Liborio Romano o don Liborio. Come un prefisso o un titolo, un tono, un’inflessione può cambiare una storia… Specialmente se la storia è ambientata a Napoli e c’entra – se in pieno o di sbieco non è certo – la camorra. Per l’epoca in cui si svolge, gli anni cruciali del nostro Risorgimento, per lo scenario e le circostanze, per il valore apparentemente esemplare, la storia in questione ha tutte le sembianze di un apologo. Protagonista ne è un personaggio singolare: giurista e politico nel regno delle Due Sicilie, contestatore e poi ministro dei Borboni, consigliere di Garibaldi e referente di Cavour, capo virtuale della camorra, liquidatore della monarchia borbonica e scaltro profeta del nuovo corso.
Liborio Romano nacque nel 1793 a Patù, in provincia di Lecce, e si trasferì giovanissimo a Napoli per studiare giurisprudenza nell’università della capitale, dove ottenne in seguito una cattedra di diritto commerciale. Entrò in politica dalla parte “sbagliata”: nelle file dei liberali più estremisti, attirando l’attenzione della polizia borbonica. In seguito, l’esperienza dei moti del 1848 lo indusse a spostarsi su posizioni più moderate, che gli valsero il reintegro nel corpo docente universitario e il permesso di proseguire nell’attività politica.
La sua carriera decollò nei giorni della “rivoluzione” garibaldina in Sicilia, quando i ripetuti successi dei Mille suscitarono in tutto il regno borbonico un’atmosfera di irrequietezza e sconforto. Giorno dopo giorno, tra le forze armate e i funzionari della pubblica amministrazione, si diffondevano malcontento e apprensione, il popolo in strada cominciava a contestare la monarchia.
Il 25 giugno 1860 re Francesco II emanò a Portici l’Atto Sovrano accordando una generale amnistia per i reati politici, concedendo a Napoli la costituzione (che sarebbe stata compilata dal nuovo governo presieduto dal commendatore Antonio Spinelli) e istituzioni separate alla Sicilia. Da quel momento la bandiera borbonica sarebbe stata sostituita dal tricolore con al centro lo stemma della casa regnante.
Nel quadro della riorganizzazione dei ministeri la prefettura di Napoli fu, “a garanzia della parte liberale”, affidata a Liborio Romano, imprigionato in gioventù per l’accusa di setta e ancora nel 1851, durante la repressione seguita ai moti del 1848, e poi esule in Francia, dalla quale per atto di regia clemenza era ritornato dopo quattro anni.
Appena entrato in carica, don Liborio “fece un passo ardito, poscia censurato da coloro che a censurare soltanto si serbano. Egli mutò i camorristi, che non poteva tenere a freno, essendo fuggiti e scomparsi commissari, ispettori e birri, in elementi d’ordine con farne base della polizia nuova. Con mettere alla testa delle squadre poliziesche i caporioni della camorra, fare dei picciotti di sgarro poliziotti, dar loro uniforme nuova, limitatene le attribuzioni alla prevenzione dei reati e alla pubblica sicurezza, vietato l’arresto fuorché in flagranza di reato e l’entrare in case private senza mandato di magistrato, fece nascere l’ordine dal disordine, e Napoli fu salvata dai misfatti e dalle rapine”.
Il 15 luglio 1860 proprio Liborio Romano, in testa a un manipolo della nuova polizia, fronteggiò l’insubordinazione di un reparto di granatieri della guardia reale e di fanti della marina che, provocata ad arte una rissa, irruppero con le sciabole sguainate al grido di “Viva il re, abbasso la costituzione” provocando gravi disordini nel centro storico della città. Anche alcuni ministri furono feriti; il re si rifiutò di sciogliere i reparti in rivolta ma rimproverò personalmente e pubblicamente i ribelli, poi emanò due proclami indirizzati all’esercito e al popolo, in cui raccomandava un atteggiamento conciliante e sottolineava l’intenzione di perseguire una politica di indipendenza nazionale attraverso una lega con il Piemonte. In seguito a questi eventi Liborio Romano venne nominato ministro degli interni.
