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Le politiche del lavoro e del welfare nell’attuale legislatura

di Giuliano Cazzola

I tanti “mozzorecchi” della sinistra politica e sindacale non  risparmiano critiche al ministro Maurizio Sacconi. Susanna Camusso  lo accusa, ogni volta che apre bocca, di destrutturare il  mercato del  lavoro  e  di  annichilire i  sacrosanti  diritti  dei  lavoratori,  violando  ogni possibile legge posta a fondamento del nostro vivere civile. Gli esponenti del Pd, legati alla Cgil, non perdono occasione per definire Sacconi «il peggior ministro del Lavoro degli ultimi anni». Avvicinandosi la fine di una Legislatura – nata all’insegna di grandi speranze, ben presto oppresse da una crisi economica con effetti non solo devastanti, ma sottoposti ad inattese ed impreviste trasformazioni, a cui si è aggiunta un’offensiva mediatico-giudiziaria di stampo golpista  nei confronti del premier – è il caso di fare il punto sulle politiche del lavoro e del welfare che l’attuale governo ha portato avanti con una marcata impronta di un ministro sicuramente impegnato e competente come Maurizio Sacconi. Le medesime considerazioni – per quanto riguarda il pubblico impiego, che è pur sempre un settore- chiave del mondo del lavoro – valgono per il ministro Renato Brunetta, anch’esso criticato, dalle organizzazioni sindacali, dai precari di professione e dalla libellistica di regime, per il piglio deciso con cui ha affrontato le inefficienze della pubblica amministrazione ed impostato un riordino del lavoro pubblico ispirato ai principi del merito, della flessibilità della retribuzione in relazione alla produttività e alla professionalità. Purtroppo molte delle impostazioni volute e promosse da Brunetta, con una solerte iniziativa legislativa già all’inizio della Legislatura, sono rimaste in parte inespresse in conseguenza del blocco della contrattazione collettiva (e persino della retribuzione individuale) nei settori pubblici determinata dalle esigenze di contenimento della spesa e di risanamento dei bilanci. Ciò nonostante la rotta rimane tracciata per quando si uscirà dall’emergenza. Intanto, nelle amministrazioni pubbliche sono stati raggiunti risultati importanti nella lotta all’assenteismo e nella migliore organizzazione degli uffici e dei servizi, in un contesto di sostanziale tregua sindacale, come se i dipendenti pubblici e i loro sindacati (con la solita eccezione della Cgil) si fossero resi conto che la linea Brunetta non solo era giusta, ma mirava altresì a premiare i tanti lavoratori meritevoli ed onesti che stanno nelle strutture pubbliche. Ma procediamo con ordine, seguendo l’itinerario delle politiche adottate nelle diverse fasi della vita del Paese.

All’inizio della Legislatura

Poche settimane dopo la costituzione dell’esecutivo venne varato, tra la sorpresa della sinistra che era abituata alle solite pratiche, il Dpef insieme con la conversione in legge, prima della sospensione estiva, della manovra anticipata (il decreto n.112/2008). Il Governo introdusse, in un’ottica di liberalizzazione e di deregolazione, delle importanti innovazioni anche in materia di lavoro, quali, tra l’altro, l’abolizione del divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro, le modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato e dei contratti occasionali di tipo accessorio e dell’apprendistato, alla normativa sull’orario di lavoro. Altrettanto importanti sono le disposizioni recanti misure di semplificazione in materia di adempimenti obbligatori di natura formale nella gestione dei rapporti di lavoro, quale l’istituzione del ‘libro unico del lavoro’ nonché l’abrogazione di prescrizioni e adempimenti burocratici gravanti sull’insieme dei datori e dei lavoratori (come la macchinosa – e un po’ insensata – procedura da seguire in tema di dimissioni volontarie). Tali misure non hanno ridotto la tutela dei diritti dei lavoratori, ma hanno semplificato i rapporti di lavoro e la gestione delle imprese  promovendo e diffondendo processi di collaborazione e di partecipazione. E comportato – secondo stime del Lavoro – risparmi per le  aziende  nell’ordine  di  circa  4  miliardi  di  euro,  di  cui  Emma  Marcegaglia  e  la Confindustria sembrano essersi dimenticate.

