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Si parla ufficialmente di “deficit democratico” dell’Europa, di crisi delle sue classi dirigenti e della politica spodestata dalla tecnocrazia. La Ue è al bivio: seguire la strada percorsa fino a oggi, e cioè dare più potere a Bruxelles (al Superstato europeo più che agli Stati Uniti d’Europa), oppure rispondere al processo di frammentazione dell’Unione connotando questa parola in senso positivo, all’insegna del motto “less is more”.

Basta con la devoluzione delle competenze agli organismi sovranazionali, è tempo di riacquistare sovranità e difendere i rispettivi interessi nazionali. Come? Immaginando inedite reti di alleanze determinate dal nuovo equilibrio di potenza sorto all’interno della Ue. Quali? Per esempio un’intesa possibile ed auspicabile tra Italia, Spagna e Grecia, che risponda allo strapotere tedesco, sul terreno delle grandi questioni come lo sviluppo delle infrastrutture, la sicurezza e l’immigrazione, il destino dell’euro e le politiche di cooperazione.

Diamo il via ad una serie di articoli, traduzioni ed approfondimenti che provano ad esplorare la fattibilità di un ripensamento del Mediterraneo, a metà tra passato e futuro, realismo e sforzo visionario, ambizione politica ed interesse economico.

 

LA COOPERAZIONE MILITARE (Edoardo Ferrazzani)

Le crisi internazionali portano in dote dolore e cambiamento, globali o regionali che siano. Il dolore e l’affanno per chi perde status politico. Quanto al cambiamento, in politologia internazionale va spesso sotto il nome di ‘redistribuzione del potere relativo tra gli attori in gioco’. Definizione leziosa ma precisa.

La crisi del debito sovrano europeo – nella sua declinazione ‘crisi fiscale dei paesi mediterranei’ – apporterà una redistribuzione di potere nelle relazioni fra gli Stati Europei, in particolare tra Nord e Sud, ripercuotendosi inevitabilmente anche sul peso politico che i paesi del Sud Europa avranno in futuro nel Mediterraneo. Riguarda l’Italia – ma non solo l’Italia – e non c’è da stare allegri.

La Germania sta emergendo come maggiore attore regionale europeo, tanto sull’area Baltica che in Europa centrale e balcanica, con l’obiettivo neanche tanto velato di condizionare il destino delle traballanti nazioni mediterranee integrate nell’Unione Europea – in particolare Italia, Spagna, Portogallo e Grecia – attraendole politicamente verso sè, con l’aiuto della Francia.

Anche il grimaldello comunitario fa parte della brutta faccenda e c’è da aspettarsi che Berlino tenda sempre più a farne uso al fine di pesare sempre di più nella politica interna di questi paesi (basti pensare alla genesi dei governi Monti in Italia e Papademos in Grecia).

Spiace a tutti perdere sovranità. Ora, siamo di fronte a un processo ineluttabile? Certo che no. In politica l’ineluttabile è solo una delle tante manifestazioni di una volontà di non-fare (la passività è un’azione a tutti gli effetti); se ciò è vero, un’azione uguale e contraria è altrettanto possibile. Forse politicamente doverosa a questo punto. Per intenderci: reagire alla ‘germanizzazione’ in corso è possibile.

Se il collasso dell’Euro è un lose-lose game, è vero anche che quando tutto sarà crollato qualche edificio sarà ancora in piedi. Per essere allora cruciale rispolverare il vecchio adagio “l’unione fa la forza” e alambiccarsi il cervello per cambiare lo stato di cose.

Prima di tutto bisogna definire quel che le quattro nazioni euro-mediterranee possano compiere assieme per evitare una marginalizzazione economica, commerciale, militare, culturale – e in ultima istanza – politica e sociale, che nel medio-lungo periodo ridimensionerà anche la prosperità delle loro genti. La risposta è: fare cooperazione. Una cooperazione rafforzata che passi per l’individuazione di priorità comuni.