Più o meno in quel periodo cominciarono i suoi contatti segreti con Cavour, per il tramite di alcuni emissari del primo ministro e poi per corrispondenza diretta. Il conte considerava don Liborio suo uomo di fiducia nel marasma del Regno delle Due Sicilie tanto da suggerirlo come referente all’ammiraglio Persano, mandato a largo di Napoli a capo di una squadra navale col compito ufficiale di mettere in salvo la contessa di Siracusa, nata Savoia Carignano, e in realtà allo scopo di provocare una sommossa prima dell’arrivo di Garibaldi in città. Fallito questo tentativo, che aveva appoggiato senza troppa convinzione, e partita da Napoli la famiglia reale, il Romano decise di assumere direttamente l’iniziativa.
Il 6 settembre, a Salerno, Garibaldi ricevette un messaggio di don Liborio, indirizzato “all’invincibile Generale, Dittatore delle Due Sicilie”, che lo invitava a proseguire per Napoli anche senza scorta, per prenderne pacifico possesso. Nel messaggio, presentandosi come ministro di Francesco II, Liborio Romano sosteneva di aver accettato la carica “come un sacrificio dovuto alla patria”, di aver preso il potere “quando il pensiero dell’unità d’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II, che già da lungo tempo agitava i Napoletani, sostenuto dalla vostra spada, era diventato onnipossente; quando ogni fiducia tra governo e governanti era già rotta”. Don Liborio rivendicava di aver fatto il proprio dovere per mantenere la pubblica tranquillità e preservare lo Stato dalla guerra civile e si diceva pronto a cedere il potere al Generale, “confidente che lo terrete con vigore e che con sapienza indirizzerete questo paese al nobile scopo che vi siete proposto, il quale è scritto sulla vostra bandiera e nel cuore di tutti: Italia e Vittorio Emanuele”. Qualche ora prima, sempre per iniziativa di don Liborio, Garibaldi era stato raggiunto da Alexandre Dumas, suo vecchio amico, che si aggirava nel Golfo di Napoli a bordo di un panfilo comandato da una lolita in vesti da ammiraglio (!). Dumas riferì al Generale che il ministro degli interni del decaduto governo borbonico si teneva a sua disposizione per sventare i piani degli alleati di Cavour che volevano impedirgli di assumere la dittatura come aveva fatto a Palermo.
Il giorno successivo Liborio Romano accolse Garibaldi alla stazione di Napoli indirizzandogli un ampolloso messaggio a nome del popolo napoletano. Poi lo accompagnò in carrozza in giro per la città. Garibaldi lo ricompensò tenendolo come primo consigliere e successivamente nominandolo ministro degli interni e della polizia, con buona pace di Cavour e di tutte le speranze che aveva riposto nell’eccellentissimo don Liborio.
La spiegazione dell’ambiguità del ministro borbonico, del suo trasformismo, del suo agire e tramare a tutto campo, come in preda a una smania di onnipotenza, ce la suggerisce Nicola Nisco, autore di una “Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860”. La potenza di Liborio Romano “durò incontrastata per circa tre mesi; ché la camorra, divenuta polizia mercé di lui, lo inneggiava con entusiasmo perenne; ed era con filiale amore amato dalla guardia nazionale che si riteneva sua creatura. Le laudazioni e gli applausi lo fecero cadere in momentanea ubriachezza di potere con danno del suo nome e del suo paese”.