Sempre all’inizio della Legislatura, particolare rilievo spetta poi alle norme riguardanti il riordino del pubblico impiego. Anche in questo caso, il decreto legge era in sintonia, in materia di lavoro e di pubblico impiego, non solo col piano industriale del Governo, ma addirittura  col Libro verde sulla spesa pubblica di Tommaso Padoa Schioppa (settembre 2007). Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, il Libro rilevava (al paragrafo

2.4) come le retribuzioni dei dipendenti pubblici fossero aumentate negli ultimi anni a tassi ben superiori rispetto all’inflazione e alla produttività totale dell’economia. Ciò era l’effetto di molte e complesse ragioni: un sovrapporsi di ruoli tra contrattazione di primo e di secondo livello, che snaturava in parte l’impostazione degli accordi del luglio 1993; il cronico ritardo con cui si concludono le tornate contrattuali nel pubblico impiego; un forte meccanismo di emulazione tra comparti in sede di contrattazione decentrata; il ruolo fortemente politico assegnato al contratto del pubblico impiego; una scarsa attenzione agli andamenti della produttività; lo slittamento salariale determinato dai passaggi orizzontali (all’interno della stessa qualifica) e verticali (tra qualifiche) dovuti in massima parte all’anzianità di servizio; una volontà di recupero rispetto ad una dinamica sistematicamente inferiore a quella dell’industria privata durante gli anni ’90. In merito al solo comparto Ministeri si osservava, poi, che vi era ancora poca mobilità (l’80 per cento del personale non ha cambiato neanche una volta ufficio all’interno dello stesso Ministero negli ultimi 5 anni) e che esistevano forti eterogeneità nella distribuzione tra centro e periferia, tra dirigenti e non, nonché tra i diversi Ministeri. Il complesso dei redditi da lavoro delle amministrazioni pubbliche in Italia – aggiungeva il Libro –  era pari all’11 per cento del PIL, un dato sostanzialmente in  linea  con  la  media  dei  Paesi  dell’Unione Europea  a  15.  Mentre  i principali Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) avevano ridotto nel corso degli ultimi 5-6 anni il rapporto tra redditi da lavoro e PIL, in Italia era aumentato (era il 10,4 per cento del PIL nel 2000). Quanto poi alle problematiche del turn over, affrontato con rigore dal decreto legge poi convertito nel 2008 e dalle successive leggi, il Libro verde traeva un bilancio assai poco lusinghiero delle esperienze compiute. Relativamente  alle unità di personale a tempo indeterminato impiegato presso le pubbliche amministrazioni nel periodo 2002-2006, il Libro  indicava che il sistema del blocco con deroghe  aveva manifestato una certa efficacia per gli Enti pubblici non economici, per gli enti di ricerca e per i Ministeri e le  Agenzie fiscali per i quali si stimava una riduzione nel 2006 del 7 per cento rispetto alle consistenze del 2002. Diverso il discorso per i Corpi di Polizia e per le Forze Armate per i quali, nonostante il blocco, si stimava nel medesimo periodo un incremento delle unità a tempo indeterminato intorno al 5,4 per cento. Nello stesso periodo, la Scuola mostrava un aumento complessivo di personale docente e non docente di circa l’1,3% dovuto esclusivamente al personale “non di ruolo” che ricopriva posti di organico (il personale a tempo indeterminato “di ruolo”, infatti, si riduceva del 4,90%, 46.010 unità). Ecco spiegato perché Scuola e Forze dell’Ordine erano i settori in cui venivano previsti nel decreto dei tagli negli organici.

