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Con uno stanziamento di 2,3 miliardi di dollari di rimborsi fiscali a beneficio delle imprese del settore delle energie alternative, il presidente Obama e con lui tanti democratici dimostrano di riporre grandi speranze nel futuro delle rinnovabili. Ma le loro aspettative si scontrano tanto con la teoria economica quanto con l’esperienza europea. I programmi “verdi” in Spagna hanno distrutto 2,2 posti di lavoro per ogni posto di lavoro creato; in Italia, con il capitale investito per creare un posto di lavoro “verde” se ne sarebbero potuti creare cinque nel quadro dell’economia tradizionale. In Germania, l’introduzione delle energie solare ed eolica ha fatto impennare i costi dell’energia domestica del 7,5%, e alla Danimarca ha regalato le bollette elettriche più care del continente. I pianificatori federali statunitensi che tentano di promuovere l’industria verde non riusciranno a far niente di meglio. Non creeranno nuovi posti di lavoro, e non stimoleranno l’economia.

Il verde è il nuovo nero, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa. Praticamente chiunque a sinistra ha indossato pantaloni verdi, magliette verdi e cappotto verde, in omaggio a quello che, ci assicurano, sarà il futuro del nostro pianeta. I discorsi di Obama contengono continui riferimenti all’economia verde. Il piano Obama/Biden del 2008 “Nuova energia per l’America” è un continuo discettare di lavori verdi, tecnologia verde, produzioni verdi, costruzioni verdi. In un discorso tenuto al Comitato nazionale del Partito democratico nel settembre 2010, Obama, dopo aver ammonito che “stiamo restando indietro [su ricerca e innovazione]”, ha annunciato: “Abbiamo fatto il più grande investimento nelle energie alternative della nostra storia, potremo iniziare a costruire pannelli solari e turbine eoliche per tutta la nazione”.

Il 13 agosto, il vicepresidente Joe Biden si è unito alle lodi del verde: “Non è abbastanza salvare l’economia, dobbiamo ricostruirla migliore. E questo lavoro inizia dando agli industriali americani le risorse per produrre l’energia verde e pulita che sarà alla base della nostra economia nel Ventunesimo secolo. Con il lancio, oggi, di crediti sotto forma di rimborso fiscale per 2,3 miliardi di dollari a beneficio dei produttori di tecnologia verde, stiamo dando il via a una rapida crescita della produzione nazionale in questo settore, creando al contempo migliaia di nuovi posti di lavoro proprio qui, in casa nostra. Dall’energia eolica e solare fino alle auto elettriche, la nostra ripresa verrà alimentata dagli incentivi fiscali che stiamo offrendo agli imprenditori di oggi, affinché costruiscano la nostra economia di domani”.

L’ex speaker Nancy Pelosi (democratica, eletta in California) è un’altra sostenitrice della causa verde. Il risvolto di copertina della pubblicazione che riporta il discorso da lei tenuto alla Stanley School di Waltham, nel Massachusetts, inizia così: “Per un futuro più prospero e luminoso, dobbiamo investire in un’infrastruttura verde e un’economia verde, in scuole verdi che preparino lavoratori verdi destinati a posti di lavoro americani verdi e ben pagati”.

Non poteva mancare in questa rassegna il senatore Harry Reid (democratico, eletto nel Nevada). In una riunione al Senato tra democratici dedicata ai “lavori verdi” tenutasi nel 2009, Reid si è vantato dei suoi meriti verdi: “Abbiamo fatto investimenti senza precedenti nelle energie rinnovabili, quindi pulite, e nella creazione di nuovi posti di lavoro verdi che non possono essere esternalizzati. Nel 2007 abbiamo fatto approvare una legge fondamentale in materia energetica, che ha portato allo sviluppo di biocarburanti qui, in America, e alla creazione dei posti di lavoro connessi a queste attività. Abbiamo innalzato gli standard di efficienza nel consumo di carburanti per la prima volta nell’arco di una generazione, e impostato nuovi standard di efficienza energetica per illuminazione, elettrodomestici, uffici federali e veicoli. Nel piano di ripresa economica che abbiamo approvato quest’anno, ci sono investimenti per 67 miliardi destinati allo sviluppo dell’energia pulita, più 500 milioni di dollari destinati alla formazione di una nuova forza lavoro di ‘colletti verdi’, di americani che ogni giorno renderanno il nostro paese più efficiente nei consumi e più indipendente nell’energia”.

