto da libere istituzioni la nazione non altro deve essere che la comunità dei cittadini. Quindi due diverse e opposte visioni del Risorgimento, due diversi concetti di nazione, che per ragioni di chiarezza espositiva e per il valore rappresentativo dei personaggi, potremmo chiamare la nazione di Mazzini e la nazione di Cavour.

Da un lato una realtà ideale, che vedeva nella nazione una comunità di credenti, uniti dalla religione della patria; dall’altro una realtà concreta, che vedeva nella nazione una comunità di persone libere, unite dal rispetto reciproco. Queste due visioni indirizzavano verso strade diverse. Per gli uni l’Unità era un punto di arrivo e l’Italia, risorta in tutte le sue antiche glorie, indipendentemente dalle sue forze effettive, doveva senza esitazione prendere il suo posto sulla scena internazionale, un posto si direbbe dovuto, al pari delle altre potenze europee. Per gli altri l’Unità era, e non altro poteva essere, che un punto di partenza, dal quale con umile e paziente lavoro l’Italia doveva risalire la china della sua arretratezza, prima di coltivare ambizioni di troppo superiori alle sue forze. Per gli uni, quindi, il terreno su cui misurarsi era la politica estera; per gli altri, la politica interna, il mettere in ordine la casa, come si diceva allora, prima di sfidare le scene del mondo.

A sua volta – il punto è importante – queste due diverse idee di nazione, una comunità di credenti o una comunità di cittadini, implicavano due diverse idee di stato: da un lato uno stato etico, che in quanto titolare di fini propri tendeva necessariamente a essere autoritario; dall’altro uno stato liberale (qui poco importa, sono cose note, l’abuso che del termine “liberale” hanno fatto, nella nostra vita pubblica, anche tutti coloro che non avevano alcun titolo per definirsi tali), cioè uno stato che si proponeva di formare dei liberi cittadini e alla loro volontà affidare le proprie sorti. In altre parole, si proponeva di fare dell’Italia una democrazia. In realtà, potremmo ben dire che, guardando un po’ dall’alto la lotta politica in Italia, tra l’Unità e il fascismo, il filo rosso è offerto dal contrasto, continuo e aperto, tra i sostenitori della nazione di Mazzini e i sostenitori della nazione di Cavour. Solo dopo il 1945 il problema si presenterà in modo diverso, e lo vedremo. Ma tra queste due contrastanti visioni era sorta nel frattempo una imprevista complicazione, della quale, anche in un quadro sommario come il nostro, occorre fare conto.

Il 1876 segna una svolta nella vita politica italiana non semplicemente per la caduta della Destra e il farsi avanti alla guida del paese di una nuova classe politica. La svolta, graduale ma effettiva è nell’indirizzo di governo, che si fa sempre più impaziente di successi internazionali e sempre meno disposto a prendersi cura delle piaghe sociali, che rimanevano dolorosamente aperte anche quando non sempre incurabili. In questa situazione, la reazione popolare si era accentuata. La presenza di libere istituzioni, anche se quanto più possibile tenute a freno, aveva consentito che accanto a quella già presente dei cattolici si formasse una nuova opposizione popolare, sotto le bandiere del socialismo. E sotto queste bandiere si veniva a proporre un nuovo modello di comunità politica, che in Italia avrebbe avuto grande fortuna, e che non era né la nazione come comunità di credenti (la nazione di Mazzini), né la nazione come comunità di cittadini (la nazione di Cavour): di fatto non era più la nazione. Per i socialisti il vincolo di una comunità politica era la classe. La figura più rappresentativa dell’indirizzo di governo, un indirizzo impopolare, contro il quale i socialisti prendevano posizione, era Francesco Crispi. Ma i socialisti non erano i soli. Già saldamente schierati contro la politica di Crispi, erano tutti i fautori di una nazione come comunità di cittadini, quasi tutti raccolti in quegli stessi anni sotto la bandiera del liberismo.

