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Le rivolte del mondo arabo. Dall’inizio delle rivolte in nord Africa e in Medio Oriente, la cosiddetta “Primavera Araba”, sono trascorsi 6 mesi in cui si sono susseguite le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, la guerra civile in Libia, le ribellioni in Medio Oriente e i tumulti negli Stati della penisola Araba. Il leit motiv delle manifestazioni è stato la richiesta di un cambiamento politico e di riforme economiche, volti ad assicurare maggiori diritti e libertà, e, in alcuni casi, si è arrivati anche alla destituzione dei Capi di Stato di quei Paesi. I risvolti sono stati diversi: dalla deposizione del presidente Mubarak, alla forte repressione armata in Siria, alla minaccia in Bahrain dell’arrivo nel paese di truppe e polizia dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti per fermare i tumulti, al conflitto libico. Tra le rivoluzioni della primavera araba risaltano il caso libico e siriano; due contesti per certi aspetti simili nei confronti dei quali la comunità internazionale ha agito diversamente: nel primo caso si è assistito all’intervento di una coalizione di volenterosi (coalition of the willing), sotto l’egida delle Nazioni Unite e il comando della Nato, nel secondo solo a una forte condanna da parte del Consiglio di Sicurezza (CdS), attraverso una dichiarazione, e di tutta la comunità internazionale per la violazione dei diritti umani.

La Guerra in Libia. Il colonnello Muammar Gheddafi, fino allo scorso febbraio, è stato per 42 anni il leader indiscusso del paese dal golpe dell’1 settembre 1969, che ha dato inizio alla Jamahiriya (il “governo delle masse”). Con un effetto domino, le rivolte scoppiate in Algeria, Tunisia ed Egitto si sono spostate in Libia, inizialmente a Bengasi, e successivamente nella capitale Tripoli e nella città di Misurata. Le proteste sono aumentate rapidamente fino ad assumere le sembianze di una guerra civile tra gli insorti e le forze lealiste di Gheddafi. Il conflitto è di duplice natura: da un lato, si configura come un conflitto armato non internazionale tra i ribelli e le forze lealiste, disciplinato dal diritto internazionale umanitario; dall’altro, è un conflitto armato internazionale tra la coalizione dei volenterosi e lo Stato libico, disciplinato dal I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949. Di fronte all’escalation del conflitto, il Consiglio di Sicurezza ha approvato dapprima la Risoluzione n. 1970 (2011) del 26 febbraio, che sancisce l’embargo sulle armi e le sanzioni individuali – quali il congelamento dei beni e dei capitali – nei confronti della famiglia del Raís, dando inizio all’operazione “Odissea all’Alba” (Odissey Dawn). L’operazione, guidata dalla coalizione dei volenterosi, vede come principali promotori Francia, Inghilterra e Stati Uniti ai quali si sono aggiunti successivamente fornendo supporto militare Belgio, Bulgaria, Canada, Danimarca, Italia, Grecia, Giordania, Olanda, Norvegia, Qatar, Romania, Spagna, Svezia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. In seguito, data la mancata applicazione della stessa da parte delle autorità libiche, l’aumento della violenza e la presenza di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani (le cosiddette gross violations), il 17 marzo il CdS ha adottato, con 10 voti favorevoli e 5 astensioni – Russia, Cina, Brasile, India e Germania – la risoluzione n. 1973 (2011). Con questa, la coalizione dei volenterosi, impegnata nell’operazione Odissea all’Alba, è posta sotto il comando Nato, assumendo il 28 marzo la denominazione Unified Protector. Il comando dell’operazione è passato al Generale canadese Charles Bouchard che opera presso il Joint Force Command (JFC) di Napoli.

La Risoluzione 1973 (2011). Con la risoluzione 1973 (2011), il CdS, ritenendo che la situazione in Libia possa costituire una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, e agendo sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ha richiesto:
–    l’immediato cessate il fuoco e la fine degli attacchi contro la popolazione civile al governo libico;
–    l’intensificazione degli sforzi per trovare una soluzione pacifica alla crisi;
–    l’adempimento, da parte delle autorità libiche, degli obblighi derivanti dal diritto internazionale, diritto internazionale umanitario, diritti umani e diritto dei rifugiati.