Così, almeno per quanto riguarda la sinistra, c’è unanimità: il futuro del mondo è verde: energia verde che alimenta tecnologie verdi, che creano abitazioni, palazzi, automobili verdi e anche tanti, tanti, tanti posti di lavoro, ovviamente verdi. Ma c’è da chiedersi: una tale visione delle cose si basa o no su valutazioni economiche realistiche, su una comprensione reale della tecnologia verde, su previsioni plausibili sulla potenziale crescita di tutto il movimento verde? Il Rapporto che vi proponiamo indagherà su quanti e quali posti di lavoro siano stati effettivamente creati dai sussidi statali, per poi esaminare la problematica esperienza che, parlando di energia verde e lavori verdi, hanno avuto sino a oggi gli europei.

Energia verde e lavori verdi. Per capire quanto sia in errore il governo quando parla di creare posti di lavoro per mezzo di sussidi e leggi, basta rifarsi all’economista francese Frédéric Bastiat. Nel 1850, Bastiat spiegava l’inefficacia intrinseca di un tale approccio indicandola come “la credenza della finestra rotta”. La credenza, fallace, funziona così: si immagini che dei negozianti abbiano le proprie vetrine infrante per i sassi lanciati da alcuni ragazzini. All’inizio la gente simpatizza con i negozianti, fino a quando qualcuno non suggerisce che, in fondo, quanto accaduto è un fatto positivo. Dopo tutto, è stato “creato lavoro” per i vetrai, che saranno quindi in grado di comprare più cibo beneficiando in tal modo il droghiere, o più vestiti beneficiando il sarto. Se si rompessero abbastanza vetrine, i vetrai potrebbero addirittura assumere un assistente, creando un posto di lavoro.

Allora i bambini hanno reso un pubblico servizio, rompendo le vetrine? No. Dobbiamo anche considerare quello che i negozianti avrebbero fatto con i soldi che sono stati costretti a spendere per comprarsi delle nuove vetrine. Molto probabilmente, i negozianti avrebbero investito quei soldi nei loro negozi; avrebbero magari acquistato nuovi stock di merce, o forse assunto nuovi commessi. Se le vetrine non fossero state infrante, la città avrebbe comunque goduto della creazione di nuovi posti di lavoro grazie alla spesa dei negozianti, i quali in aggiunta avrebbero conservato il valore delle loro vetrine. Però le vetrine sono state infrante, e perciò loro, e tutto il villaggio in quanto comunità, sono stati resi più poveri.

E’ noto, tra gli economisti, che lo stato non “crea” posti di lavoro; li crea la volontà degli imprenditori di investire il proprio capitale, insieme alla domanda dei consumatori per beni e servizi. Tutto quel che lo stato può fare è sovvenzionare certe industrie, caricando costi più alti sulle altre. Nel caso dell’economia verde, si tratta di distruggere posti di lavoro nel settore dell’economia convenzionale – e probabilmente in altri settori dell’industria – attraverso tasse e sussidi alle nuove aziende “verdi”, che grazie ai soldi dei contribuenti saranno più competitive. I posti di lavoro sovvenzionati sono, per definizione, un impiego meno efficiente di capitale rispetto ai posti di lavoro creati dal libero mercato. Ciò significa che sono meno produttivi dei lavori che vanno a rimpiazzare, e contribuiscono di meno alla crescita economica. Infine, il bene prodotto dai posti di lavoro creati dal governo è intrinsecamente un bene non economico che deve essere mantenuto indefinitamente, spesso senza un modello di gestione economica, come accade per le strade, le ferrovie, i mezzi pubblici, e probabilmente anche le pale eoliche, le installazioni fotovoltaiche e tutte le altre tecnologie verdi.

Per illustrare i punti fin qui esposti in maniera concreta, presenterò nel seguito quanto accaduto in quattro nazioni europee innamoratesi delle rinnovabili, fantasticando sui posti di lavoro che queste avrebbero portato: Spagna, Italia, Germania e Danimarca.

Spagna. La Spagna è stata per lungo tempo considerata leader nello sviluppo delle energie rinnovabili. Obama l’ha portata ad esempio in un suo discorso del 2009: “Abbiamo vastissimi legami commerciali tra i nostri due paesi – ha detto il presidente – e vi prometto che lavoreremo sodo per renderli ancor più solidi, con particolare riguardo all’importantissimo tema delle energie rinnovabili e dei trasporti, nei quali la Spagna è stata leader mondiale e nei quali, credo, gli Stati Uniti dispongono di un immenso potenziale per progredire”.