Più volte, nel corso dei miei studi, ma con poca fortuna, i pregiudizi sono duri a morire, ho cercato di richiamare l’attenzione sul fatto, e su questo dovremo tornare, che il liberismo non era e non si proponeva di essere una semplice teoria economica. Il liberismo era un’idea di stato, uno stato liberal-democratico, che in senso proprio corrispondeva a una comunità di cittadini. Pertanto, sarebbe stato conforme alla logica e conforme a una più limpida visione politica, che quanti si presentavano sulla scena politica come i rappresentanti degli interessi dei ceti popolari si unissero al programma dei liberisti. Così non fu. E questa divisione di forze, il fatto che l’opposizione all’indirizzo di governo, un indirizzo impopolare, non trovasse una base comune, fece sì che tra la fine del secolo e la Grande Guerra, pur lungo un percorso non lineare, il progetto politico per fare dell’Italia una comunità di cittadini perdesse progressivamente terreno.

In effetti gli anni durante i quali, per iniziativa dei socialisti, i ceti popolari si allontanavano dalle istituzioni per elaborare una loro cultura alternativa a quella ufficiale, una cultura nella quale il concetto di comunità politica non è più quello di una comunità nazionale, sono gli stessi anni (gli anni di Crispi) durante i quali l’idea di nazione di natura romantica (la nazione di Mazzini) si converte pienamente in nazionalismo. A questa conversione, che è un fenomeno europeo e non italiano soltanto, danno un apporto determinante due diversi fattori: il primo, l’evolversi della situazione internazionale dopo il trauma del 1870; il secondo, il prevalere nella cultura politica del tempo di un positivismo che subiva l’impronta delle suggestioni di una ormai dilagante ideologia, il darwinismo sociale. E si creava una ibrida quanto innaturale combinazione tra Mazzini e Darwin. Ironicamente, quello stesso positivismo dava la sua impronta alla nuova fede socialista, facendo ingenuamente credere che le sue allettanti promesse, una società senza classi, fossero cosa certa, perché sostenute da quella che si riteneva una verità scientifica. Si delineava così un quadro che favoriva il radicalizzarsi della lotta politica, nazionalismo vs socialismo, nel quale non sorprende il declino degli ideali liberali e con essi del concetto di nazione come comunità di cittadini.

L’occasione perché emergessero in piena luce le profonde divisioni che solcavano il quadro politico, fu la guerra di Libia.Aquella nuova impresa coloniale si opposero, ma per ragioni e in modi diversi, sia i socialisti sia coloro ancora raccolti sotto l’insegna del liberismo. Sicché a quella data, siamo al 1911-12, si confermava come, oltre ogni particolare motivo di divisione, si confrontassero in aperto contrasto tra di loro tre diversi modi di concepire la comunità politica: due di essi si riconoscevano senza riserve nello stato nazionale, lo stato nato nel 1861, ma si differenziavano nel loro modo di intenderlo; il terzo modo, la concezione dei socialisti, si poneva di fronte allo stato nazionale in una posizione apertamente antagonista.

Questi i contorni del quadro politico, tracciati assai sommariamente; queste le fratture presenti all’interno della nostra comunità nazionale, al momento dello scoppio della Grande Guerra. Ed è importante tenerle ben presenti queste fratture, perché esse condizioneranno le vicende della nostra vita pubblica non solo nell’immediato ma, come cercheremo di vedere, nel lungo periodo. Non vi è dubbio che anche in Italia la Grande Guerra abbia rimescolato le carte, aggiungendo alle vecchie nuove divisioni, così quella tra neutralisti e interventisti; e non vi è dubbio che essa abbia alimentato nuove e forti tensioni. Ma essa alimentò anche grandi speranze, e anche speranze perché l’Italia finalmente diventasse una nazione come comunità di cittadini attuando la maggiore delle promesse dell’Unità. Di fatto la conclusione vittoriosa di quel conflitto dimostrò che i primi cinquant’anni di storia dell’Italia unita erano stati anni di enorme progresso, e dimostrò che la strada era ormai aperta per un rinnovamento del paese verso la democrazia. Se poi le cose presero invece un’altra piega, se ancora una volta quell’occasione non fu colta, la responsabilità non fu tanto delle circostanze, quanto degli uomini che in esse agirono. In altre parole, la vittoria del fascismo non era scritta nelle cose, essa non fu l’esito necessario dell’intervento, ma il frutto della insipienza della nostra classe politica, incapace ancora una volta di leggere quali fossero le esigenze vere del paese e in qualche modo farvi fronte.