Un capitolo tradizionale di cooperazione interstatuale è quello della sicurezza. La crisi fiscale che attraversa l’Europa del Sud si ripercoterà certamente sul modo in cui i governi di Roma, Madrid, Lisbona e Atene spenderanno in difesa per rispondere alla proprie prerogative di sicurezza nazionale. Questi tagli alla difesa certamente condurranno al ridimensionamento delle rispettive proiezioni geostrategiche.

Per l’Italia si tratterà di rinunciare al concetto di Mediterraneo allargato. Per la Spagna idem, più la sua proiezione atlantica in Sud America. Il Portogallo dovrà rinunciare alla proiezione sull’Atlantico Meridionale e la Grecia avrà difficoltà a mantenere in piedi la sua silenziosa confrontation marittima con la Turchia.

Bref, il rischio è che le nazioni europee meridionali escano dalla Storia, subiscano il cambiamento e non siano più in misura di difendere le proprie rispettive aree d’influenza. Ciò avverrebbe peggiore dei momenti: il Mediterraneo è attraversato da grandi mutamenti – si pensi solo alle rivolte arabe e alle ripercussioni politiche che esse stanno imprimendo al corso storico di paesi come l’Egitto, la Libia e domani la Siria. Si aggiunga a ciò il riemergere di un attore che è stato per secoli al centro di una politica di contenimento da parte proprio dei paesi europei oggi in difficoltà: la Turchia.

La Turchia ri-ottomanizzata di Recep Erdogan aumenta di giorno in giorno il proprio potere in Nord Africa. Fa soft power in Medioriente ed è proiettata strategicamente in un’area che va dal Turkmenistan alla Bosnia. Intrattiene ottime relazioni con Russia, Brasile, Sud Africa, Cina e India. E’ forte, rispettata, con un’economia in sostenuta espansione, un esercito numeroso e ben equipaggiato, un trend demografico che farebbe dormire sonni tranquilli a qualsiasi governante di media salute psichica.

Si dirà: “Qual è l’idea? Mettere insieme i paesi straccioni dell’Europa meridionale per fare cosa? Contenere la Turchia che gioca a fare la politica di potenza?”. Non si tratta di questo. Si parla piuttosto di prendere atto, reagire e proteggere le posizioni del Sud Europa visto che gli unici due attori statuali che nell’euro-mediterraneno rimarrebbero in piedi qualora l’edificio dell’Euro andasse giù, sarebbero la Germania e la Turchia i cui rispettivi governi finirebbero per costruire una piccola Yalta ancora una volta nei Balcani. 

Come nel xvii sec. la Spagna deteneva il Mediterraneo Occidentale e la Turchia il Mediterraneo Orientale, oggi con la crisi la Germania conquisterebbe commercialmente (e dunque politicamente) il suo agognato accesso al Mediterraneo, uno dei tanti accessi a cui Berlino ambisce e la Turchia finirebbe per riprendersi il suo posto nelle faccende balcaniche, oltre alla lenta riconquista in quelle nord-africane, mediorientali e centro-asiatiche.

L’emergere di questo vecchio-nuovo scenario deve far riflettere i governi d’Italia, Spagna e Grecia e indurli all’azione. Il primo banco di prova potrebbe essere sulla Grecia: la penisola ellenica è attualmente in serie difficoltà a causa dall’attuale crisi fiscale dell’eurozona. A capo dell’esecutivo sta ormai un tecnocrate, dipende dalle erogazioni del Fmi e dell’Ue per pagare pensioni, stipendi e mantenere la baracca statuale in piedi. E’ isolata sul piano diplomatico.

Ciò però non fa venir meno il suo essere Stato e dunque la sua sicurezza nazionale deve essere garantita: Atene deve potere continuare a tenere in piedi un controllo dell’Egeo, di Corfù, Creta e Rodi e deve difendere Cipro. Il mantenimento di questi imperativi strategici è ovviamente nell’interesse nazionale greco, ma in proiezione lo è anche per quelli di Spagna, Italia e Portogallo. 