Nella sua breve parabola di ministro don Liborio dimostrò di non essere immune a tentazioni da satrapo, tipiche di un certo modo di fare politica (e forse di un certo retaggio culturale); ciò nonostante Cavour ritenne che la sua visione e la sua arte politica potessero servire alla causa nazionale. Il 20 agosto 1860, in qualità di ministro degli interni e a nome anche dei suoi colleghi, scrisse a Francesco II un messaggio in cui gli consigliava di “allontanarsi per qualche tempo dal paese e dalla casa dei suoi padri e lasciare con reggenza temporanea un ministero degno di fiducia”. La decisione gli sembrava inevitabile per via delle “straordinarie condizioni del paese”, della “difficilissima condizione in cui per l’esterno e per l’interno ne ha messo la Provvidenza”, che aveva reso “il ritorno della confidenza tra popolo e principe non solo difficile ma impossibile”. L’iniziativa di don Liborio cercava di accelerare un cambiamento che il ministro riteneva ineluttabile: “Siamo al cospetto dell’Italia, lanciata nella rivoluzione con in mano il vessillo sabaudo, cioè appoggiata col cuore e col braccio ad un governo forte e costituito e a una dinastia che è italiana e la più antica”. La visione del Romano era lucida e guardava al di là delle apparenze, per cogliere le trame più nascoste e delicate del governo di Cavour. “Garibaldi è strumento di calcolata politica”, diceva don Liborio, ed è probabile che tutto il suo atteggiamento verso il dittatore di Napoli fosse ispirato da questa consapevolezza, giustificando la fiducia altrimenti inspiegabile di Cavour.
Non a caso, nella fase più acuta del contrasto tra il conte e Garibaldi, quando esplose il dissenso sul modo di annettere le Due Sicilie al Piemonte e il generale fu tentato dalle sirene mazziniane e dal sogno di proseguire verso Roma, Liborio Romano si eclissò dalla scena politica, per riapparire – convinto sostenitore del metodo cavouriano – nel gennaio 1861, prima da membro del “consiglio di luogotenenza” di Napoli e poi da parlamentare del Regno d’Italia. Eletto in ben otto collegi, sarebbe rimasto in parlamento fino al 1865, distinguendosi in particolare nei dibattiti sull’organizzazione amministrativa del regno e sulla sistemazione del sud.
Ma il momento cruciale della sua vita e della sua carriera, il marchio impresso al suo destino, resta la mossa compiuta nel luglio del 1860, fresco di nomina a prefetto di Napoli: la scelta di arruolare nella “nuova polizia” i ras della camorra, l’intuizione – geniale e diabolica – di trasformare i delinquenti in uomini d’ordine. Da questa risoluzione controversa scaturisce per lo più la sua fama, e derivano i giudizi sferzanti che molti storici gli hanno riservato.
Ne “Il Risorgimento italiano” Denis Mack Smith lo definisce “personaggio infido”, anche se aggiunge che Cavour lo riteneva “l’uomo più responsabile di Napoli”. Un errore di prospettiva, lascia intendere, dovuto al fatto che a Napoli il conte non mise mai piede. Altrove, parlando delle riforme piemontesi nel Regno delle Due Sicilie, torna sulla figura di don Liborio e non esita ad apostrofarlo come autentico “farabutto”.
Le ragioni e la fondatezza di questo giudizio sono ribadite da un acuto osservatore di uomini come Montanelli: “Giunti a Napoli, i Piemontesi scoprirono con orrore che aveva reclutato nella polizia i più autorevoli caporioni della camorra”. Agli occhi di qualcuno, per una specie di proprietà transitiva, don Liborio diventa un camorrista o addirittura il “capo della camorra”. Di certo gli viene imputata, primo nella storia, la collusione con la malavita, come a dire un “concorso esterno in associazione mafiosa”.
Vergogna sembra aggiungersi a vergogna, poi, se si considera la disinvoltura politica del nostro, il suo repentino passaggio dalle file dell’amministrazione borbonica a quelle del governo garibaldino. Nel citare l’ingresso di Liborio Romano nel governo provvisorio formato a Napoli da Garibaldi, il giornalista Marc Monnier sostiene che “egli darà probabilmente le dimissioni, per ragioni di moralità politica: non si servono due governi uno dopo l’altro, anche quando si è servito male il primo”. E invece don Liborio restò al suo posto, con l’effetto di meritarsi la taccia di “uomo per tutte le stagioni”: una nomea sommaria e certamente dispregiativa che va, se non proprio sfatata, almeno messa in rapporto alle emergenze sociali e alle incombenze politiche che Liborio Romano dovette affrontare. Le testimonianze in proposito sono desolanti e concordi.
