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Pubblichiamo la prefazione, l’introduzione e la postfazione di L’innovazione vincente, di Adriano De Maio (Francesco Brioschi Editore, 2011). La prefazione è a firma di Luigi Nicolais, la postfazione di Gaetano Quagliariello.

Prefazione, di Luigi Nicolais

Con questo volume Adriano De Maio affronta una materia spinosa e complessa, ma di grande attualità e impatto socioeconomico: la nascita e la diffusione dell’innovazione.

Lo fa con curiosità, competenza e passione, da una prospettiva non usuale. L’Autore, infatti, ripercorre tappe significative della sua esperienza, umana e professionale, che, a livelli e responsabilità differenti, si è espressa in numerose e autorevoli istituzioni scientifiche e Agenzie di innovazione e sviluppo.

Il lavoro, distante da autobiografie e memoriali, è un robusto contributo tecnico, scientifico e politico al tema dell’innovazione. Ed è mosso da un obiettivo, ambizioso e manifesto: contrastare l’apatica rassegnazione che porta all’impaludamento scientifico, tecnologico, culturale. Ciò rende la ricerca un esempio di militanza scientifica che si attiene, nella sua articolata struttura organizzativa, alla presentazione e alla discussione di fatti, di cui presenta contesto, evoluzioni, conseguenze.

Il volume offre un’analisi rigorosa e puntuale, compiuta senza cedere alla tentazione e alla retorica del dato e della sintesi, anzi, la stessa viene affidata, come un tempo, al dipanare di robuste argomentazioni ricche di esempi.

De Maio è consapevole che, dietro ogni modello e forma di innovazione, vi siano decisioni, scelte, percorsi formativi, culturali, politici: per questo evita di rendere piano e facile il procedere delle argomentazioni. Di contro, adotta semplicità e chiarezza espositiva, evita le banalizzazioni, ricostruisce integralmente la trama della complessità vista come processo dinamico in cui interagiscono simultaneamente più elementi e sollecitazioni.

I singoli capitoli nell’affrontare tematiche specifiche evidenziano attori, responsabilità, limiti e nello stesso tempo indicano la necessità di operare, fare scelte, perché il non fare – come acutamente avverte l’Autore – ha costi eccessivi e insopportabili per il sistema della ricerca e dell’innovazione

Il non fare è spreco – di risorse, di talenti, di opportunità; privazione – di visioni, di modelli, di strategie, di infrastrutture adeguate; alibi alla desertificazione culturale, all’immobilismo, alla ridondanza e all’entropia.

Per questo con pazienza, partendo dal perché investire in ricerca fino al ruolo e alla  funzione dell’università  negli ecosistemi dell’innovazione, De Maio sviluppa il suo. racconto di innovazione vincente. Lo fa confutando i luoghi comuni, inanellando utili suggerimenti che spaziano dalla sburocratizzazione e semplificazione normativa all’immaginare, a livello centrale e periferico, l’istituzione di organi di indirizzo strategico capaci di coordinare da un’unica prospettiva ricerca e competitività territoriale. Inoltre affronta e sollecita visioni e azioni sistemiche su quelle che definisce le condizioni di contorno: dalle infrastrutture all’attività di lobbying, dalla tempestività ai permessi di soggiorno.

La collocazione dei suggerimenti e delle proposte all’interno dei capitoli si rivela, poi, disarmante, perché se ne evidenzia la loro normalità e perseguibilità in un paese capace di immaginare il suo futuro costruito sull’avanzamento e sull’irrobustimento delle conoscenze e delle tecnologie. Al contrario, il perdurare

della loro assenza nelle attuali politiche temo-scientifiche, locali e nazionali, finisce con il rendere straordinari e nello stesso tempo denuncia l’incapacità dei soggetti preposti a farsi interpreti e responsabili dei tempi attuali.

L’Autore, sebbene sottolinei con forza i rischi di deriva e di fallimento, e lo faccia enfatizzando volutamente gli aspetti negativi che aggrediscono il sistema, alimenta e consolida una speranza di cambiamento e di rilancio.