La risoluzione, di seguito approfondita nel dettaglio, non prevede alcun intervento militare via terra nel territorio libico, per cui le operazioni in corso sono aeree e marittime.  Quando si parla di operazioni militari, uno dei punti più controversi è l’uso della forza armata e i suoi limiti. Secondo quanto previsto dalla Risoluzione, l’uso della forza è consentito e rintracciabile nel testo nell’espressione “all necessary measures”, più volte reiterato, con la quale si indicano tutte le misure necessarie, ivi compreso la forza armata. Con riferimento ai contenuti della risoluzione 1973 (2011), tenendo presente che l’intento della stessa è umanitario e non avendo come fine ultimo il cambiamento politico del regime, i punti rilevanti del testo sono quattro: protezione della popolazione civile, no-fly zone e divieto di volo, embargo sulle armi e congelamento dei beni e capitali della famiglia Gheddafi. Il CdS autorizza gli Stati membri, che agiscono singolarmente o nell’ambito di un’organizzazione o accordo regionale, ad adottare tutte le misure necessarie (all necessary measures) per proteggere la popolazione civile e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco (paragrafo 4), escludendo la possibilità di dispiegamento di una forza di occupazione straniera, di qualsiasi forma, all’interno del territorio libico. Tale eccezione, unico riferimento a una limitazione dell’intervento, ha sollevato non pochi dubbi. Di fatto, non è ben chiaro se sia vietata solo una presenza prolungata di forze straniere e quindi sia consentita solo per brevi periodi, quali potrebbe essere prestare soccorso. È istituita una no-fly zone (paragrafo 8), ossia un’area di interdizione nello spazio aereo libico, per proteggere i civili, sancendo quindi il divieto di volo, che riguarda il decollo, l’atterraggio e il sorvolo dei velivoli registrati in Libia o gestiti da compagnie o cittadini libici. Fanno eccezione i voli a scopo umanitario, per l’accesso degli operatori umanitari, per l’evacuazione di cittadini stranieri, per quelli autorizzati dal paragrafo 4 o 8 e, infine, per quelli ritenuti necessari, secondo gli Stati, a beneficio del popolo libico. Gli Stati membri, anche in questo caso, sono autorizzati a prendere tutte le misure necessarie per eseguire il divieto. Altro punto importante è l’embargo sulle armi nei confronti della Libia (paragrafo 13). Il CdS invita gli Stati membri ad assicurare la rigorosa applicazione dell’embargo così come stabilito nella precedente risoluzione 1970 (2011) e modificato dalla presente. Si tratta di attività di ispezione del proprio territorio, compresi i porti e gli aeroporti, e in alto mare, di navi e aerei provenienti o diretti in Libia, autorizzando l’uso di tutte le misure necessarie per effettuare tali controlli.  È previsto il congelamento dei beni della famiglia Gheddafi (paragrafo 19), così come sancito nella risoluzione 1970 (2011) ai paragrafi 17, 19, 20 e 21, e nello specifico di tutti i fondi, attività finanziarie e risorse economiche, posseduti o controllati, direttamente o indirettamente, dalle autorità libiche o da individui o enti da loro controllati. Infine, nel testo della risoluzione non è presente alcun riferimento alla fine dell’intervento, ma solo al continuo monitoraggio, garantito anche dai report redatti dagli Stati della coalizione al Segretario Generale. Rimane al CdS, quindi, il potere di decidere se interrompere le misure autorizzate o stabilire un’intensificazione dell’azione, ad esempio sancendo un intervento via terra, usando come criterio l’adempimento o meno da parte delle autorità libiche dei dettami della risoluzione. A differenza delle altre risoluzioni del CdS, la 1973 (2011) presenta una novità riguardo il controllo dell’operazione.  Da un lato, il coordinamento politico garantito da una struttura pluralista che vede in prima linea il Consiglio di Sicurezza e il Segretario Generale, poi il Comitato, istituito con la risoluzione 1970 (2011) in collaborazione con la Lega degli Stati Arabi, l’Unione Africana e l’Organizzazione della Conferenza Islamica. Dall’altro, il coordinamento delle operazioni, il cui comando è affidato alla NATO, considerando che l’ONU non ha una forza di polizia militare permanente, nonostante la previsione dell’articolo 43 della Carta.