Subito dopo il discorso presidenziale, però, si è verificata una catena di eventi che ha seriamente incrinato la fantasiosa fama della Spagna quale leader nella creazione di “lavori verdi”. Nel marzo del 2009, un team di ricercatori dell’Università Rey Juan Carlos, guidato dallo studioso Gabriel Calzada Alvarez, hanno pubblicato un rapporto sugli effetti economici del grande impegno profuso dalla Spagna nello sviluppo delle rinnovabili. Quel che hanno trovato non collima con le tante lodi che tradizionalmente vengono tributate al “lavoro verde”.

In sintesi:

–          A partire dal 2000, la Spagna ha speso 571 mila euro per la creazione di ogni singolo posto di lavoro “verde”, includendo nel calcolo anche sussidi pari a più di un milione di euro per ogni singolo posto di lavoro nell’industria eolica.

–          I programmi che hanno creato quei posti di lavoro hanno distrutto quasi 110.500 posti di lavoro in altri settori dell’economia; il saldo è di 2,2 posti di lavoro perduti per ogni lavoro “verde” creato.

–          L’alto costo dell’energia influisce negativamente sui costi di produzione e sui livelli di impiego in metallurgia, industria estrattiva dei minerali non metallici, industria conserviera e del tabacco.

–          L’installazione di ogni megawatt verde distrugge, in media, 5,28 posti di lavoro in altri settori dell’economia.

–          Tali costi non sono conseguenza delle particolari politiche seguite dalla Spagna, ma risiedono piuttosto nel metodo scelto in tutto il mondo per promuovere le energie rinnovabili.

La Spagna ha scoperto che la sua corsa alle rinnovabili non è sostenibile. Bloomberg riferisce che, in quel paese, sono stati drasticamente tagliati i sussidi per la costruzione di nuove centrali solari. Come osserva Andrew McKillop sull’Energy Tribune: “In Spagna, dove i sussidi alle grandi ‘fabbriche del vento’ e alle varie attività connesse si stima abbiano raggiunto i 12 miliardi di euro fino al 2009, spesi direttamente tramite sussidi o indirettamente per mezzo di contratti di vendita dell’energia dai costi artificiosamente alti, le proposte del governo mirano a un taglio dei sussidi di almeno il 30 per cento. Le maggiori industrie del settore eolico, come Gamesa, hanno iniziato a licenziare, e a cercare di vendere al di fuori dell’Europa, aiutate in questo dalla debolezza dell’euro. Inoltre, dato l’alto deficit pubblico che fa della Spagna un bersaglio privilegiato della speculazione a caccia di ritorni attraverso l’aumento degli interessi sui buoni del Tesoro, è probabile che il governo di Madrid riduca i finanziamenti alle centrali rinnovabili esistenti, realizzate in un’ottica di prezzi di vendita garantiti e di sussidi governativi della durata di 25 anni”.

C’è poi il problema della corruzione. Come si legge su Bloomberg Businessweek, “un’inchiesta nel settore dell’energia solare relativa al periodo novembre 2009-gennaio 2010 ha rilevato che alcuni operatori erano stati pagati per fare cose impossibili, come produrre energia elettrica di notte”. Alcuni indizi indicano che gli operatori del fotovoltaico “potrebbero aver venduto energia prodotta con generatori diesel facendola passare per energia prodotta dai loro pannelli fotovoltaici, dal costo molto più alto di quella generata con combustibili fossili”. Diciannove operatori in energie “pulite” sono stati arrestati con accuse che vanno dalla truffa all’interesse privato in atti d’ufficio (per l’assegnazione di licenze ad amici o familiari) alle irregolarità edilizie. Come scrive il Guardian: “Quando la commissione nazionale spagnola ispezionò una trentina di giardini solari, trovò che soltanto tredici erano stati costruiti secondo le regole e che, in definitiva, non facevano altro che immettere energia a costi drogati nella rete elettrica”.