Uomo di scienza e di istituzioni, Adriano De Maio resta fedele all’obiettivo originario: dimostrare con i fatti e convincere con esempi e testimonianze che reti qualificate e solide di ricerca, formazione e innovazione sono gli unici strumenti che un paese ha per mantenere livelli accettabili e alti di qualità di vita e benessere sociale. E questo al di là e oltre ogni appartenenza e stagione politica.

Introduzione

L’ipotesi di base di questo lavoro è che ricerca e innovazione siano fra i più importanti fattori di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita di una qualsivoglia comunità. Se non si dovesse condividere questa

ipotesi tutto quanto qui scritto ha poco senso.

Se, viceversa, l’ipotesi è accettata, allora è chiaro che chi governa una comunità ha l’obbligo di capire come possa operare al meglio relativamente a tutto il sistema della ricerca e dell’innovazione al fine di promuoverlo, svilupparlo, sostenerlo, agevolarlo, renderlo efficace nella traduzione operativa.

L’oggetto del libro consiste proprio nello studio del possibile ruolo dell’operatore pubblico in differenti situazioni e contesti, che dipendono, tipicamente, dalle dimensioni della comunità di riferimento e dalle diverse caratteristiche della ricerca e dell’innovazione.

Di conseguenza si analizzeranno i differenti ruoli e si proporranno modelli, metodi e strumenti adeguati. Le risorse, soprattutto economiche, da destinare alla ricerca e all’innovazione sono, di norma, i fattori maggiormente presi in considerazione: non con la stessa attenzione si analizzano e si discutono, invece, i diversi processi attraverso cui si decide l’attribuzione delle risorse.

Fra i numerosi studi su ricerca e innovazione non sono molti, infatti, quindi che dedicano attenzione al processo attraverso cui si arriva a definire una strategia pubblica. Fra questi ultimi cito un recente studio dell’Oecd sui «principi» da adottare per formulare una strategia di innovazione quale chiave per ottenere

obiettivi economici e sociali, per uno sviluppo «sostenibile», che guardi cioè al medio-lungo termine.

Le indicazioni, tutte condivisibili, fornite da questo studio individuano cinque principi e precisamente:

Empowering People to Innovate.

Unleashing lnnovation in Firms.

lnvesting in lnnovation and reaping its Returns.

Applying lnnovation to address Global Challenges.

lmproving the Governance of Policies for lnnovation.

Relativamente a questi principi il nostro lavoro si focalizza sull’ultimo e, trascurando il quarto poiché non riteniamo di dover prendere in considerazione lo sviluppo e i rapporti internazionali, legge gli altri tre all’interno delle considerazioni sul «processo» di definizione delle politiche per la ricerca e l’innovazione.

Prendendo in considerazione solo l’ammontare delle risorse destinate alla ricerca, in particolare da parte dell’operatore pubblico, ci si lamenta giustamente, soprattutto in Italia, della loro scarsità e si fanno voti per un aumento consistente. Scarsa l’attenzione, invece, per altri aspetti: in particolare «per che cosa, a chi, con quali modalità» vengono assegnate le risorse stesse. Se manca la risposta a tali quesiti si potrebbe perfino sostenere, con una certa esagerazione, che l’aumento delle risorse potrebbe rivelarsi soltanto uno spreco.

La tesi del nostro lavoro

In base a quanto finora detto, la tesi di questo lavoro è la seguente:

«Non è soltanto la quantità di risorse messe a disposizione che determina uno sviluppo efficace per una comunità; il fattore chiave è, prima e soprattutto, il metodo seguito per la decisione; anzi, quanto più è efficace il metodo seguito, tanto più è probabile che si generi una moltiplicazione di risorse, sia pubbliche sia private».

Bisogna inoltre tenere presente che l’intervento pubblico non solo e non sempre riguarda l’attribuzione di risorse; anzi, risulta talvolta più importante, come cercherò di mostrare, l, attivazione di misure «non costose» capaci di creare le condizioni al contorno affinché ricerca e innovazione possano meglio espletarsi ed essere efficaci.

Definire un processo di decisione che porti a una strategia efficace significa rispondere a tre domande:

Per che cosa?