Come che sia, ed è qui impossibile ripercorrere anche sommariamente quanto avvenne dal 1918 al 1922, anni fatali, sta di fatto che con l’avvento di Mussolini al potere si impone in Italia un concetto di nazione che riprende ed esaspera in un singolare ibrido con istanze di un rozzo positivismo imiti della nazione romantica. Sul fronte opposto, sul fronte dell’antifascismo, si insedia in posizione dominante il concetto classista di comunità politica, esaltato dall’esempio della rivoluzione russa e sostenuto soprattutto dai comunisti. Sconfitto non soltanto lo stato liberale come insieme di istituzioni, ma i principii sui quali quelle istituzioni riposano, con la vittoria di Mussolini, per quanti si erano sino allora battuti per fare della nazione italiana una comunità di liberi cittadini, la partita era perduta. Non si può negare che la nazione dei fascisti presenti una qualche continuità con una certa tradizione risorgimentale. Ritengo una forzatura la tesi avanzata a suo tempo da Luigi Salvatorelli che definiva il fascismo Antirisorgimento. È noto, ad esempio, quanto sia stato presente nella pubblicistica fascista il nome di Mazzini, e i richiami non sono sempre illegittimi. Ciò che nella nazione dei fascisti non esiste più affatto sono invece i principii liberali, e cioè proprio quei principii che sono la base per una educazione dei cittadini. Di fatto, sotto il fascismo gli italiani ritornano sudditi. Non è dunque un caso che nel loro modo di presentare il Risorgimento i fascisti abbiano espunto il personaggio che più di ogni altro ha incarnato in quegli anni l’idea liberale, il conte di Cavour, e lo aveva già espunto Crispi.

In quegli anni, negli anni del fascismo al potere, nei confronti di una religione della patria sempre più ridotta a religione della ragion di stato, non si tolleravano forme di dissenso o di semplice astensione, e non si concepiva la comunità nazionale se non come una comunità di credenti ridotti all’osservanza di quanto dettava il conformismo ufficiale. I diritti delle minoranze erano cancellati, le promesse di faredegli italiani dei liberi cittadini del tutto dimenticate. Per l’educazione politica degli italiani furono anni nefasti. Perché le promesse del 1861 tornassero di attualità, perché potessero quanto meno ritrovare un proprio spazio i propositi di formare una nazione di liberi cittadini, si doveva prima sconfiggere il fascismo.

È quanto avvenne con la fine della seconda guerra mondiale, nella primavera del 1945. Quella data apre nella nostra storia una stagione del tutto nuova. Ma possiamo dire davvero che, dopo di allora, le promesse di fare degli italiani dei liberi cittadini siano state mantenute? La mia è una domanda retorica perché, come ho già accennato, un semplice sguardo alla realtà di oggi basta a mostrare come l’Italia sia ancora ben lontana dall’essere, nel senso proprio, una comunità di cittadini. Da noi, infatti, manca vistosamente il senso della legalità, in modo sostanziale non formale, manca cioè la spontanea osservanza a regole comuni di convivenza che siano avvertite come vantaggio di tutti, perché condizione di vita civile. E manca la convinzione che le istituzioni sono cosa nostra, e che del loro funzionamento ciascuno di noi è responsabile, per la sua parte. E manca il rispetto per gli altri e il tacito riconoscimento che, nonostante le tante differenze che possono dividerci, siamo tutti abitanti della stessa città, tutti responsabili della sua sorte, e quindi tutti uniti da un vincolo di necessaria solidarietà. E poiché le istituzioni non vengono avvertite come cosa nostra, manca quell’orgoglio di essere italiani, che è il segno di un patriottismo legittimo