Nel complesso, per quanto riguarda il personale a tempo indeterminato, per tutto il pubblico impiego  nel  periodo  2002-2005,  le  stime  riflettevano  una  sostanziale  invarianza dell’occupazione (-0,52 per cento nel periodo). A fronte di una riduzione complessiva annua del personale dovuta prevalentemente a pensionamento intorno al 2,8 per cento (all’incirca 100 mila dipendenti all’anno per l’insieme della Pubbliche Amministrazioni), il sistema aveva generato, al netto delle fuoriuscite naturali un incremento dell’occupazione di almeno il 2,6 per cento all’anno. Si dimostrava così – anche se può sembrare paradossale scriverlo – che la maggioranza di centro destra si era fatta carico di problemi  già iscritti all’ordine del giorno e aveva dato spazio e voce a quel poco di riformismo emerso nella precedente legislatura e subito inghiottito nel radicalismo arcigno della Unione e dalla sua soggezione ai sindacati.

Sempre nel primo pacchetto di misure all’inizio della Legislatura prese avvio  una sperimentazione destinata a diventare poi la regola fiscale dell’intero lavoro dipendente privato. Quella di un fisco che non fosse indifferente ed indifferenziato nei suoi effetti ma che sapesse distinguere all’interno delle componenti della struttura della retribuzione, favorendo la parte corrispondente ad uno specifico impegno del lavoratore, a un suo merito, ad un suo impegno particolare, come quello che si realizza rendendosi disponibile alla flessibilità organizzativa e agli straordinari (negli anni successivi questa voce venne inclusa o esclusa dal beneficio a seconda della situazione dell’economia e dell’occupazione). In quel caso veniva meno la progressività, e il prelievo si fermava a una tassazione secca, agevolata e definitiva del 10%.  Questo intervento di carattere fiscale (che si aggiungeva ad un previgente bonus contributivo) ha giocato un ruolo determinante nell’individuazione di un nuovo modello di relazioni industriali più orientato verso la contrattazione decentrata, è stato rifinanziato anche negli anni seguenti, anche a copertura dei più importanti accordi aziendali (il caso Fiat), divenuti emblematici, in seguito, di un’intera stagione.

Sempre nell’estate del 2008 ha iniziato il suo travagliato iter legislativo il c.d. collegato lavoro, che è diventato legge dello Stato solo nel novembre 2010 (legge n.183), dopo ben sette letture (quattro della Camera e tre del Senato) e che è stato persino oggetto di un rinvio alle Camere, ai sensi dell’articolo 74 Cost., da parte del Capo dello Stato. Ma di questo provvedimento, che è diventato l’atto più importante del Governo in materia di lavoro, parleremo in modo specifico.