A chi?

Con quali modalità?

La struttura e l’articolazione del libro

Il primo capitolo risponde alla domanda su quale sia lo scopo del processo di innovazione.

Analizza quali sono gli obiettivi che ci si propone di raggiungere, cioè i risultati attesi, valuta quali possono essere le opportunità da cogliere e se si è in grado di coglierle, quali sono i possibili pericoli da evitare o da superare e le

particolari attenzioni da osservare. Su questi ultimi aspetti è importante tenere presente l’influsso della pubblicistica e dei movimenti di opinione, nonché dei preconcetti ideologici o comunque non scientifici, per le conseguenze positive e negative che ne possono derivare.

Purtroppo tanto più sono elevati e coinvolgenti gli obiettivi e gli oggetti considerati, tanto più è facile che l’opinione pubblica sia affascinata da affermazioni difficilmente sostenibili da un punto di vista scientifico, ma che suscitano emozioni profonde. I temi che toccano la salute, l’ambiente, l’alimentazione, l’energia, per limitarsi a esempi noti alla maggioranza, sono oggetto di discussioni, prese di posizione, affermazioni apodittiche non solo da parte di persone di scienza, che pure possono avere opinioni differenti, tutte però confrontabili con

un metodo «scientifico», ma anche, e soprattutto, da chi non ha la minima competenza per intervenire.

Oltretutto, quando si parla di ricerca, succede che intervengano valutazioni approssimative, basate sempre su dati parziali e interpretati in modo capzioso o non completamente corretto, che evidenziano quanto i problemi siano spesso «mal posti». Segnalo solo due esempi tra quelli che compaiono periodicamente sulle pagine dei giornali: il problema dei «precari», da un lato, e quello della «fuga dei cervelli» dall’altro; le sovrasemplificazioni impediscono spesso di valutare con la dovuta attenzione questi aspetti problematici che certo sono presenti nella realtà ma che richiederebbero un esame privo di connotazioni eccessivamente emotive.

La cura posta al raggiungimento degli obiettivi e l’attenzione ai vincoli influisce su tutto il processo di decisione e, quindi, è richiesta l’adozione di un metodo molto accurato.

Il secondo capitolo avanza un’ipotesi di classificazione della ricerca e dell’innovazione utile per valutare diversi ruoli potenziali dell’operatore pubblico. Come è noto, ogni classificazione è strumentale rispetto all’obiettivo che ci si pone. Nel nostro caso l’obiettivo è individuare ruoli, metodi, strumenti

dell’operatore pubblico in casi e situazioni differenti. La classificazione proposta serve a mostrare come, per ciascuna classe, possa variare il ruolo dell’operatore pubblico e, conseguentemente, i metodi e gli strumenti più

appropriati.

Dal terzo al sesto capitolo si affronta in modo specifico ciascuna delle classi proposte, illustrandone le caratteristiche particolari e gli aspetti che mettono in evidenza il ruolo specifico dell’operatore pubblico. Per quanto riguarda i metodi e gli strumenti si è preferito procedere attraverso l’esame di casi esemplari, anziché

mediante un esame «teorico». Ovviamente questo approccio comporta una semplificazione e una esposizione tutt’altro che esauriente; a nostro avviso, tuttavia, esso permette di illuminare più agevolmente sia le criticità sia gli aspetti positivi. A tal riguardo preme far notare che, come si vedrà, esistono anche situazioni e interventi validi. Vogliamo mettere in luce questo aspetto perché riteniamo non solo inutile ma anche profondamente dannoso, abbandonarsi a lamentele a valutazioni solo negative. È importante mettere in evidenza i difetti, proporre, quando possibile, una ragionevole terapia e, d’altro canto, illustrare anche i casi positivi che possano servire come esempio.