In conclusione, a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia la promessa più ambita, quella di fare degli italiani dei liberi cittadini, non è stata ancora mantenuta. Perché? Gli ostacoli che all’attuazione di questo ambizioso progetto si frapposero tra il 1861 e il 1945, sono del tutto evidenti: le condizioni di partenza erano le più infelici, i costi per avviare la modernizzazione del paese enormi e assai scarse le risorse; inol-tre, nel corso di tutti quei decenni, i principii liberali furono ovunque in declino, e ovunque si fece strada il nazionalismo. Per una lezione di libertà quei decenni furono poco propizi

Dopo il 1945 il clima muta radicalmente, la fine della seconda guerra mondiale corrisponde in Europa, e io credo che questo sia il dato più significativo, al tramonto di un’idea di stato-nazione, basata sul particolarismo. Finiva lo stato nazionale quale si era formato nel corso del XIX secolo. La nazione dei fascisti, ma anche la nazione di Mazzini, cessavano di esistere. Nell’Europa che dopo di allora rinasce non esistono più modelli alternativi al concetto di nazione come comunità di cittadini. Si aggiunga che anche in Italia nasce uno stato nuovo, la Repubblica, la cui costituzione formalmente prevede la nazione come comunità di cittadini. Inoltre, dopo il 1945 anche l’Italia ebbe il suo miracolo economico
e la diffusione ovunque di un sostanziale e assai significativo benessere.

Le condizioni perché, finalmente, potesse farsi strada tra tutti un’educazione alla convivenza civile erano state raggiunte. Capire perché, nonostante la situazione nuova, nonostante le condizioni favorevoli, gli italiani non abbiano ancora imparato a essere liberi cittadini non è affatto facile, forse è un’impresa disperata. Mi limiterò ad azzardare alcune ipotesi.

Credo esistano due ordini diversi di ragioni: ragioni, per così dire, contingenti, e ragioni di più lontana origine. Tra le prime, le ragioni contingenti andrà soprattutto ricordato il trauma dell’8 settembre 1945.Nella storia nazionale, una vera cesura: sia perché, di fatto, a quella data l’Italia cessava di essere uno stato indipendente, il che equivale a dire che cessava di esistere lo stato nato nel 1861, lo stato risorgimentale – uno stato nazionale non sopravvive alla perdita della sua indipendenza; e una cesura perché l’8 settembre apriva una stagione di guerra civile. Pertanto, a guerra finita, due erano le questioni urgenti: fondare, come che sia, uno stato nuovo; e superare la guerra civile. D’altra parte, questo trauma non cancellava la storia nazionale, che rimaneva la storia degli italiani, con la quale anche uno stato nuovo era chiamato a fare i conti. La base della nuova comunità politica avrebbe dovuto pur sempre essere la memoria di quella comune storia. Ma nell’ansia di mettere da parte un passato sgradito, si ridisegnò un passato di comodo, congruo con il profilo e con le esigenze politiche dei nuovi vincitori, e da un lato si inventò un antifascismo ben diverso da quello autentico, che era stato fortemente minoritario e fu presentato, invece, come fortemente maggioritario; dall’altro, poiché le forze politiche ora egemoni, cattolici e comunisti, con il Risorgimento avevano avuto poco a che fare, la storia stessa di come lo stato unitario si era formato fu sottoposta a una drastica revisione, che assunse gradualmente il profilo di una vera antistoria d’Italia.