Italia. Una situazione molto simile si è verificata in Italia, anch’essa tra i paesi guida nell’installazione di centrali solari ed eoliche. Uno studio realizzato da Luciano Lavecchia e Carlo Stagnaro per l’Istituto Bruno Leoni ha evidenziato una realtà ancora peggiore di quella spagnola: “Abbiamo confrontato la quantità media di capitale necessaria per un posto di lavoro nel SER (Sistema delle energie rinnovabili) con quella necessaria per un posto di lavoro in un altro tipo di industria, o più in generale negli altri settori dell’economia. Abbiamo trovato un rapporto, rispettivamente, di 6,9 e di 4,8. In altri termini, con i soldi necessari per creare un posto di lavoro nel settore ‘verde’ si potrebbero creare 6,9 posti di lavoro nell’industria ‘non verde’, o, più in generale, 4,8 posti di lavoro in tutti gli altri settori dell’economia – anche se va sottolineato che esistono differenze tra i vari settori del SER, per esempio l’energia eolica può creare posti di lavoro più facilmente di quella solare. In ogni caso i rapporti di cui sopra costituiscono un dato particolarmente rilevante, perché non tengono conto del valore assolutamente trascurabile dell’energia rinnovabile prodotta, bensì soltanto dei sussidi. Se avessimo tenuto conto del valore dell’energia, quei rapporti sarebbero ancora più alti. Dal momento che i sussidi sono sottratti forzosamente al ciclo economico e assegnati con criteri politici, diventa assai importante avere una chiara visione delle conseguenze che provocano”.

I due ricercatori hanno rilevato che la gran parte dei “lavori verdi” creata è temporanea: “Utilizzando quelle che ci sembrano stime gonfiate, attinte da varie fonti, di ‘lavori verdi’ già in essere, abbiamo tra i 9 mila e i 26 mila posti di lavoro nell’eolico, tra i 5.500 e i 14.500 posti di lavoro nel solare. Da questo punto di partenza abbiamo calcolato che, grazie ai sussidi promessi dal governo, il numero delle persone impiegate nell’economia verde aumenterà fino a un totale tra i 50 mila e i 112 mila entro il 2020. Però, la maggioranza di questi posti di lavoro – per lo meno il 60 per cento – andrà ad installatori e altre tipologie temporanee che scompaiono una volta che il pannello fotovoltaico o la torre eolica sono operativi”.

Per di più, come la Spagna, anche l’Italia ha assistito a una corruzione dilagante nel settore delle rinnovabili. Con la differenza che, invece di avere tanti privati cittadini che truffano lo Stato, qui a muoversi è anche la mafia. Come scrivono Nick Squires e Nick Meo sul Telegraph, “attratta dai ricchi contributi destinati allo sviluppo delle energie alternative, la cosiddetta ‘ecomafia’ ha messo fraudolentemente le mani su milioni di euro erogati dal governo di Roma e dall’Unione europea”. Così prosegue il reportage: “Otto persone sono state arrestate nel quadro dell’inchiesta ‘Eolo’, dal nome del dio greco del vento, per l’accusa di corruzione a pubblici ufficiali nella città di Mazara del Vallo; avrebbero donato auto di lusso e versato mazzette di 30-70 mila euro”. Dalle intercettazioni della polizia emerge la profondità dell’infiltrazione mafiosa nel settore eolico. Un presunto mafioso telefona alla moglie, e le dice: “Nessuna pala eolica verrà costruita a Mazara, se io non voglio”. In un’altra inchiesta sviluppatasi a novembre, battezzata “Via col vento”, quindici persone sono state arrestate per l’accusa di aver tentato di frodare 30 milioni di euro di fondi dell’Unione europea. Tra gli arrestati spicca il presidente dell’Associazione italiana energia eolica, Oreste Vigorito.

Germania. L’avventura tedesca nelle energie rinnovabili è iniziata nel 1997, quando l’Unione europea fissò il traguardo del 12% di energia prodotta da energie rinnovabili. Il metodo scelto dalla Germania per arrivarci fu quello di promulgare leggi che richiedevano ai produttori di energia di acquistare vari tipi di energie verdi a determinati prezzi. In uno studio su questo metodo estremamente aggressivo di promozione delle rinnovabili, Manuel Frondel osserva che il sistema legislativo tedesco imponeva alle utility energetiche di acquistare energia solare a un prezzo di 59 centesimi per kilowattora; ben più alto del costo dell’energia convenzionale, che era tra i tre e i dieci centesimi. I sussidi per l’eolico, aggiunge Frondel, servivano a produrre energia a un costo del 300 per cento superiore ai costi convenzionali.

