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Pubblichiamo l’introduzione al libro di Giorgio Federico Siboni, Il confine orientale da Campoformio all’approdo europeo, Oltre edizioni, 2012.

I.) Il confine
Nella sua accezione geografico-politica, con il lemma confine, applicato dal diritto internazionale o comunque dalla disciplina degli Stati, si intende in generale la linea di demarcazione – naturale o astratta – che separa due territori afferenti a soggetti diversi, che siano autorità locali oppure in altri casi statuali. Nel diritto internazionale, il confine è definito anche come frontiera e tale è l’estremità che delimita lo spazio di intervento del singolo Stato e che può quindi essere controllata materialmente come pure militarmente.

Nei secoli e tutt’oggi

Il significato e l’uso dei termini confine e frontiera hanno da sempre creato alcuni problemi. […] Il confine è fortemente radicato alla terra. Come sottolinea Milani in Il confine nel mondo classico, «un gruppo di lessemi indicanti in varie lingue indoeuropee il solco è accomunato dal significato originario di “tirare”; il confine è il solco che il vomere dell’aratro traccia nella terra. Per il mondo latino, infatti, la traccia del vomere rappresentava il solco originario che fondava lo spazio cittadino; disegnava l’orizzonte della città; separava la città dalla campagna, l’interno dall’esterno. Per poter costruire un confine occorre prima, prendere possesso di un terreno e, poi, misurarlo. Il confine diventa completamente visibile solo mediante la presenza di segni che lo individuano.»

In buona parte dei casi, la tracciatura dei confini stessi è avvenuta storicamente seguendo delle caratteristiche geografiche specifiche dei luoghi. Quella che potremmo definire anche come la percezione o la presa di coscienza concettuale dei cosiddetti confini naturali, si delineò a livello di riflessione geo-politica a partire dalle guerre europee seguite alle iniziative interne ed estere della Francia rivoluzionaria e napoleonica e si affermò pienamente nell’Ottocento.

L’espressione confine naturale, insieme parte in causa ed effetto del risveglio e delle aspirazioni nazionali, divenne dunque quello di uno spazio storicamente delineato, abitato da un’etnia, una popolazione o una nazione stricto sensu omogenea, all’interno (come del resto all’esterno) di un dato territorio geografico delimitato per l’appunto da frontiere naturali (fiumi, catene montuose, mari). Nel XIX secolo tale concezione, largamente dominante a più livelli culturali e a lungo permanente, guardava pertanto febbrilmente ai confini – e tanto più a quelli naturali – come a qualcosa di immanente alle vicende e al carattere di un popolo, una sorta di elemento e possesso ancestrale della stessa comunità nazionale.

La costruzione e la definizione del territorio non costituirono – in passato non meno che al presente – solamente una prassi connotata da una serie di processi politici, sociali e con essi da un susseguirsi di operazioni materiali, ma attraversarono pure la costruzione di un complesso di immagini poste oltre la sfera geo-fisica. I confini divennero cioè un apparato destinato tra l’altro a legittimare la forma di potere in essere. La spada – per parafrasare una vecchia, usuale metafora – non era e non è soltanto lo strumento per difendere «il solco». Diviene di frequente il mezzo atto a tracciarlo.

L’imperialismo e le sue correnti dottrinarie portarono la rappresentazione del confine a conseguenze che univano i presupposti sopra delineati con aspirazioni od obiettivi di potenza, oppure a stimoli di natura più propriamente strategica ed espansionistica. Non è quindi fuori luogo, in conclusione, guardare al confine anche come alla prima ratio che fu agitata come base di molti fra quei conflitti che poi insanguinarono l’Europa lungo tutto l’arco del Novecento.

II.) Il confine orientale

Nell’ambito della dialettica di frontiera andranno pure situati gli avvenimenti che hanno a lungo connotato il confine orientale italiano e di conseguenza gravemente condizionato fino in epoca recente le traversie sofferte dalle popolazioni disposte lungo questo limes.
Il litorale orientale dell’Adriatico può essere visto come una zona in cui per secoli si sono intrecciati e sovrapposti molteplici confini, di natura politica, culturale e religiosa, infine nazionale. Un luogo non solo geografico, in quanto parte dell’Adriatico oppure limite/margine delle Alpi Giulie e Dinariche e in sostanza della penisola balcanica, ma anche in quanto luogo storico, luogo di esperienze legate ai processi di qualche confinazione e perciò regione di passaggio fra l’Europa Occidentale (intesa in senso generico) e quella orientale. Proprio in quanto regione che è in sé anche un confine, l’Adriatico orientale rimane certamente un luogo caratteristico nella geografia storica d’Europa.   