Non è eretico pensare che per far fronte a questa situazione, l’Italia assieme alla Spagna, al Portogallo e alla Grecia appunto possano dare vita ad esercitazioni militari comuni nel quadro di un dispositivo diplomatico extra-europeo tutto nuovo sui mari dell’Egeo, dello Ionio, dell’Adriatico e del Mediterraneo orientale e occidentale (ovviamente avvertendo preventivamente Washington per evitare la lesa maestà e mandando un dispaccino a Vladimir Putin per cortesia).

Una lenta integrazione delle marine euro-mediterranee darebbe il la anche a un aumento dell’integrazione delle rispettive forse marittime in vista della gestione di un altro grande fenomeno da gestire tra noi euro-mediterranei: l’immigrazione clandestina.

 

LA GRECIA: IMMIGRAZIONE ED ENERGIA (Costantino Pistilli)

La Grecia non ha più nulla da offrire all’Europa? Verosimilmente no. Lo Stato declassato da Moody’s, sottovalutato dal sito d’intelligence Stratfor (“Ha perso ogni importanza geo-strategica”) e il primo ad essere buttato giù dall’Euro Tower, potrebbe rivelarsi la Cenerentola del Vecchio Continente. Per due motivi.

Arginare i flussi dell’immigrazione clandestina. La posizione geografica della Grecia la rende tuttora la porta d’ingresso all’Europa per chi desidera entrarvi da est. Secondo i dati riportati da Frontex, l’agenzia che coordina le polizie di frontiera europee, dal 2010 una media di 300 persone al giorno, tutti i giorni, ha raggiunto i Paesi europei passando il confine greco-turco. Ma con le rivolte arabe è aumentato di circa il 50% nei primi mesi del 2011 rispetto allo stesso periodo del 2010 il numero delle persone che ha deciso di abbandonare le proprie nazioni e approdare in Europa passando attraverso la Grecia.

“Dal 2 giungo dello scorso anno più di 38.000 immigrati clandestini sono stati intercettati lungo il confine che divide la Grecia dalla Turchia” ha dichiarato Gil Arias Fernandez, vice direttore di Frontex, aggiungendo un altro dato: “Nel solo mese di ottobre 2011 circa 9.600 immigrati hanno provato ad entrare in Europa attraverso la Turchia. Un flusso superiore del 20% rispetto a ottobre dello scorso anno”. Oltre alle rivolte arabe, la causa dell’aumento dei flussi migratori verso la Grecia è dovuto alle politiche della vicina Turchia.

Ankara, infatti, ha costruito la propria zona di esenzione dal visto d’ingresso – che assomiglia allo spazio Schengen dell’UE – con Paesi come Iran, Siria, Yemen, Libia, Libano, Marocco e Tunisia. Inoltre, denuncia Fernandez, Ankara promuove voli low cost che operano tra molti paesi del Nord Africa e che atterrano preferibilmente a Istanbul, dove troviamo un aeroporto poco distante dal confine ellenico. Per contrastare il fenomeno Atene sta costruendo un muro alto cinque metri e lungo circa dodici chilometri al confine con la Turchia, nella regione del fiume Evros vicino alla cittadina di Orestiada. Nel frattempo, Erdogan sfrutterà l’immigrazione clandestina per forzare le scelte di Bruxelles come per anni ha fatto Gheddafi. E perché dovrebbe farlo? Rispondendo a questa domanda arriviamo anche a scoprire perché la Grecia è ancora indispensabile all’Europa. E al medio oriente.