A proposito dei casi illustrati è stata scelta una via che potrà far discutere, ma che è sembrata interessante. Mi è sembrata un’opportunità da cogliere il fatto di aver conosciuto direttamente molte situazioni e di aver operato, con

ruoli di rilievo, in alcune significative istituzioni. Perciò i casi illustrati sono, quasi tutti, basati su esperienze dirette. Questo rende naturalmente ciascun caso meno «universale», ma più vivo. Solo per ricordare le istituzioni in cui, a diversi livelli e con diverse responsabilità, ho operato direttamente, esse sono: l’Università (il Politecnico di Milano e la Luiss di Roma), Centri ed Enti di ricerca nazionali e locali (Cnr, IReR, Centro europeo di nanomedicina), Commissioni ministeriali (dalla riforma universitaria ai Centri di eccellenza), Enti locali

(Regione Lombardia), Agenzie (Asi, Agenzia per l’innovazione), Distretti territoriali (Green e Hi Tech Monza e Brianza). Perciò, e mi sembra doveroso ricordarlo, le esperienze presentate non hanno la presunzione di rappresentare un caso di riferimento, ma soltanto una situazione conosciuta di prima mano. La «fortuna» vuole però che ciascuna interessi un’istituzione che, nell’ambito della specifica classe, ha un rilievo notevole e significativo.

Il settimo capitolo è dedicato a un tema che deve stare a cuore non solo a chi è interessato alla ricerca e all’innovazione, ma a tutti coloro che attribuiscono alla formazione un valore e un ruolo centrale per lo sviluppo di qualsiasi comunità. La formazione verrà esaminata come un sistema unitario, profondamente interconnesso in tutti gli aspetti e a tutti i livelli. Qualsiasi «estrazione» o di un aspetto specifico (gli studenti o i docenti, tanto per citare i due casi esemplari, oppure le strutture o la logistica) ovvero un determinato «livello» (la scuola media, inferiore o superiore, l’università o altro) è un’operazione scorretta da un punto di vista sia metodologico sia di valutazione specifica. Il sistema è unitario e come tale va considerato.

L’ultimo capitolo non è una conclusione ma ripercorre sinteticamente la struttura complessiva del libro. Qualcuno, dopo aver letto le bozze, ha maliziosamente osservato: «ma allora non occorre leggere tutto il libro, basta leggere l’ultimo capitolo!» Questo è solo parzialmente vero: in realtà si perderebbero molte osservazioni interessanti che naturalmente appaiono nel testo e, soprattutto, sono del tutto assenti i casi che restano invece, a mio giudizio, fondamentali.

Due ultime notazioni.

La prima riguarda la presenza limitata di «dati». È stata una scelta basata su un profondo convincimento, frutto della mia esperienza: diffido dei cosiddetti «dati», soprattutto quando tendono a sovrasemplificare una realtà complessa e «qualitativa». I dati e la relativa metrica sono necessari in molti campi, ma non spiegano fenomeni complessi e di difficile quantificazione, in particolare quelli in cui il fattore umano gioca un ruolo rilevante, a partire dall’economia. La polemica sulla incapacità di rappresentazione dello stato di benessere di un paese attraverso indicatori quali il Pil ne è un tipico esempio. Per questo motivo il lettore non troverà un gran numero di tabelle e dati, ma analisi e modelli di tipo «qualitativo». Cercare di trasferire valutazioni qualitative in dati e tabelle rischia di generare fraintendimenti e, in alcuni casi, persino errori prodotti da una «traduzione» altamente soggettiva e in cui l’errore del sistema di misura è talmente elevato che il «rumore» supera il segnale. I vari scoreboard sull’innovazione ne sono un chiaro esempio. Ma anche dati che sembrano essere più «oggettivi» sono affetti da questi potenziali errori. Si è già accennato al problema del Pil, ma quando poi si danno valutazioni sulle percentuali di R&S sul Pil il possibile errore diventa ancora più grave, perché dipende da altri fattori non evidenziati. Nelle aziende private, per esempio, il dato su R&S dipende dalla normativa fiscale – a seconda che alcune attività figurino a investimenti o a spese – mentre, per gli istituti pubblici, dipende dal modo di contabilizzare e ripartire le spese totali fra diverse attività: per le università fra didattica e ricerca, per gli enti di ricerca fra diverse qualifiche del personale.