Il 17 marzo 1861, il giorno stesso della proclamazione del Regno d’Italia, Costantino Nigra, il fedele agente diplomatico di Cavour, scrive al conte da Napoli. Nella lettera, affranto, definisce la città “una bolgia”, ovvero una “miniera di pericoli”. Lamenta “un’amministrazione correttissima da capo a fondo” (di cui don Liborio è parte), una “pessima stampa”, un popolo “docile sì, ma instabile, ozioso e ignorante”. Descrive una situazione di profonda turbolenza: i soldati borbonici sbandati, i garibaldini malcontenti e affamati che, dopo aver preso soldo e congedo per tre mesi, si aggirano per le strade rubando per vivere. I nobili stanno a lutto per i Borboni nel rifugio di Portici, “divenuto il nostro faubourg de Saint Germain”; i Piemontesi pronunciano ogni sorta di ingiurie contro tutto quello che vedono e ascoltano. La sproporzione di forze è preoccupante: molti briganti e poche guardie, e poi “guastamestieri, pescatori di torbido, sobillatori”. E su tutto imperversa la minaccia delle febbri tifoidee.
Parole non dissimili erano state usate qualche mese prima, nel dicembre 1860, da Farini, inviato da Cavour a Napoli per reggere il governo provvisorio. “Non ci sono cento unitari in sette milioni di abitanti. Né pur di liberali c’è da far nerbo. E Napoli è tutto: la provincia non ha popoli, mandrie: qualche barone di titolo o di gleba la mena. Nella capitale ci sono dodicimila paglietta, cioè avvocati, rabule, torci leggi, storpia codici, lingue da tenaglia, coscienze da galeotto: costoro sono quelli che fanno tutto in piazza, nel foro, nella borsa, nei ridotti, nei teatri. (…) E per Dio ci soverchiano di numero nei parlamenti, se non stiamo ben uniti a settentrione. (…) Come andranno qui le elezioni? E quelli che crederemo buoni, saranno buoni? Non lo credo: i più non lo saranno. La verità non la dicono mai. Facia da forca, direbbe un buon Gianduia. Ma ci siamo in ballo e bisogna ballare. Oh se questa maledetta civiltà non vietasse il bastone, il taglio della lingua, le noyades!”.
Diversamente da altri osservatori, Farini non riconosceva alla dittatura di Garibaldi alcun merito in termini di progresso dell’amministrazione napoletana e rivendicava di aver compiuto i primi passi per uscire dallo stato di emergenza e ristabilire la legalità.
“Ho fatto deportare da Napoli nell’isola Santo Stefano tutti i capi della camorra che furono i capi della polizia e delle dogane durante la rivoluzione. E’ un’illegalità grossa, ma senza tor via costoro non si quetava Napoli”.
Dal coro dei lamenti si distacca parzialmente Marc Monnier, testimone diretto di quei giorni, secondo il quale la rivoluzione di Napoli è, dopo quella di Firenze, “la più bella dei nostri tempi”. Il merito, a suo dire, è della figura di Garibaldi, che incontra alla perfezione l’indole dei Napoletani. La “natura leonina” del Generale, la sua fama di invincibilità, la sua cavalcata inattesa e trionfale ne fanno un santo agli occhi dei lazzaroni. “E’ Dio che l’ha mandato per salvare il paese; parecchi lo chiamano Gesù Cristo; i suoi ufficiali sono gli apostoli. E’ in nome di Garibaldi che si chiede l’elemosina: qui tutto viene tradotto in devozione. (…) Decisamente Garibaldi ha detronizzato san Gennaro. Egli è ora patrono di Napoli. Regna e governa, è dappertutto, è tutto. Cammina davanti a sé con un’audacia sublime che gli dà ragione e lo salva dal pericolo”.
Nell’immaginario dei Napoletani Garibaldi è l’incarnazione moderna dell’eroe popolare, sostituisce Masaniello, lo supera perché ha guidato una rivoluzione vittoriosa. Viene adottato all’istante dalla popolazione perché suscita simpatia istintiva, empatia, e di questo si mostra perfettamente cosciente. “Il dittatore l’ha ben sentito, con il raro buon senso che somiglia al suo colpo d’occhio di soldato e che in lui sostituisce la scienza e l’arte politica”. La popolarità immensa di cui gode lo mette in una posizione delicata: confermare la sua fama con gli atti di governo.