Mezzi e dispositivi. È interessante soffermarsi sui mezzi e i dispositivi messi a disposizione dalla coalizione dei volenterosi in quanto danno un’idea dell’entità e della portata delle operazioni effettuate. In particolare, si fa riferimento ai maggiori promotori della missione: Francia, Stati Uniti e Regno Unito. La Francia ha mobilizzato circa 100 aerei da caccia, per la maggior parte Rafale e Mirage 2000, velivoli multiruolo, ossia capaci di svolgere operazioni di intercettazione, di attacco al suolo, cacciabombardiere e ricognizione, che hanno operato per primi sul territorio libico. A questi si sono aggiunti la portaerei della Marina Nazionale Charles de Gaulle, l’antisommergibile Duplex, la fregata Aconit e la nave di rifornimento La Meuse.
Gli Stati Uniti hanno messo a disposizione 6 caccia A-10 Warthog che insieme agli AC-130 – dotati di sofisticati sensori, sistemi di navigazione e di controllo del fuoco – forniscono supporto aereo alle forze di terra. Sono stati dispiegati anche due B1 Launcher, conosciuti come la spina dorsale delle forze bombardiere a lungo raggio d’America. Tra gli altri dispositivi, il bombardiere strategico B2 stealth, impiegati nei primi raid dell’operazione, capaci di trasportare armi convenzionali e nucleari; gli F-16, aerei da combattimento multiruolo, presenti nella base aerea di Sigonella e, infine, gli AWACS (Airbone Warning And Control System), aerei di ricognizione usati per la sorveglianza aerea. L’RQ – 4 Global Hawk, aeromobile a pilotaggio remoto in grado di localizzare i corazzati e inviare le coordinate a una stazione di terra, che, a sua volta, passa le informazioni al centro di comando per il targeting. Washington, inoltre, ha schierato 11 navi e sottomarini, tra cui la nave comando anfibia Mount Whitney, i sottomarini nucleari di attacco Providence e Scranton, il sottomarino lanciamissili da crociera Florida e i cacciatorpediniere lanciamissili Stout e Barry.
Il Regno Unito ha messo a disposizione 10 Eurofighter – Typhoon, velivoli multiruolo che si trovano nella base di Gioia del Colle, per sorvegliare la no-fly zone, e i Tornado, che dalla base di Mahram a Norfolk sono impiegati per operazioni verso obiettivi militari nei dintorni di Tripoli. Oltre agli aerei per il supporto logistico, quali i C-130 e i C-17, si aggiungono i Nimrod R1 e Sentile per le operazioni di ricognizione aeree e di sorveglianza. Infine, le fregate della Marina Reale Cumberland e Westminster. L’Italia, infine, ha messo a disposizione della Nato 7 basi aeree a supporto di entrambe le operazioni: Gioia del Colle, Trapani Birgi, Sigonella, Decimomannu, Amendola, Aviano e Pantelleria. Per il controllo della no fly zone, 12 i velivoli dell’Aeronautica e della Marina Militare –  Tornado, Eurofighter, F-16 Falcon, AMX, AV8B Plus e Predator (velivolo a pilotaggio remoto), supportati dagli aerorifornitori KC 130 J e KC 767A; per il controllo dell’embargo nelle acque internazionali vicino le coste libiche, 2 unità navali, Nave San Giusto e Nave Bersagliere; per l’emergenza immigrazione e per garantire la sorveglianza in prossimità delle acque tunisine, in applicazione dell’intesa italo – tunisina, sono adoperati la Nave Chimera, che ha sostituito la Nave Driade, e la Nave Spica (che dal 28 agosto sostituirà la Nave Borsini) insieme a un aereo Atlantic.

Il caso della Siria. Le autorità siriane hanno risposto alle diffuse proteste anti-governative – la più grande sfida in 4 decenni della famiglia presidenziale – con la forza militare, convinte del fatto che le rivolte siano frutto di un complotto di stranieri ed estremisti islamici.