In secondo luogo, per evitare di mettere sempre in guardia il lettore su questi aspetti e, soprattutto, per non appesantire la lettura, si è preferito aggiungere un’Appendice in cui sono riportati non soltanto alcuni dati, ma anche approfondimenti specifici di situazioni, istituzioni, progetti, interventi vari, nonché qualche cenno di bibliografia. Si è cercato di presentare il tutto in modo «autosufficiente», rifacendomi, naturalmente, alla struttura del libro nel suo complesso. Il lettore potrà agevolmente trovare tutti gli elementi di connessione con i vari capitoli.

Non è solo questione di soldi, di Gaetano Quagliariello

L’assunto secondo cui, nel mondo di oggi, senza ricerca e innovazione non ci sono possibilità di sviluppo e di crescita economica per un paese è poco più di un luogo comune.

Dietro questo luogo comune, però, si nasconde una posta d’incredibile importanza. La crisi che ha colpito l’economia mondiale nel 2008, infatti, ha sancito il divorzio tra economia reale ed economia virtuale, imponendo politiche di rientro che, inevitabilmente, si sono riverberate sul livello diffuso del benessere. Le prospettive certo non sono rosee. Non siamo in presenza di una crisi congiunturale. Al punto che la generazione dei nostri figli è la prima per la quale l’aspettativa di un livello di vita più alto rispetto a quelle che l’hanno preceduta non appare affatto scontata. Dipenderà, in gran parte, dalla capacità di implementare le conoscenze e le applicazioni tramite cui si potrebbero sfruttare le potenzialità ancora inespresse di. un progresso tecnico e tecnologico, che rappresenta il vero serbatoio di benessere a disposizione delle future generazioni.

Il compito per il nostro paese non è né scontato né facile. In Italia, infatti, la scarsità di risorse disponibili legata alla difficile congiuntura economica mondiale si coniuga con «carichi pendenti» sedimentatisi nel tempo. Tra i più rilevanti: un debito pubblico esorbitante, un costo dell’energia elevato e una macchina statale al tempo stesso costosa e inefficiente. Torna sempre più spesso il refrain per il quale in questa congiuntura di crisi l’Italia non avrebbe investito in ricerca e innovazione differentemente da quanto, per esempio, ha fatto la Germania. E in tanti hanno scorto in questa attitudine un segno di miopia e di scarsa propensione verso il futuro.

Posto in questi termini, però, il discorso non è serio. Non si può paragona, re la nostra situazione a quella tedesca né a quella di altri paesi i cui «fondamentali» si presentavano all’inizio della crisi ben più solidi dei nostri; né è possibile ignorare i margini esigui d’investimento che la realtà dei conti italiani offre, se si vuole evitare il default e si vuoi cogliere l’obiettivo del risanamento.

Non si tratta di aggrapparsi a un facile alibi: una spiegazione non è mai una giustificazione. Per questo nessuno è autorizzato a pensare che da una constatazione realistica possa derivare l’autorizzazione a non far nulla. Io credo, di contro, che ogni discorso consapevole sull’importanza dell’innovazione. Debba prendere le mosse dal riconoscere con onestà la fragilità della strategia italiana di investimenti in ricerca, così come essa si è consolidata negli ultimi decenni. La lista degli errori sarebbe troppo lunga. È sufficiente fermarsi a quelli più influenti:

dispersione in mille rivoli delle risorse pubbliche disponibili, in base al principio del finanziamento a pioggia erogato a beneficio del maggior numero di enti; assenza conseguente di una selezione dei progetti migliori su cui convogliare un ammontare maggiore di investimenti; scarso coordinamento politico, soprattutto in termini di individuazione di obiettivi chiari e prestabiliti, dell’attività dei centri di ricerca il cui margine di autonomia si è dilatato fin troppo negli ultimi anni, senza che ci fosse un controllo serio e costante dei risultati ottenuti in base al quale ricalibrate, nel tempo, le risorse erogate dallo Stato; partecipazione marginale dei privati al sistema di finanziamento della ricerca; deficit di meritocrazia e di valorizzazione dei migliori, che spiega da un canto il fenomeno sempre più diffuso della «fuga dei cervelli» e, dall’altro lato, l’incapacità di attrarre sul nostro territorio le risorse umane migliori provenienti da altri paesi.