Garibaldi sceglie la strada della moderazione. “I suoi primi decreti sono assolutamente saggi”. Non vuole portare la rivoluzione alle estreme conseguenze: resiste alle pressioni dei mazziniani relegandoli in “posti inoffensivi alla dogana e alla banca”, chiama al governo “uomini d’ordine e di capacità”. Cosenz, Pisanelli, Liborio Romano e Antonio Scialoia (ancora in esilio a Torino) ne fanno parte. Non ci sono repulisti: “i magistrati e gli ufficiali vengono tutti richiamati ai loro posti e debbono fare atto di presenza e di adesione: è la sola condizione che venga loro imposta. Le destituzioni sono rarissime, le dimissioni più rare ancora”.
Il 22 ottobre, giorno del plebiscito per l’annessione al Regno di Sardegna, Monnier si reca ai Comizi del Popolo e le sue impressioni sono meno lusinghiere. Il seggio è posto nella chiesa di san Francesco di Paola, di fronte al palazzo reale, sotto lo sguardo severo del forte di Sant’Elmo e dei suoi cannoni e quello più defilato del Vesuvio. Il tempo è bello, il cielo allegro, il popolo ebbro: una cartolina.
“Sotto il portico, tuttavia, lo spettacolo era meno pittoresco. La libertà di voto, promessa alla vigilia, era salvaguardata, ma la procedura delle votazioni lasciava molto a desiderare. C’era un’urna tra due canestri, l’uno pieno di sì, l’altro pieno di no. L’elettore vota alla presenza delle guardie nazionali e dinanzi alla folla. Il voto negativo era difficile da dare, fors’anche pericoloso. Nel quartiere di Monte Calvario, un uomo che aveva votato no e ostentava il suo voto con una certa iattanza, fu punito con un colpo di stiletto”.
Fin da subito il plebiscito appare come un passaggio “tecnico”, e in una certa misura forzato, che fa dei Napoletani Italiani per forza o per impulso ma non certo per convinzione.
“A Napoli il sentimento dominante è la paura. La quasi totalità dei cittadini è composta da uomini tranquilli e timorati. Essi erano prima per Ferdinando II, perché temevano le bombe di Sant’Elmo e gli svizzeri; oggi sono per l’Italia, perché temono il ritorno di quelle truppe e di quegli uomini chiamati oggi i bavaresi. Di gente francamente, positivamente annessionista non ce n’è molta; tuttavia l’annessione è la sola soluzione possibile. E’ il trionfo del signor di Cavour che, a dispetto dell’Austria e di Roma, e forse a dispetto della Francia, ha fatto del suo sogno una necessità”.
Fanno il paio con quelle di Monnier le parole del francese Maxime du Camp, che in un articolo apparso sulla Revue des Deux Mondes nel 1862 ricorda come, dopo aver gridato “Viva l’Italia una!”, la gente dei quartieri napoletani si chiedeva: “L’Italia, che cos’è? Una, che cosa significa?”.
Tra Napoli e l’Italia, quella di Cavour e dei Savoia, non scattò l’idillio. Il conte non volle e non ebbe il tempo di visitare la città, Vittorio Emanuele II lo fece fugacemente, passando in carrozza senza concedersi, stordito tra camorristi che gli si aggrappavano allo sportello e funzionari che si litigavano le onorificenze e il privilegio di stargli accanto. Una situazione inqualificabile, eguagliata soltanto dalla colpevole ignoranza di “cose napoletane” da parte dei nuovi governanti.
I politici del nord, in effetti, sapevano poco del Meridione. Si aspettavano di trovare una terra potenzialmente ricca che aveva soltanto bisogno di un’amministrazione onesta ed efficiente, modellata su quella “nordista”. Evidentemente sottovalutavano la portata dell’analfabetismo dilagante, le condizioni di un mondo rurale ancora bloccato al feudalesimo e di una popolazione diversa da quella con cui erano abituati a trattare, legata a una lingua incomprensibile e a “costumi esoterici” intrecciati con un diffuso malaffare.