Dopo di allora, la dissacrazione della storia nazionale divenne, e ancora rimane, una vera moda. La prima vittima di questa lettura distorta del Risorgimento fu proprio la sua eredità liberale: ancora una volta, il conte di Cavour.Ma era possibile superare la guerra civile rigettando quella eredità? Ed era possibile che, rimossi i principii di quella eredità, i principii su cui si basa una comunità di cittadini, gli italiani potessero imparare a comportarsi come persone libere? Un’educazione liberale, di questo si tratta, riposa su alcuni presupposti. Il primo di questi presupposti è che la norma dei rapporti sociali sia il commercio e non la guerra. L’idea liberale, l’idea che in una democrazia consente il regolare svolgimento della vita pubblica, è un’idea per il tempo di pace. Il che non significa, beninteso, che escluda il conflitto: al contrario, lo favorisce,ma ne stabilisce regole che consentano alla competizione di non degenerare mai nella rissa; e i nostri oppositori saranno sempre degli avversari, mai dei nemici.

Questa condizione, che implica il rispetto per gli altri, permette che anche la polemica politica si svolga nella forma del dialogo, senza anatemi e senza scomuniche. La guerra impedisce il dialogo, perché radicalizza il confronto, che diventa uno scontro. Nella guerra la polemica politica diventa propaganda, e regola della propaganda non è il rispetto del vero, e nemmeno il rispetto della ragione. Regola della propaganda è sapere vendere, non importa come, il proprio messaggio. Inoltre, la guerra impone il conformismo, perché di fronte al pericolo di un nemico comune, non è ammesso il dissenso. In questo clima, è inevitabile che la vita intellettuale si degradi e i suoi rappresentanti, che dovrebbero
essere i custodi dell’onestà intellettuale, si leghino al potere di cui fanno parte come militanti. È la fine di un pensiero libero, che è il sale delle libere istituzioni. Ora, sembra a me semplicemente un dato di fatto che, nonostante la guerra finisca anche da noi con l’aprile del 1945, non si ebbe poi affatto una smobilitazione degli animi.

Per ragioni che qui non è il caso di ricordare – io le ho richiamate più volte e del resto dovrebbero essere note a tutti – in Italia anche dopo la fine della guerra si alimentò e si perpetuò un clima di strisciante guerra civile, che procedette parallela alla guerra fredda e produsse la tragica stagione del terrorismo. Ancora una volta, il clima, quel clima, non favoriva certo l’educazione politica degli italiani. E nonostante le circostanze ormai del tutto cambiate, mi sembra che i residui di quella stagione e i suoi frutti diseducativi siano ancora ben presenti tra noi. Queste le più vistose ragioni contingenti che, io credo, hanno impedito agli italiani, anche dopo il 1945, di imparare ad essere liberi cittadini. Ma esistono insieme ragioni più profonde.

Essere liberi cittadini significa soprattutto essere cittadini responsabili. Come si imparano le regole della responsabilità, intendo della responsabilità personale? È mia impressione che la formazione di cittadini responsabili avvenga lungo due strade: la strada della morale e la strada dell’esperienza, o se vogliamo della politica. Lungo la prima strada, la strada della educazione morale, non mi sembra che in Italia si sia andati lontano.

Nel 1921, in un momento particolarmente critico della nostra vita pubblica, un grande quanto dimenticato personaggio della nostra storia civile, Giustino Fortunato, si chiedeva –ma è una domanda che si era posto più volte – che cosa valga moralmente l’Italia. E la risposta, la risposta che Fortunato si dava, era stata sconsolata. “Trentacinquemilioni d’uomini – gli italiani di allora – senza disciplina civile, perché senza disciplina morale”. Infatti, egli era profondamente convinto che esistesse un preciso rapporto tra obbedienza alla legge civile e obbedienza alla legge morale. Il punto è importante e ancora fortemente attuale, perché da noi sembra ancora comune la pretesa che le questioni morali si possano risolvere per via giudiziaria. Ma se manca nella generalità dei cittadini, soprattutto se manca nelle classi dirigenti dalle quali dovrebbe venire a tutti l’esempio, la norma che certe cose non si fanno, non perché possiamo incorrere in una sanzione ma perché ripugnano a noi stessi, se manca vorrei dire l’orgoglio di essere onesti, le minacce di sanzioni, per quanto severe, serviranno a poco.