Al proposito tornano alla memoria i celeberrimi versi danteschi: «sì com’a Pola, presso del Carnaro ch’Italia chiude e suoi termini bagna». Geograficamente parlando, quindi, l’area in questione si colloca dalle sponde del fiume Isonzo sino alla displuviale alpina orientale – ossia il tracciato fittizio che discende dal confine dell’Austria tedesca per giungere nel mare Adriatico al golfo del Quarnaro, racchiudendo la stessa valle dell’Isonzo con i suoi immissari, il Carso (triestino e goriziano) e la penisola istriana. A questa compagine unitaria si allega l’adiacente città di Fiume e successivamente (toltone un esteso intervallo di alcune decine di chilometri) la diffusa fascia che corre lungo il litorale dalmata con gli antistanti e numerosissimi arcipelaghi di isole, sino alle profonde bocche di Cattaro – oggi in Montenegro. La regione compresa in tale configurazione prese il nome di «Venezia Giulia» grosso modo dal 1863, a partire dal litorale asburgico (Küstenland) con la contea di Gorizia e Gradisca, Trieste e il margraviato d’Istria.

L’intento espresso da chi coniò tale etimo – il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli – era quello di assegnare a tale complesso geografico un’immagine unitaria che evidenziasse le ascendenze romano-venete dell’area. La fortuna di questa definizione fu assai lenta, si impose gradualmente soprattutto dopo lo scoppio della Grande guerra e mantenne a lungo un significato aggiunto piuttosto vago o quanto meno poco definito.

La zona considerata, abitata sin dall’epoca preistorica, fu poi connotata da un intenso e capillare processo di romanizzazione. In Età medievale i territori presi in esame ebbero però una pertinenza politica diversificata. Si trattò di una configurazione delineatasi con la decadenza della contea di Gorizia e del dominio temporale del patriarcato di Aquileia (XV/XVI secolo), mentre andava affermandosi il controllo veneziano fra la pianura friulana, le coste istriane e quelle dalmate in uno stretto collegamento anche simbolico. Contemporaneamente l’Istria interna iniziava a gravitare verso il bacino orientale europeo nell’orbita del Sacro Romano Impero e poi in quella asburgica, a partire dalla Carniola.

Non senza una serie di conflitti precedenti e successivi, il confine rimarrà regolato – sino alla fine dell’Antico Regime – dal lodo di Trento (1535), tanto per quanto concerne il Friuli sia per quanto riguardava l’Istria, entrambi suddivisi in due segmenti. Nel primo caso la linea di confine attribuiva la fortezza di Palmanova a Venezia e Aquileia all’Impero, non senza le complicazioni di reciproche enclaves feudali, con Grado e la zona bisiacca di Monfalcone sotto il dominio della Serenissima. Nel secondo, il lembo territoriale veneto configurava una linea di arco: da Pinguente e Muggia fino a Pola e Albona. Sotto lo scettro imperiale, nel seno della penisola, restavano invece la Contea di Pisino e altre minori potestà giurisdizionali.

Caso ancora a sé stante era rappresentato dalla città di Trieste (con il suo Litorale) che prima di associarsi all’Austria (1382) fu città vescovile e quindi libero comune, incuneata fra le terre venete dello Stato da Terra e quelle istriane dello Stato da Mar. Nell’Età contemporanea i punti di riferimento si alterarono con il ritmo delle ridefinizioni nazionali, per giungere infine alla sistemazione attuale, nel passato mai riscontrata e certamente tutt’altro che pronosticabile.

Un confine mutevole quindi, quello orientale, soprattutto perché sempre fissato su termini ideologici, nell’accezione se possibile più ampia della sua locuzione. Un territorio non di meno culturalmente ed economicamente integrato e proprio per tale via di perpetua ardua demarcazione. Un’area – analogamente a molte regioni dell’Europa centro-orientale – i cui gruppi linguistici storicamente residenti – italiano, sloveno e croato in primis – hanno a loro volta risentito di una nazionalizzazione competitiva che rifletteva caratteri stanziali per certi versi dissimili: da una parte un ceto litoraneo e urbano italofono (o più propriamente venetofono, con l’esclusione della Repubblica di Ragusa che adottò il toscano in contrapposizione a Venezia) e dall’altra una popolazione interna slava, radicata e ritratta nei valori di un «territorio etnico» eminentemente rurale. Nonostante ciò e certo per conseguenza di tali peculiarità, tale superficie è stata anche il luogo d’incontro fra diverse rifrazioni culturali – italiana e veneta, come si è detto, ma anche friulana, slovena, croata e tedesca, senza contare le minori comunità serbe, istro-romene e greche – a loro volta mobili e intrecciate come gli stessi confini.

Fin da questi brevi cenni risulta evidente come gli attori presenti in questo compartimento si distribuissero in un’intersezione che comprese lungo il tempo formazioni statali oggi corrispondenti a Italia, Austria, Ungheria e con esse soprattutto alle attuali repubbliche di Slovenia e Croazia risultate dalla disgregazione della Jugoslavia negli anni Novanta del secolo trascorso. Protagonisti periferici, anche se tutt’affatto marginali nel panorama ricordato, furono in diversi momenti pure Germania e Francia.

III.) Passato, presente (e futuro?)