Scoperta di ricchi giacimenti di gas nei fondali dell’Egeo. Mesi fa sul sito web la pulcedivoltaire Paolo della Sala ha scritto: “Il Bacino del Levante, la porzione di Mediterraneo che va da Cipro verso le coste situate tra Siria Libano Israele e Gaza, trabocca di gas (e petrolio) e ciò disegna un medio oriente completamente nuovo, in cui Israele diventerebbe esportatore di gas e il Libano potrebbe tornare a essere la Svizzera d’Oriente. Secondo la Noble Energy in tutto il bacino del Levante ci sarebbero almeno 227 Tcf (trillion cubic feet) di gas. Per avere un termine di paragone, le riserve egiziane sono di 77 Tcf, mentre la parte iraniana di South Pars, il più grande bacino al mondo, ha una stima dichiarata di 436 Tcf. L’area compresa tra Cipro e Gaza conterrebbe uno dei primi cinque bacini di gas al mondo”.

Cipro e Israele saranno i futuri trend setter del gas necessario a soddisfare la sete energetica di buona parte del Mediterraneo. Due impianti ciprioti con una capacità di 7 milioni di tonnellate sono pari a circa il 23 per cento delle esportazioni russe verso l’Europa occidentale. Nicosia e Gerusalemme (con i suoi giacimenti sottomarini di idrocarburi di Tamar e Leviathan a largo di Haifa) stanno infatti collaborando per definire i confini della piattaforma continentale secondo le regole della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare, per cui un Paese è legittimato ad esplorare e sfruttare le risorse naturali ad una distanza di 200 miglia nautiche dalle proprie coste . La distanza minima tra Israele e Cipro si trova a 140 miglia nautiche e, secondo il diritto internazionale, il confine in questo caso è stabilito a metà tra i due Paesi. Israele punta a liberarsi alla camicia di forza della dipendenza energetica dai vicini arabi. Dagli inizi di febbraio ha visto alzare il prezzo del gas che importa dall’Egitto e per nove volte il gasdotto che dal Sinai rifornisce Gerusalemme è stato sabotato.

L’oro azzurro, dunque, porterà Israele e Cipro (e, per estensione, la Grecia) ad un’alleanza naturale e non è un caso che il viceministro degli esteri israeliano Danny Ayalon sia stato il primo rappresentante di uno Stato straniero a recarsi ufficialmente in Grecia dalla formazione del nuovo governo Papademos, dove, incontrando il suo omologo greco, ha fissato l’agenda per continuare a portare avanti il progetto delle esplorazioni nel mare attorno a Cipro per la ricerca di gas naturale, esplorazioni che Nicosia conduce con la collaborazione di Atene e Gerusalemme e il sostegno tecnico della compagnia americana Noble Energy, Inc.

In questo quadro si inserisce la Turchia che mantiene pessime relazioni con Cipro (Ankara occupa la parte nord dell’Isola dal 1974) con la Grecia (abbiamo appena visto il problema clandestini) e con Israele (dallo scorso settembre ha ridotto al minimo i suoi rapporti con Gerusalemme espellendo l’ambasciatore dello Stato ebraico per i fatti legati alla Mavi Marmara).

Il governo turco, che controlla Cipro Nord con un contingente di circa quarantamila soldati ed è l’unica nazione al mondo a riconoscerne la legittimità, contesta con forza questa attività sostenendo che Nicosia dovrebbe prima trovare una soluzione al conflitto con l’entità turco-cipriota e solo in seguito sfruttare le ricchezze regionali. Inoltre, Ankara – che non ha mai aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite per il diritto del mare UNCLOS – chiede che i futuri proventi del gasdotto vengano divisi con la Repubblica turca di Cipro del nord, anche se in realtà la zona interessata è adiacente alle coste della più meridionale Repubblica di Cipro, riconosciuto come membro UE e che a giugno prossimo ricoprirà la presidenza di turno dei ventisette Paesi. Erdogan, intanto, ha minacciato l’Europa che se entro giugno 2012 non verrà risolta la “questione cipriota” la vera crisi non interesserà solamente i governi di Nicosia, Atene e Gerusalemme, ma sarà una questione tra la Turchia e Europa. Compresa anche quella del nord.