Ora, la voce interiore che dovrebbe indurre ciascuno a un comportamento responsabile, è in primo luogo quella della coscienza. Ma le coscienze vanno formate e spesso a formarle è l’educazione religiosa. Una tradizione di educazione cattolica la quale, da noi, sino a pochi decenni fa (le cose hanno cominciato a cambiare dopo il Vaticano II), si proponeva per lo più niente affatto la formazione delle coscienze, ma il loro controllo, non poteva essere di grande aiuto alla formazione di cittadini responsabili. È una lacuna, nella storia della nostra vita civile, di cui occorre tener conto.

Ma, come dicevo, il senso di responsabilità si può acquisire anche attraverso la lezione dell’esperienza, e qui entrano in gioco le istituzioni (perciò ho parlato di lezione della politica). Dipende infatti dalle istituzioni, dipende dalla politica, la creazione nella vita civile di un contesto, all’interno del quale si possa liberamente affermare e trovare il suo premio il merito. Il che insegna a contare soprattutto su se stessi e con ciò ad essere responsabili. Il merito contro il privilegio, contro tutti quei vantaggi che in realtà non ci siamo guadagnati, che sono garantiti o da uno status particolare, così la posizione sociale, o dall’appartenenza ad una qualche corporazione, fratellanze o partiti, o da vincoli di legge, come che sia vincoli protettivi a vantaggio di pochi.

Ecco, in precedenza, tra i più convinti fautori di una nazione come comunità di cittadini, ho richiamato i liberisti. Ed ho sottolineato il fatto che le molte e memorabili battaglie, battaglie civili, battaglie perdute, combattute dai liberisti, da Stefano Jacini, Vilfredo Pareto, Antonio De Viti de Marco, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi (tanto per ricordare i nomi più noti), non riguardavano una politica economica, riguardavano invece un’idea di stato: quello che Pareto chiamò stato democratico contro stato oligarchico, e De Viti stato popolare contro uno stato assoluto o monopolistico. In tutti loro era ben ferma la convinzione che il fondamento delle libere istituzioni siano i cittadini responsabili, e che per formare dei cittadini responsabili, per fare sì che il merito prevalga sul privilegio, occorre innanzitutto che la società si liberi da tutta una serie di vincoli legali, di tutele, che proteggono come che sia interessi particolari. Il rischio è elemento naturale di una società libera.

Ha perso di attualità la lezione dei liberisti? Guardiamoci intorno. Possiamo dire che nella società italiana di oggi i privilegi corporativi siano stati cancellati, rimossi i molti lacci e lacciuoli alle iniziative personali, che si sia aperta la strada al merito abolendo quella estesa rete di requisiti formali, che premiano l’apparenza a danno della sostanza? Rinuncio, per discrezione, ai tanti esempi che in proposito avrei sulla punta della lingua, e che confermano il perdurare del carattere corporativo della società italiana. Ma non è così che dovrebbe essere una libera democrazia.

Torniamo sui nostri passi. Per concludere. La mia sarà una conclusione un po’ amara. Se la nostra vita pubblica è ancora tanto largamente inquinata, se la nostra vita intellettuale rifugge dalla ricerca di ciò che è vero, se la nostra democrazia è ancora tanto imperfetta, se come a me pare, l’insieme dei cittadini italiani non ha ancora imparato le regole del vivere da liberi cittadini, non diamo la colpa al Risorgimento. Gli uomini che nel 1861 fecero l’Unità d’Italia aprirono effettivamente la strada ad un progresso che ha prodotto comunque enormi benefici per tutti. A loro dobbiamo soltanto gratitudine.

Se dopo centocinquanta anni alcune delle speranze di allora rimangono ancora deluse, guardiamo alle responsabilità delle generazioni successive, guardiamo alle responsabilità e alle insufficienze nostre. Se le condizioni di oggi ci sembrano inferiori a quelle speranze e a quelle promesse, la colpa è tutta e soltanto nostra.

(La lectio magistralis del Professor ROBERTO VIVARELLI alla LETTURA ANNUALE 2010 della fondazione Magna Carta)