Ovviamente, questi massicci sussidi attrassero una legione di investitori nel solare e nell’eolico. Dopotutto, se il governo è disposto a garantire un mercato per qualche decennio, ed è disposto a fissare prezzi abbastanza alti da garantire ritorni ai produttori, allora il capitale non può che fluire copioso. La Germania diventò il secondo produttore mondiale di energia eolica dopo gli Stati Uniti, e altrettanto decisa fu la sua accelerazione nel campo del solare. Però, sempre secondo Frondel, le cose non andarono come si auguravano politici e ambientalisti. Piuttosto che creare benefici in termini di minori costi energetici e crescita dei “lavori verdi”, lo sviluppo dell’energia solare ed eolica innalzò il costo delle bollette domestiche del 7,5%. Le emissioni serra vennero sì ridotte, ma a un prezzo esorbitante: a più di mille dollari la tonnellata per il solare, a più di 80 dollari per l’eolico. Calcolando che il prezzo della CO2 nel mercato comunitario delle emissioni serra (European Trading System) era fissato, all’epoca, a 19 dollari la tonnellata, non si trattò, evidentemente, di un grande investimento.

“La politica tedesca sulle rinnovabili, e in particolare lo schema delle tariffe regolate, ha fallito nel tentativo di fare sbocciare, per mezzo di incentivi, un sistema energetico basato sulle rinnovabili nel portfolio energetico della nazione. Al contrario, il meccanismo di supporto statale ha, sotto molti punti di vista, reso deleteri gli incentivi, trasformandoli in spese che, a fronte di un costo altissimo, offrivano scarsissime promesse sul lungo termine in termini di stimolo all’economia, di protezione dell’ambiente, di aumento della sicurezza energetica. Nel caso del fotovoltaico, il regime di sussidi adottato in Germania ha raggiunto livelli tali da superare, di molto, il valore dei posti di lavoro creati, costati ognuno 175 mila euro: ben più delle paghe percepite”.

Frondel conclude: “Il governo ha sbagliato a stanziare incentivi intesi a garantire l’introduzione di un efficace sistema di produzione di energie rinnovabili nel sistema energetico nazionale. Al contrario, il meccanismo scelto di supportare le tecnologie rinnovabili attraverso tariffe regolate (artificialmente alte, ndt) ha imposto alti costi senza dare in cambio alcuno dei presunti vantaggi in riduzione delle emissioni, posti di lavoro, indipendenza energetica, innovazione tecnologica. Per tutto ciò, i politici – anche quelli dell’America, dove attualmente ci sono quasi 400 programmi tra statali e federali che forniscono incentivi alle rinnovabili – devono studiare attentamente l’esperienza della Germania. Sebbene la promozione tedesca delle rinnovabili è comunemente descritta dai media come ‘esempio luminoso che promette ricchi raccolti per il mondo’ (The Guardian, 2007), la nostra esperienza nazionale dovrebbe invece mettere in guardia da una politica costosissima e priva di qualsivoglia beneficio, ambientale o economico”. Come la Spagna e l’Italia, anche la Germania trova difficile continuare a finanziare il solare e l’eolico ai livelli come in passato. In maggio, il Parlamento tedesco ha tagliato del 16% i sussidi per le installazioni solari domestiche, del 15% quelli per le installazioni non su abitazioni.

Danimarca. La Danimarca è un’altra nazione famosa per la sua politica energetica. Il suo aggressivo programma eolico ha avuto le lodi dello stesso Obama, che rivolgendosi alla platea dell’Earth Day, nello Iowa, ha detto: “L’America produce meno del tre per cento della sua elettricità per mezzo di fonti rinnovabili come eolico e solare. Meno del tre per cento. Si pensi, come paragone, che la Danimarca ricava quasi il venti per cento del suo fabbisogno nazionale con l’energia eolica”. L’agenzia federale preposta alla comunicazione nel settore dell’energia racconta ai bambini americani che “su scala mondiale, la Danimarca si classifica nona per capacità eolica, e genera circa il 20 per cento dell’energia dal vento”. Impressionante. Sarà vero?

No, se si crede a quanto riferisce il think-tank danese CEPOS che, nel 2009, ha pubblicato un rapporto intitolato “Energia eolica, il caso danese”. Il CEPOS ha scoperto che, più che affermare che la Danimarca genera il 20 per cento della sua energia dal vento, è più corretto dire quanto segue: “La Danimarca genera l’equivalente di circa il 19 per cento della sua domanda d’elettricità con le turbine eoliche, ma l’energia eolica contribuisce assai meno che al 19 per cento della domanda nazionale. Si tratta di un dato largamente gonfiato. Data la sua natura intermittente, recentemente (2006) l’energia eolica ha coperto appena il 5 per cento del consumo annuale elettrico danese, e la media negli ultimi cinque anni è stata del 9,7 per cento”.