Le competizioni sovranazionali, le rivendicazioni etniche o etnico-politiche, i temi dell’irredentismo, le aspirazioni strategiche e regionali, costituirono le diverse fondamenta e i molti pretesti che formarono la piattaforma delle tre grandi questioni legate al confine orientale: quella adriatica, la questione di Trieste e quella giuliana. Opposte e varie pretese vennero nutrite da dimostrazioni tanto culturali quanto razziali. Si sovrapposero incrociandosi e addensando su quella sponda dell’adriatico nord-orientale una ridda di rappresentazioni in armi e di controversie diplomatiche. Anche qui, lungo tutto il Novecento, l’espulsione forzata fu allo stesso tempo un mezzo considerato legittimo dalla politica: dall’inizio della Prima guerra balcanica nel 1912 allo scorcio degli anni Novanta in Jugoslavia. In esatta sintonia con i numerosi contrasti confinari avvenuti in Europa grosso modo fra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX, la storia del confine orientale italiano permane così come dimostrazione se non di centralità politica – più reclamata che realistica – soprattutto delle contraddizioni proprie di una volontà gridata ai quattro venti e sostenuta dai diversi contendenti: della determinazione, cioè, di potere fissare – all’interno di una regione multiforme ed eterogenea per storia e popoli – una frontiera egemonica e rigorosa.

Fra i grandi temi della storiografia nazionale tali quesiti spaziali occupano un posto indubbiamente rilevante. La ricerca storica è infatti chiamata a confrontarsi con i molti momenti di svolta e spesso anche di rottura che, in questo ambiente, hanno costituito le tappe della presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico. Proprio a causa della complessità degli elementi che lo connotano e lo hanno connotato, per varie ragioni sino ai nostri giorni, il confine orientale e le sue vicende hanno ricevuto in passato un’attenzione sovente rimasta consacrata a un ristretto numero di studiosi attenti ai diversi avvenimenti del primo e del secondo dopoguerra. Su tale limine, centrale nel panorama storico italiano, è più che mai necessario continuare a sviluppare quell’indagine critica e scevra da pregiudiziali di vario colore che, come avviene da qualche tempo, renda possibile al pubblico una conoscenza organica della materia.

Nel mentre si medita sul significato e sul valore dell’Unità nazionale, in occasione del centocinquantesimo anniversario – rispetto a una terra in cui essa ha trovato solo più tardi quel compimento destinato a essere prestamente rimesso in discussione – tale disegno è tanto più desiderabile soprattutto da che il superamento della tensione tra il blocco occidentale e quello orientale e la fine della Jugoslavia come entità statale unica, nel vicino est europeo, hanno dato nuovo impulso e interesse ai delicati contenuti che toccano la sopravvivenza dei caratteri italiani nell’Alto Adriatico. Si stanno intanto rivitalizzando collegamenti che sembrano paralleli alla stessa struttura posta in essere dall’Unione europea e alla sua organizzazione: basti pensare all’asse che collega l’Italia settentrionale con la Slovenia e la Dalmazia attraverso Trieste, oppure al circuito che unisce Monaco a Praga con Plezeň e Dresda, e ancora al tracciato che allega Copenhagen e Riga con Rostock e Malmö. L’Europa torna a rappresentare in primis il trafficato ambito antropico nel quale si è cristallizzato lo scenario della sua storia e in questo senso i Paesi già sottratti a questa iniziale realtà dal Patto di Varsavia (o più genericamente dal blocco orientale), riassumono oggi lentamente la loro collocazione naturale, dopo l’inacessibilità che li aveva fatti sbiadire nel panorama della concezione occidentale dell’Europa democratica.

Prendere coscienza di ciò che esprime quella che potremmo definire come l’essenza costitutiva dell’Europa – la sua economia morale – significa anzitutto valutare i complessi rapporti tra Oriente e Occidente in un’ottica realistica che consideri sia elementi interni che dinamiche trasversali nel concerto dei Paesi coinvolti e delle strutture esterne con essi convergenti. Dopo l’ultima guerra mondiale si sono avuti perciò milioni di esuli: come i tedeschi delle province orientali della vecchia Prussia, i finlandesi che hanno dovuto abbandonare la Carelia, gli ungheresi di Slovacchia e gli stessi italiani di Istria e Dalmazia.Da tutto ciò emerge come l’Europa sia

Un quadro complesso, [nel quale] le frecce sulle mappe […] avrebbero dovuto includere molte lingue, molte strade, distanze, confini […]. Storie di vite umane […]. La morte e la tragedia, il caso, il destino e le coincidenze.

Non va di conseguenza parimenti dimenticato, nell’esprimere tali considerazioni in modo responsabile, che il nostro continente (prima ancora di cercarsi ritratto nei valori della cultura cristiana e umanistica) è stato – e torna a essere – il fondale di multiformi paesaggi plurietnici, il risultato di sfaccettate ibridazioni, di situazioni conflittuali e di microcosmi culturali che hanno preceduto e seguiranno le violente deportazioni, le migrazioni forzate, le pulizie etniche e la definizione delle stesse frontiere politiche.