Lemergenza

Nell’autunno del 2008 la crisi internazionale si è presentata con una violenza largamente imprevista ed imprevedibile, con tratti di profondità e di radicalità improvvisi e profondi che hanno posto tutte le economie dei Paesi sviluppati di fronte a scelte repentine per fare fronte ad effetti sociali che avrebbero potuto avere conseguenze drammatiche sull’occupazione e sul tenore di vita delle famiglie. Anche l’Italia, nonostante che il Governo prima dell’estate avesse intuito l’avvicinarsi della crisi e  deciso di “mettere in sicurezza” per un triennio il bilancio dello Stato (mentre l’opposizione invocava il deficit spending con lo stanziamento straordinario di risorse corrispondenti a un punto di Pil) mediante l’anticipazione della manovra di bilancio, si era trovata coinvolta in questa “tempesta perfetta” con le aggravanti delle sue fragilità di sistema: il divario Nord-Sud, l’evasione fiscale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, ecc.  Si  rese  necessario  decidere in  fretta,  ma  prima  ancora divenne urgente compiere delle scelte sulla base di precise priorità a cui destinare le risorse (comunque scarse) a disposizione. Le imprese, trovatesi all’improvviso prive di ordini e sottoposte alla richiesta di rientrare delle loro esposizioni con le banche anche per il credito ordinario, costrette a ridurre drasticamente i loro volumi produttivi, si ponevano drammaticamente il problema di che cosa fare della manodopera. La sinistra non ebbe dubbi a  sbagliare  ancora  una  volta  nel  dare  le  proprie  indicazioni: secondo  loro  occorreva riformare l’indennità di disoccupazione per renderla applicabile a tutte le posizioni lavorative, comprese quelle c.d. precarie. Sarebbe stato un segnale con effetti devastanti. Le aziende sarebbero state invitate a licenziare. Il “Governo del fare” giocò invece la carta degli ammortizzatori sociali, estendendone, mediante la cig in deroga e la riorganizzazione, in via amministrativa, della cig ordinaria e di quella straordinaria, la copertura anche ai quei settori del mondo del lavoro dipendente (più della metà) che ne erano privi. Ci sono due dati che testimoniano più di tante parole lo sforzo compiuto in tale direzione che ha consentito alle imprese di mantenere collegate le maestranze senza dover interrompere il rapporto di lavoro. Quando, nel contesto del «collegato lavoro» (in seguito la norma prese altre vie legislative più rapide),  fu previsto, nell’ottobre del 2008, il rifinanziamento della cig in deroga, lo stanziamento era fissato in 400 milioni. Nel febbraio 2009, in seguito all’accordo tra lo Stato e le Regioni, furono mobilitati 8 miliardi (rispettivamente 5,5 e 2,5) per l’anno in corso e per il 2010. Il c.d. tiraggio della cig (ovvero l’effettiva utilizzazione delle ore autorizzate) è stato pari al 65% nel 2009 e al 50% nel 2010. Gli schemi della riduzione d’orario – secondo l’Isfol – hanno consentito di salvaguardare circa 700mila posti di lavoro tra il IV trimestre del 2007 e il I trimestre del 2011. Nei primi anni ’90 per ogni punto di Pil perso il tasso di occupazione subiva una flessione media dell’1,1%. Nel 2009, per ogni punto la flessione è stata dello 0,48%. Questa strategia è stata frutto di una scelta, consapevolmente difficile, nel senso che si sono tutelati precisi soggetti sociali (potremmo dire i “padri” e le “madri”), mentre non è stato possibile tutelare allo stesso modo quella parte del mercato del lavoro impiegata a termine o con rapporti di lavoro flessibili (i “figli”). L’intervento una tantum a favore dei collaboratori in regime di monocommittenza non ha sortito un buon effetto (dei 200 milioni di euro stanziati sono rimasti inutilizzati  circa 176 milioni nonostante l’intervenuta revisione dei criteri di erogazione).

La revisione correttiva del Testo unico sulla sicurezza e la salute dei lavoratori

Anche questa è una dimenticanza di Emma Marcegaglia. Nel 2009 il ministro del Welfare ha affrontato direttamente, avvalendosi della norma di delega correttiva, un’opposizione schierata a difesa del decreto legislativo del Governo Prodi, varato a legislatura ormai scaduta, sotto l’influsso del gravissimo incidente occorso alla Tyssen-Krupp e contro il parere di tutte le organizzazioni imprenditoriali. Il Testo Unico del 2008 era un provvedimento molto complesso (una dozzina di titoli e parecchi allegati) in cui  era stata completamente rivisitata, in modo organico, ma affrettato e confuso, la materia con una forte propensione vincolistica e sanzionatoria che caricava sulle imprese un cumulo di responsabilità oggettive (anche di rilievo penale) che andava ben oltre il concetto di “rischio professionale” del datore di lavoro, tenuto a garantire condizioni di sicurezza ai propri dipendenti.   Si  stavano  preparando,  pertanto,  un  effetto  da  “gride  manzoniane”, caratterizzate da un’inutile severità al dunque solo predicatoria. “Dobbiamo interrogarci su quale sia, in particolare, il punto critico, oltre il quale – aveva affermato Sacconi – la definizione di ulteriori adempimenti ed ulteriori sanzioni non produca proprio l’effetto opposto di distogliere l’imprenditore e gli stessi lavoratori dall’attenzione a tutto ciò che fa sicurezza nell’ambiente di lavoro rispetto a quell’inevitabile disorientamento che si produce nel momento in cui l’attenzione si rivolge soltanto ai profili di carattere formalistico”. Facendo leva sulla prevenzione e la formazione, il decreto correttivo è passato attraverso il dibattito nelle Commissioni parlamentari e nel Paese in modo più condiviso e in assenza di polemiche di carattere strumentale.