Dopo l’annessione vennero introdotte al più presto riforme liberali. Fu proclamata la libertà di stampa, anche se pochi sapevano leggere e scrivere; furono introdotte procedure e istituti complessi come le elezioni e le giurie, suscettibili di travisamenti e distorsioni in un ambiente pressoché feudale come quello dell’ex regno borbonico; vennero sconsideratamente imposte tasse più alte e tariffe più basse, adatte ad un paese con un livello di sviluppo economico molto maggiore; venne mutuata dal Piemonte l’istruzione obbligatoria senza essere in grado di fornire insegnanti e scuole e senza stimolare il desiderio di istruzione della popolazione; quando vennero allontanati dei professori universitari, spesso per rancori privati o motivi puramente politici, la loro sostituzione fu affidate a persone di dubbia competenza e integrità; furono sciolti i monasteri senza calcolare gli effetti di questa decisione sul sistema di assistenza e beneficenza esistente, sulla disoccupazione e sui sentimenti di una popolazione profondamente cattolica.
In breve montò il malcontento. I sistemi di clientela e nepotismo, messi in discussione, reagirono sollevando un movimento di opposizione ai nuovi amministratori, così vasto che la quasi unanimità espressa nei plebisciti di annessione ormai faceva sorridere. I nuovi governanti capirono che le strade facili erano due: la legge marziale o la connivenza con la corruzione locale. Si scelse per lo più quest’ultima. In parlamento Nicotera, vecchio compagno di Pisacane e futuro ministro, denunciò che il governo sabaudo superava per iniquità quello borbonico, che era stato definito “la negazione di Dio”.
In circostanze tanto delicate, a contatto con una realtà instabile e potenzialmente esplosiva, Liborio Romano non poteva fare assai più di quanto fece, negli atti pratici e nell’ampiezza dei progetti politici. Da prefetto di polizia e poi da ministro degli interni gestì la delicata transizione dal governo borbonico a quello annessionista di Garibaldi e degli emissari sabaudi. A lui spettò “il gran gioco da prestigiatore politico” di far scomparire Francesco II e far comparire il Generale sulla scena partenopea e don Liborio lo portò a termine con indiscutibile abilità. Cercò di restaurare l’ordine a Napoli con mezzi tanto efficaci quanto discutibili (con l’effetto di ritagliare una nicchia alla presenza disdicevole della camorra nella storia del Risorgimento) e si prodigò per ridurre al minimo il vuoto di potere seguito alla fuga di “Franceschiello”. Dimostrò un istinto da uomo di palazzo, pur dovendo la sua fortuna politica alla reputazione di amico del popolo. Restò ministro sotto Francesco II e Garibaldi, diventò referente di Cavour a Napoli dopo l’annessione, fu l’elemento di continuità mentre tutto cambiava, il trait d’union tra le diverse fasi della metamorfosi. Nel guidare la transizione, di fronte a una monarchia in fuga e a un governo che rapidamente evaporava, agì con risolutezza e coraggio. E per questo, con ogni probabilità, prima Garibaldi e poi Cavour gli riconobbero la dignità di rappresentare Napoli e il suo passato politico al cospetto del cambiamento.
Letture:
Carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861. Volume quarto: la liberazione del Mezzogiorno, Reale Commissione Editrice, Modena, 1929.
De Sivo Giacinto, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Edizioni Viterbo, 1867.
Mack Smith, Denis, Il Risorgimento italiano, Laterza, Roma-Bari, 1999.
Monnier Marc, Histoire de la conquete des Deux Sicilies, Parigi, 1861.
Montanelli Indro, L’Italia del Risorgimento, Rizzoli, Milano, 1972.
Nisco Nicola, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860, Napoli, 1908.
Pinto Paolo, Vittorio Emanuele II: il re avventuriero, Mondadori, Milano, 1995.