Lo studio del CEPOS rivela che la Danimarca può produrre e consumare un alto quantitativo di energia eolica solo grazie ad alcune circostanze fortunate, tra cui quella di trovarsi come nazioni confinanti paesi che dispongono di abbondante energia idroelettrica. Ciò permette loro di bilanciare con efficienza e tempestività il flusso di elettricità nella rete nazionale della Danimarca, dando a questa la possibilità di esportare un eventuale surplus di energia eolica. “La Danimarca riesce a mantenere il suo sistema energetico bilanciato grazie ai suoi vicini e al loro mix energetico. Norvegia e Svezia forniscono a Danimarca, Germania e Olanda la possibilità di accedere, con interconnettori, a cospicue riserve energetiche utilizzabili rapidamente sul breve termine. Questi paesi limitrofi fungono, in pratica, da ‘batterie di riserva’ della Danimarca. L’energia idroelettrica di Norvegia e Svezia può essere accesa o spenta rapidamente, e si può dire che i laghi norvegesi ‘immagazzinano’ l’energia eolica danese. Negli ultimi otto anni, in media, la Danimarca occidentale ha esportato (non può utilizzarla) il 57 per cento dell’energia eolica generata, la Danimarca orientale il 45 per cento. Peraltro, i dati relativi all’output eolico, che è alto, e i flussi della rete elettrica, rendono indiscutibile il fatto che gran parte dell’elettricità prodotta provenga dal vento”.

Il problema è che poi chi paga le bollette riceve uno sganassone. I prezzi dell’elettricità, in Danimarca, sono più alti che nel resto dell’Unione europea. E parlando di riduzione delle emissioni serra, cosa si può dire? Che i vantaggi sono stati scarsi se non nulli, dal momento che l’energia eolica esportata va a sostituire energia idroelettrica , che produce quantità irrisorie di CO2. L’energia eolica non esportata ha sostituito un certo quantitativo di energia da combustibili fossili, ma a un costo di 124 dollari per tonnellata, quasi sei volte il prezzo fissato dall’European Trading System. Per quanto riguarda i lavori verdi, il CEPOS ha scoperto che “l’effetto dei sussidi statali è stato quello di spostare posti di lavoro all’industria eolica, prendendoli però da settori più produttivi. Di conseguenza, il Pil danese è più basso di circa 1,8 miliardi di corone (270 milioni di dollari) di quello che sarebbe stato se la forza lavoro impiegata nell’eolico fosse stata impiegata altrove”.

Non sorprende che la Danimarca stia considerando insostenibili le rinnovabili, e si stia allontanando da quella tecnologia. Come riferito da Andrew Gilligan sul Telegraph, l’industria energetica statale danese non costruirà più turbine eoliche sulla terraferma, mentre l’opinione pubblica si lamenta degli alti costi dell’energia e del degrado ambientale. “All’inizio di quest’anno, è stata fondata l’associazione ‘Quelli che abitano vicino alle pale eoliche’, contraria all’eolico. Ne sono diventati membri oltre quaranta associazioni civiche. ‘La gente è stufa di assistere alla svalutazione delle sue case e dei suoi terreni, e di avere il sonno rovinato dal rumore delle turbine’ dichiara il presidente dell’associazione, Boye Jensen Odsherred. E aggiunge: ‘Riceviamo costantemente chiamate di associazioni civiche che vogliono unirsi a noi’”.

Conclusioni. Tanto la teoria economica quanto l’esperienza delle nazioni europee che hanno provato a costruire un’economia verde in grado di creare posti di lavoro “verdi” ha dimostrato che un tale intendimento è sbagliato. Spagna, Italia, Germania e Danimarca hanno tentato, e nessuna è riuscita a trarre un qualche risultato positivo dalle energie rinnovabili. C’è chi sostiene che negli Stati Uniti sarà diverso, e che i pianificatori americani avranno la saggezza sufficiente per far sì che, in America, l’economia verde funzioni. Ma non è possibile negare che non si migliora l’economia né si aumenta il numero dei posti di lavoro rompendo finestre; e i pianificatori americani non sono migliori di quelli europei.

Desidero ringraziare l’assistente ricercatore dell’AEI Hiwa Alaghebandian per il suo valido aiuto nella stesura di questo Rapporto.

Tratto da American Enterprise Institute

Traduzione di Enrico De Simone