 

UNA QUESTIONE DI IDENTITA’ (Luca Negri)

Se l’auspicata triplice intesa dell’Europa mediterranea deve rispondere allo strapotere franco-tedesco, non può farlo senza una presa di distanza anche sul piano culturale. Occorre ben considerare in che cosa il retaggio comune di Spagna, Italia e Grecia si possa distinguere quando si tratta di comprendere il mondo, raccontarlo, trasformarlo. Insomma, bisogna interrogarsi sulle idee.

Forse la prima considerazione da fare è che la mente mediterranea, più incarnata ed abbronzata, dovrebbe lasciarsi meno guidare proprio dalle idee, non sacrificarle alla vita concreta, al senso di realtà. Sappiamo che dalle nostre parti non è sempre andata così; soprattutto per influenza di Francia, patria (anche) del giacobinismo utopistico, e Germania, culla dell’idealismo filosofico. Il connubio fra i due diede i natali al marxismo, ma non è questo ad interessarci, piuttosto la consapevolezza che un certo pensiero moderno, soprattutto dal francese Descartes al tedesco Hegel, ha cercato di imporre l’idea astratta, il sistema, sulla realtà.

Che l’Europa possa essere un’altra cosa, uscire da questo vicolo cieco tipico del moderno, ce lo ha insegnato il filosofo spagnolo Ortega y Gasset. È giunto il momento di restituire ai legittimi proprietari un po’ di scheletri nei nostri armadi: fascismi rossi e neri e poi istituzioni statali “pesanti” che Italia, Grecia, Spagna hanno prodotto nel Novecento. Ma ideologie e statolatrie non erano nel nostro dna, meglio riscoprire la nostra anima più pratica e anarchica, con devozioni più alte di quelle tributate a costituzioni e burocrazie. Potenzialmente, possiamo essere più liberali. Stesso discorso dovrebbe valere per l’economia; ovvero non sentire più il fiato sul collo dell’etica protestante e calvinista dello spirito del capitalismo centroeuropeo. Anzi, proprio l’argomento religione è centrale.

Fu soprattutto la Francia a battersi contro il riferimento alle radici cristiane nell’abortita costituzione europea, anche la Germania luterana non era proprio entusiasta. Dall’altra parte c’erano Polonia, Italia, Grecia e Spagna (ai tempi di Aznar, non del piazzista di laicismo Zapatero). “La Fede è l’Europa e l’Europa è la Fede” scrisse l’anglo-francese Hilaire Belloc all’inizio del ‘900, ma invece l’Unione non ha voluto ammettere che il continente è cresciuto culturalmente in un’unica fede, quella in Cristo, per merito della Chiesa di Roma, di scismi e declinazioni secolarizzate; il compito storico, dunque, toccherebbe finalmente a noi. Non c’è bisogno di scrivere un comma di un’ennesima costituzione, basterebbe rispettare ed ascoltare di più la Chiesa, pur nel disaccordo, accettarne pienamente il ruolo pubblico. In prospettiva di un auspicabile riavvicinamento della Chiesa di Roma con quelle d’Oriente, diventerebbe forse meno ostico temperare le innegabili tendenze illiberali dei greco-ortodossi.

Con le dovute differenze ci troviamo di fronte ad uno scenario simile a quello del secondo dopoguerra: una nuova Europa da ricostruire. In quegli anni Maria Zambrano, allieva proprio di Ortega y Gasset, scrisse un prezioso saggio per invitare gli europei ad affidarsi, dopo la catastrofe, al pensiero greco e al cristianesimo di Sant’Agostino. Un santo, quest’ultimo, che fu uno dei primi grandi europei, di nascita però nordafricana. Ecco, l’Africa mediterranea, oggi islamica: se nascerà la triplice intesa del Sud, s’imporrà sempre più il necessario, costruttivo confronto con l’islam moderato. Un dialogo fra pari, senza confusioni e ammiccamenti. Senza dimenticare che il più saldo punto di equilibrio fra Atene e Gerusalemme, fra la ragione ellenica e il profetismo semita, rimane Roma.

(Continua…)

  

A cura di Edoardo Ferrazzani, Costantino Pistilli, Luca Negri.