Il “collegato lavoro”

E’ il  provvedimento più importante dell’iniziativa del Governo (chi scrive ne è stato relatore alla Camera); interviene, con i suoi 50 articoli, in molte materie importanti (magari in tanti suoi passaggi si è caricato anche di norme spesso ultronee), tra le quali vanno ricordate la razionalizzazione delle impugnative delle risoluzioni dei rapporti di lavoro, la tipizzazione delle clausole del licenziamento, le deleghe in materia di lavori usuranti e per la riforma degli ammortizzatori sociali . Il provvedimento ha avuto ben sette letture è stato oggetto di un messaggio di rinvio alle Camere, ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione, da parte del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda il principale casus belli ovvero l’articolo 31, recante norme sull’arbitrato secondo equità nelle controversie di lavoro, il messaggio presidenziale, pur ritenendo apprezzabile un indirizzo normativo teso all’introduzione di strumenti arbitrali (compresi quelli che introducono la possibilità di un giudizio secondo equità) volti a prevenire e accelerare la risoluzione delle controversie, evidenziava tuttavia la necessità di definire, in via legislativa, meccanismi meglio idonei ad accertare  l’effettiva  volontà  compromissoria  delle  parti,  con  riguardo  al  contratto individuale, e a tutelare il lavoratore, soprattutto nella fase di instaurazione del rapporto di lavoro. Inoltre, il messaggio metteva in luce che la possibilità di pervenire a una decisione arbitrale “secondo equità” non poteva in ogni caso compromettere diritti costituzionalmente garantiti, o comunque indisponibili, di cui è titolare il lavoratore; nel settore del pubblico impiego, tale possibilità andava altresì coniugata con il rispetto dei principi costituzionali di buon andamento, trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa.

Il Governo e la maggioranza ritenevano che spettasse alla contrattazione collettiva definire un quadro adeguato di garanzie (della cui necessità nessuno ha mai dubitato), tanto che il ministro Maurizio Sacconi volle prendere l’iniziativa di promuovere la sottoscrizione ad opera delle parti sociali di un avviso comune che escludesse, nel contesto delle intese negoziali, la materia della risoluzione del rapporto di lavoro dal ricorso a procedure stragiudiziali. Nel suo messaggio il Capo dello Stato ha ritenuto indispensabile, invece, un ampliamento del perimetro delle garanzie presidiate dal precetto legislativo.

La maggioranza e il Governo si sono adeguati, seguendo quelle autorevoli indicazioni, secondo  le  quali  era  «la  fase  della  costituzione del  rapporto…  il momento nel  quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro». Questa preoccupazione, riferita al momento dell’assunzione,  era ripetuta più volte nel testo del massaggio.