L’analisi di Adriano De Maio, frutto di anni di studio e di esperienza personale, conferma nella sostanza questa diagnosi. Quel che è ancora più rilevante, non cede né al pessimismo di maniera né tanto meno alla deprecatio temporum. Punta, piuttosto, a descrivete e comprendere la realtà dei fatti per cogliere un obiettivo ambizioso: individuare il terreno su cui rielaborare una strategia vincente di innovazione e sviluppo, partendo dal presupposto che siano il motore stesso della crescita del paese e indicando, per questo, il modo di utilizzate al

meglio le risorse scarse e gli strumenti a disposizione.

Per De Maio, insomma, non è solo una banale questione di soldi. Se così fosse, non avrebbe scritto il suo libro. Troppo a lungo si è creduto che il contributo alla ricerca potesse realizzarsi semplicemente tramite l’innalzamento del budget a essa destinato, oscurando ciò a cui De Maio tiene particolarmente: «non è soltanto la quantità delle risorse messe a disposizione che determina uno sviluppo efficace per una comunità; il fattore chiave è, prima e soprattutto, il metodo seguito per la decisione», che se è efficace genera «una moltiplicazione di risorse, sia pubbliche che private».

Lo Stato, avverte giustamente De Maio, non può limitarsi a elargite fondi e tanto meno deve elargirli «a pioggia». Deve saper operate delle scelte politiche ispirandosi a una strategia di fondo. In Italia, in particolare, questa strategia deve poggiare sulla necessità che l’apparato statale impedisca di disperdere risorse e che, di contro, agevoli la formazione di aggregazioni senza le quali il nostro paese verrebbe inevitabilmente sospinto fuori dalla competizione. La struttura economica italiana, infatti, è sempre più caratterizzata da una piccola e media industria diffusa che, se da un canto per la sua elasticità, diffusione, fantasia, capacità di adattarsi al mercato rappresenta un’insostituibile risorsa, dall’altro rende un obiettivo più difficile da raggiungere la formazione di quella massa critica che la competizione all’interno del contesto globale impone. L’azione dello Stato, in tal senso, deve essere anche quella di stimolare l’investimento privato e convogliare le risorse in modo da non disperdere potenzialità imporranti. Il che, tradotto in pratica, vuoi dire concentrare le risorse a disposizione su una serie di «progetti bandiera», in corrispondenza con i campi di eccellenza in cui l’Italia può emergere. T urto ciò rimanda, del resto, a una delle stagioni più felici del rapporto tra Stato e ricerca: quella dei «progetti finalizzati» degli anni Ottanta – quando per la prima volta s’innescò una sinergia significativa tra ricerca pubblica e impresa – che, non a caso, fecero fare un balzo incredibile alla ricerca italiana.

Su queste premesse è possibile innestare un circolo virtuoso tra cooperazione, competizione e merito, sia a livello nazionale che a livello europeo e internazionale. Non c’è dubbio che, in pieno processo di globalizzazione, vadano

cercate sintesi quanto meno europee; e non c’è dubbio che preoccupino, in quest’ottica, i processi di rinazionalizzazione delle politiche a cui assistiamo, anche nel campo della ricerca. Ciò premesso, va anche ribadito che la cooperazione non può intendersi come mero accodamento dell’Italia a priorità, strategie, eccellenze fissate altrove. È assolutamente necessario che nel meccanismo di cooperazione l’Italia difenda e promuova la sua specificità tornando a sostenere, senza velleità e laddove è possibile, un ruolo da protagonista.

Questo obiettivo rimanda poi al metodo da utilizzare per riparare a un’ulteriore distorsione, sona negli ultimi anni a seguito delle differenti campagne contro la «fuga dei cervelli» cui accennavo agli inizi. Bisogna avere chiaro, infatti, che la soluzione al problema non è quella di puntare a un’anacronistica autarchia dell’intelligenza. È sempre stato un fatto positivo che i giovani vadano all’estero e che i diversi patrimoni culturali, i laboratori, le scuole e i vari gruppi di ricerca nazionali si possano contaminare tra loro. A maggior ragione lo è nel mondo globalizzato. La vera battaglia da combattere, dunque, è quella per la riattivazione di una «circolazione della élite delle intelligenze», che eviti all’Italia di essere unicamente un paese esportatore di sapere e di risorse umane, e la ponga nuovamente nelle condizioni di attirare i migliori dall’estero.