Ispirandosi alle rivoluzioni egiziane e tunisine, i cortei sono iniziati lo scorso marzo, nella città di Deraa, a sud del paese, con una serie di comizi che reclamavano maggiori libertà. La situazione è precipitata nel momento in cui le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla disarmata. Rapidamente il governo ha perso il controllo sulle proteste, le quali, a macchia d’olio, si sono diffuse nelle altre città. A questo punto il presidente Bashar Assad ha inviato carri armati e truppe per ristabilire l’ordine, venuto meno a causa dell’azione di bande armate e terroristi. Le manifestazioni si sono quindi estese alle città di Homs e Douma, fino a raggiungere il nord del paese, Al-Jisr Shughour. L’intervento delle forze di sicurezza si è spostato anche in mare, di qualche settimana fa l’attacco sferrato dalla Marina Militare verso la città di Latakia, principale porto nel nord-ovest del paese. La crisi siriana porta con sé anche un’emergenza umanitaria, di fatto, è stato stimato che circa 10.000 persone siano fuggite in Turchia e, al momento, si trovino nei campi profughi. Se in un primo momento il presidente Assad ha fatto delle concessioni alla popolazione siriana annunciando la riforma dei partiti politici, la liberazione dei prigionieri politici, la fine dello Stato di emergenza, l’indizione di elezioni parlamentari entro la fine dell’anno; subito dopo si è assisto a una brusca battuta di arresto, senza, tra l’altro, aver dato attuazione alle promesse fatte in precedenza. La situazione si complica di giorno in giorno e, al tempo stesso, diventa sempre più difficile avere degli aggiornamenti sulla situazione – di fatto, i giornalisti stranieri hanno solo un piccolo accesso alla Siria. Una cosa è certa: non potrà essere sostenuta ancora per molto. Il fattore chiave potrebbe essere la paralisi dell’economia, che, stante lo stato attuale, potrebbe ragionevolmente verificarsi. Tuttavia, né tale ipotesi né le richieste della comunità internazionale, con il presidente Barack Obama in testa, per le sue immediate dimissioni, sembrano preoccupare Assad, il quale domenica scorsa, durante un’intervista con la televisione siriana, ha rassicurato la popolazione che lo Stato non crollerà. A rendere il quadro ancora più complicato si aggiunge il fatto che la Siria ha una popolazione di circa 21 milioni di persone, con una grande maggioranza sunnita (74%), una significativa minoranza di cristiani (10%) e un 13% drusi e alauiti, la setta sciita di cui fa parte il presidente. Da quando assunse il potere nel 2000, Assad ha promosso uno Stato laico nella speranza di unificare le diverse comunità in una regione in cui il conflitto religioso è molto diffuso, si veda il caso del Libano e dell’Iraq.

Libia vs Siria. Il contesto libico, che ha indotto la comunità internazionale a intervenire, è simile a quello siriano, ma ciò nonostante nel primo la coalizione è intervenuta sotto comando Nato e legittimata dal Consiglio di Sicurezza attraverso le risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011); nel secondo, il CdS ha emanato solo una dichiarazione, probabilmente per il timore di una possibile recrudescenza dell’estremismo islamico e per l’intransigenza degli alleati siriani: Iran, Russia e Cina. È interessante osservare che, teoricamente anche in assenza della risoluzione 1973 (2011), la coalizione dei volonterosi sarebbe potuta intervenire per proteggere la popolazione libica. Secondo l’articolo 2 comma 4 della Carta delle Nazioni Unite (I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite), non è consentito nessun intervento che implichi l’uso della forza armata. Tuttavia, secondo una prassi ormai consolidata – si pensi all’operazione della Nato in Kosovo nel 1999 – in caso di “intervento umanitario” gli Stati possono intervenire anche senza una preventiva autorizzazione dell’ONU, qualora vi siano gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. La tutela di questi ultimi è uno dei fini dell’Onu, così come previsto nello Statuto, quindi si configura come un obbligo erga omnes. Si tratta della cosiddetta responsabilità di proteggere (Responsability to Protect) degli Stati che si traduce nell’intervento della comunità