Così, si scelse di “blindare” la clausola compromissoria, da sottoscrivere al momento dell’assunzione e che rappresentava la chiave di volta del provvedimento. Tale clausola, ai sensi dell’articolo 808 cpc, recita: «Le parti, nel contratto che stipulano o in atto separato, possono stabilire che le controversie nascenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri…». È chiaro, allora, che si tratta di un impegno che le parti assumono per il futuro e per tutte le controversie nascenti. Non avrebbe, allora, avuto senso sommare due adempimenti: sottoscrivere liberamente una clausola compromissoria all’atto della stipula del contratto e decidere, poi, tutte le volte in cui insorgesse una controversia, se adire il giudice togato o il collegio arbitrale. Era quest’ultima la posizione del Pd che era riuscito a far  passare  un  emendamento  in  tal  senso  alla  Camera.  In  tal  modo,  attraverso  un sovraccarico di burocrazia, si sarebbe in pratica precluso il ricorso all’arbitrato pur dichiarando di condividerne, come sostenevano talune forze di opposizione, l’introduzione nel sistema delle relazioni industriali. Uno strumento facilitatore del “rendere giustizia” al lavoratore non poteva trasformarsi in un pellegrinaggio davanti alle commissioni e agli organi di certificazione.

È il caso di richiamare, in sintesi, il contesto di garanzie di cui è stata circondata l’introduzione dell’arbitrato, dopo le sollecitazioni del Capo dello Stato. Premesso che l’articolo 31 metteva in campo una serie molto ampia di opzioni per quanto riguardava le forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro e che l’arbitrato irrituale secondo equità, di cui ai commi  10 e 11 era solo una di queste, va ricordato, in proposito, quanto segue:

•     le clausole compromissorie nel contratto individuale possono essere pattuite solo laddove ciò  sia previsto dalla contrattazione collettiva. Ed è tanto importante e costitutiva la definizione di un ambito negoziale di riferimento che è addirittura stabilita una procedura, conforme alle osservazioni del messaggio presidenziale, attraverso cui il ministro del lavoro e delle politiche sociali può intervenire in caso d’inerzia dei soggetti collettivi;

•    le parti  devono recarsi davanti alle commissioni di certificazione le quali sono tenute ad accertare l’esistenza di un’effettiva volontà; le parti stesse possono farsi assistere da un legale di propria fiducia o da un rappresentante sindacale;

•    prima di poter sottoscrivere le clausole deve essere esaurito il periodo di prova o

comunque devono essere trascorsi almeno 30 giorni dalla stipula del contratto;

•    il collegio è un soggetto terzo, che giudica secondo equità, ma che è chiamato ad attenersi comunque non  solo  ai  principi  generali del  diritto, ma  anche a  quelli specifici della materia del lavoro ancorchè derivanti da obblighi comunitari;

•    è  precluso,  conformemente  a  quanto  pattuito  nell’avviso  comune,  il  ricorso

all’arbitrato per le controversie riguardanti la risoluzione del rapporto di lavoro.

Le pensioni

Il Governo è intervenuto più volte in materia di pensioni, a partire – come già ricordato – dall’abolizione completa delle norme in materia di cumulo tra pensione ed altri redditi. Illustriamo di seguito il punto di arrivo di tali interventi.

Norme di carattere straordinario ai fini di un contributo al risanamento del bilancio:

Adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita: le regole previgenti (che torneranno a valere dal 2014) prevedevano una copertura pari al 100% dell’indice Istat fino all’importo corrispondente a tre volte il minimo Inps (nel 2011, fino a 18.270 euro lordi annui). Nella quota compresa fra tre e cinque volte (30.440 euro lordi annui) la copertura era pari al 90% mentre per le fasce superiori operava un’indicizzazione del 75%. Ora, limitatamente agli anni 2012 e 2013, la rivalutazione automatica è stata così ridisegnata: a) fino a cinque volte il minimo restano in vigore le regole precedenti, b) per i trattamenti superiori a cinque volte non è concessa la perequazione automatica, fatta salva e in misura del 70% del costo della vita, la quota fino a tre volte il minimo.  In sostanza, per le pensioni di importo medio e medio- basso (fino a 30.440 euro lordi annui) non sono previste variazioni, mentre anche per i trattamenti più elevati, che non percepiranno la perequazione nei prossimi due anni, sarà  comunque adottata – fino  a  tre  volte  il  minimo – una  copertura  al  70%. Contributo di solidarietà: dal prossimo 1° agosto fino a tutto il 2014  sulla quota di pensione eccedente i 90mila euro  lordi l’anno e fino a 150mila euro sarà applicato un contributo di solidarietà del 5% che salirà al 10% sulla quota eccedente i 150mila euro. Si tenga conto che, su queste pensioni, opererà anche la riduzione della perequazione automatica.