Se ciò è valido in ambito internazionale lo è anche in ambito nazionale, rispetto a quanto si verifica tra il Nord e il Sud del nostro paese. Il Mezzogiorno, indubbiamente, soffre di. una situazione di svantaggio ed è innegabile che anche i maggiori poli d’eccellenza nel campo accademico e della ricerca risentano di una fase di declino che va ormai avanti da diverso tempo. C’è bisogno, a Sud, di una rivalutazione del capitale umano, a partire dalle condizioni di contesto più che dai finanziamenti erogati: oltre ai problemi che riguardano le infrastrutture e la criminalità organizzata, anche la messa a frutto delle risorse umane a disposizione è un fattore cruciale per la crescita, che presuppone la creazione di progetti e ambienti adeguati dove il ricercatore possa esprimere il massimo delle sue potenzialità.

Fatta la diagnosi, è necessario indicare la prognosi e la cura. Non si deve avere paura di ammettere che alcune importanti inversioni di tendenza si possono già riscontrare nel Piano nazionale della ricerca 2011-2013. Non si tratta di autoconsolazione quanto, piuttosto, di non cedere a un disfattismo che sacrifichi sull’altare del politicamente corretto quanto si è realizzato nella giusta direzione. Diciamolo senza remare: i «progetti bandiera», nella loro idea di fondo, sono una cosa buona. Vedremo come verranno individuati. Così come l’idea di fondo

del Piano, che segna una netta inversione di tendenza introducendo il principio dello «Stato che aiuta a fare» in sostituzione del principio secondo cui è lo «Stato che fa», è una cosa ottima. Secondo questa idea, infatti, pur restando fermo l’obbligo di finanziamento da parte dello Stato, si compie un passo ulteriore affermando che tale finanziamento deve fruttare un investimento ancora più alto.

In quest’ottica, i 1.772 milioni di euro stanziati vengono erogati nella prospettiva, già calcolata, di un volume complessivo di investimenti a loro volta generati e pari a 2.522 milioni di euro. Il che significa, quindi, non solo finanziare, ma fare in modo che si inneschi un meccanismo moltiplicatore delle risorse erogate, attraverso una cooperazione sempre più stretta tra pubblico e privato. Se si saprà procedere lungo questa strada, si potrà modificare profondamente il rapporto tra finanziamento pubblico e privato, facendo assumere allo Stato il ruolo sussidiario di chi aiuta non solo a fare, ma anche a concentrare le forze creando le condizioni per poter competere in ambito internazionale; in modo da tornare a essere protagonisti in Europa e riattivare la «circolazione della élite dell’intelligenza», sia in ambito internazionale che nazionale: proprio come vorrebbe De Maio.

Cogliere questi segnali di ottimismo non è una fuga dalle difficoltà. Compatta, invece, un surplus di responsabilità da parre della politica. Uno Stato sussidiario non può essere uno Stato assente e neppure uno Stato distratto. Ai decisori pubblici, ai vari livelli, spetta la responsabilità e il compito di procedere alla distribuzione delle risorse e di coordinare le attività delle diverse strutture, in maniera che tutte lavorino con le medesime finalità e ispirandosi agli stessi principi.

Tutto ciò è ancora più vero in un quadro di risorse scarse che, proprio per questo, non possono essere sprecate. Perché solo se questi obiettivi saranno colti, la ricerca e l’innovazione potranno divenire realmente parte della politica economica del paese, facendosi carico dei suoi problemi e accettando, per questo, la profonda riconsiderazione dei suoi parametri. Soltanto a queste condizioni, d’altro canto, esse potranno essere realmente considerate dei fattori di crescita per una nuova stagione di sviluppo dell’Italia.