internazionale qualora uno Stato sia incapace o riluttante a esercitare le proprie prerogative sovrane. Nel caso siriano, la non applicazione di tale principio da parte della Nato o di una qualsivoglia coalizione di volenterosi, è riconducibile a tre ordini di motivi principali: economico, regionale e politico-religioso. Innanzitutto, a causa della grave crisi economica internazionale iniziata nel 2008, gli Stati dell’Alleanza sono stati costretti a ridurre la spesa militare. Un secondo motivo riguarda le alleanze regionali: mentre Gheddafi, nel primo mese di rivolte aveva già perso i suoi alleati (un nome per tutti Abdel Salam Jalloud, numero due del regime), Assad, nonostante siano trascorsi cinque mesi di continui cortei, non ha interrotto i legami con Iran, Libano, Russia e Cina. Infine, il sistema politico-religioso del paese. Il partito Ba’th (rinascita), il cui leader è il presidente Assad, è laico, per cui, l’eventuale destituzione dello stesso potrebbe aprire la scena politica ai settori musulmani più estremisti. La strategia della comunità internazionale nei confronti della Siria sembra essere di debilitare il più possibile la dittatura senza rovesciarla. Un elemento da tenere presente è che uno dei motivi per cui i dittatori del Medio Oriente hanno difficoltà a mantenere il proprio governo, è che la pressione per il cambiamento è guidata dalla demografia. Circa il 60% della popolazione araba è sotto i 30 anni e, molti di questi, sono stanchi di regimi che non hanno nemmeno tentato di concedere loro una vita migliore.

Conclusioni. Fino al 20 agosto, i sei mesi di operazioni in Libia hanno avuto un andamento costante, caratterizzato dal fatto che Gheddafi fosse ancora al potere, che la Francia e Gran Bretagna cercassero di negoziare una soluzione con gli emissari del Raís con l’unica proposta che gli permetterebbe di rimanere in Libia qualora abbandonasse il potere, evitando così di essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Dalla scorsa domenica, tale “staticità” ha lasciato il posto al caos e all’incertezza. I ribelli sono entrati nella capitale Tripoli sfondando le linee di difesa a seguito di intensi combattimenti nelle periferie, per le strade fino alle case, provocando centinaia di morti, soprattutto bambini, e feriti. Ma non ancora si parla della fine del regime soprattutto a causa dell’incertezza sulla presenza del Raís e dei suoi figli che rende poco chiaro lo scenario. L’annuncio degli insorti e della Corte Penale Internazionale della cattura del secondogenito e designato successore del colonnello, Saif Al Islam, è stato subito smentita dallo stesso Saif che ha voluto incontrare alcuni giornalisti nel bunker del padre, nel quartiere di Bab Al Aziziya. Voci che non hanno ricevuto conferma, sostenevano la cattura del terzogenito Saadi e la resa del primogenito Mohammed.  Quali allora i vincitori della battaglia di Tripoli? Difficile a dirsi, sia i lealisti che i ribelli sostengono di mantenere il controllo della maggior parte della capitale. È la fine del regime di Gheddafi? Anche in questo caso vi sono pareri contrastanti. Il Segretario Generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, nella sua dichiarazione di qualche giorno fa, ha affermato che il regime del colonnello si sta sgretolando; è giunto il momento per iniziare il processo di transizione per creare la nuova Libia, a cui la Nato è pronta a partecipare a sostegno del popolo libico e del Consiglio nazionale di transizione. Gheddafi, invece, con messaggi pubblicati attraverso la tv di Stato, incita a non mollare perché la vittoria è vicina. Dalle rivolte della “Primavera Araba” è emerso un dato di fatto: l’Occidente è stato uno spettatore, non è stato l’attore decisivo in questa parte del mondo. A favore dei dittatori arabi ha giocato la paura del ritorno delle potenze coloniali e la possibile instaurazione di un nuovo imperialismo.
 
BIBLIOGRAFIA

–    Risoluzione Consiglio di Sicurezza Nazioni Unite 1973/2011
–    Risoluzione Consiglio di Sicurezza Nazioni Unite 1970/2011
–    Presidential Statement Consiglio di Sicurezza Nazioni Unite 3 agosto 2011
–    Nato JFC Napoli
–    Ministero della Difesa
–    New York Times
–    The Guardian
–    BBC