Norme di carattere strutturale:

Allineamento dell’età per la pensione di vecchiaia delle lavoratrici alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni con quella dei lavoratori: l’input è venuto dall’Unione europea, che considera discriminazioni di genere quanto da noi, in molti ambienti, viene considerato un fondamentale diritto; ma dal 2012 le donne andranno in quiescenza a 65 anni.

Interventi riguardanti il posticipo del pensionamento:

a) l’aggancio automatico all’attesa di vita, rilevata dall’Istat, dell’età pensionabile prevista per le diverse tipologie di pensione, già in vigore dal 2015, viene anticipato al 2013, determinando un incremento del requisito anagrafico di 3-4 mesi ad ogni cadenza triennale. Nel testo iniziale del decreto l’anticipo era fissato al 2014.

b) I requisiti derivanti dall’aggancio automatico all’aspettativa di vita saranno ulteriormente incrementati quando, dal 2014 al 2026, andrà a regime l’allineamento a 65 anni dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici del settore privato, ora di 60 anni.

c) Le decorrenze dei trattamenti pensionistici di anzianità (le c.d. finestre: 12 mesi per i dipendenti e 18 per gli autonomi, introdotte sulla base di un criterio che prende a riferimento la specifica maturazione del diritto da parte del singolo soggetto interessato) conseguiti in ragione dell’anzianità contributiva (40 anni) a prescindere dall’età anagrafica, sono posticipate di un mese per i soggetti che maturano il requisito nel 2012, due mesi e tre mesi per quelli che lo maturano rispettivamente nel 2013 e nel 2014. Le medesime decorrenze sono state applicate anche nel settore della scuola che all’inizio era rimasto escluso. In generale va ricordato che il meccanismo delle “finestre” è stato introdotto, per i trattamenti di anzianità, dalla riforma Dini del 1995 e che è stato esteso anche alla vecchiaia dal Governo Prodi nella precedente legislatura, per cui i nuovi limiti comportano, nei fatti, un incremento del periodo di attesa della pensione, limitato a qualche mese. Grazie a quanto è stato fatto in questa legislatura il Governo ha potuto dimostrare alla Ue di avere le carte in regola  in  materia  di  pensioni,  anche  se  resta  qualche  problema  che  meriterebbe una soluzione meglio compiuta, come la problematica dell’anzianità.

Sempre in attuazione di una norma di delega contenuta nel “collegato lavoro” è giunta a conclusione  la  questione  della  tutela  previdenziale dei  lavoratori  adibiti  a  mansioni usuranti, in chiave di effettiva continuità di quanto predisposto e non realizzato nella precedente legislatura in conseguenza dello scioglimento delle Camere. Tale normativa era attesa da circa vent’anni. E’ toccato proprio all’attuale – tanto criticato – esecutivo di venirne finalmente a capo. Ad avvalersi del bonus di tre anni di anticipo non saranno soltanto gli addetti alla catena di montaggio, ma anche i lavoratori ‘notturni’ (per un  numero di giornate comprese  tra  64  e  78  all’ anno),  gli  autisti  di  mezzi  di  trasporto  pubblico  pesanti  e soprattutto i lavoratori occupati in attività di particolare disagio (in serre, in celle frigorifere, in gallerie, ecc.). Le attività usuranti devono essere effettivamente svolte durante sette degli ultimi dieci anni attivi (compreso l’ultimo)  fino a tutto il 2017,  per metà del periodo lavorativo a partire dal 2018. L’onere annuo dell’operazione è di circa 350 milioni.

Molto importante una legge di iniziativa parlamentare, sostenuta dal Governo, (primo firmatario l’on. Lo Presti) per dare un profilo di adeguatezza ai trattamenti delle casse dei liberi professionisti.

Nell’attuale Legislatura il Governo è riuscito a portare a termine un obiettivo a lungo perseguito nelle Legislature precedenti e che è stato oggetto di approfondimenti e di rapporti predisposti dalla Commissione bicamerale di vigilanza sugli enti previdenziali: la razionalizzazione, tramite interventi di accorpamento, fusione e incorporazione, della struttura degli enti della previdenza obbligatoria. Dapprima è stata fortemente semplificata la governance dei grandi Istituti come prevista dal dlgs n.479 del 1994. In sostanza è stato soppresso, tra gli organi, il consiglio di amministrazione, attribuendone i poteri e le funzioni al Presidente. L’intervento più significativo riguarda la costituzione del “Polo della sicurezza”, incorporando nell’Inail gli enti operanti nel settore, sia sul piano assicurativo come l’Ipsema, sia su quello dell’analisi e della prevenzione  come l’Ispesl. Enti minori sono stati incorporati nell’Inpdap. Mentre per quanto riguarda l’Inps l’operazione più importante è stata sicuramente l’incorporazione dell’Ipost. Merita altresì di essere segnalata la disposizione che ha attribuito alla COVIP (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione) la vigilanza sugli investimenti delle Casse dei liberi professionisti dopo che le stesse hanno evidenziato situazioni di rischio nel contesto della crisi finanziaria.

Le relazioni industriali

Il Governo ha sicuramente contribuito a sbloccare un negoziato sulla riforma del modello di contrattazione collettiva che languiva da almeno quattro anni. In verità, era dal 1997 che la Commissione incaricata dal Governo Prodi – e presieduta da Gino Giugni – aveva prodotto una importante relazione riguardante la riforma del Protocollo del 1993 senza però avere seguito per l’opposizione dei sindacati. Vi era poi stato l’inutile Patto di Natale del 1998, un vero e proprio regalo delle parti sociali all’esecutivo presieduto da Massimo D’Alema. In Confindustria, la presidenza di Luca Cordero di Montezemolo si era caratterizzata per un’eccessiva attenzione nei confronti di una riottosa Cgil sempre pronta ad alzarsi dal tavolo piuttosto che a proseguire il negoziato. Ascesa al vertice di viale dell’Astronomia, Emma Marcegaglia  aveva rotto gli indugi e sottoscritto, il 22 gennaio 2009, un accordo quadro, insieme a tutte le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni sindacali, eccezion fatta per la Cgil che decideva di non aderire. I punti contestati riguardavano i parametri per stabilire le retribuzioni e le c.d. clausole di deroga (rispetto a quanto pattuito nei contratti nazionali), benchè tale pratica fosse presente nei sistemi di altri Paesi europei ed addirittura consolidata, in Italia, nell’esperienza dei chimici. Va subito fatto notare che il dissenso sulle regole generali della contrattazione, diversamente da quanto si era temuto, non aveva inciso sui rinnovi contrattuali delle categorie, dal momento che vennero trovate soluzioni che hanno consentito la stipula unitaria di alcune decine di rinnovi, praticamente in assenza di conflittualità. Salvo il caso dei metalmeccanici, dove la Fiom rifiutò ogni possibile compromesso, dando avvio, sul piano dell’iniziativa sindacale e dell’azione giudiziaria, ad una contestazione che non è ancora cessata. La vicenda della Fiat si è mossa in questo scenario, con l’ulteriore sovraccarico politico e mediatico che l’importanza del gruppo evoca. Sergio Marchionne non aspirava certo a rifondare il sistema contrattuale; a lui interessava di risolvere, mediante uno strumento contrattuale adeguato, quei problemi delle sue imprese, che, non era stato possibile affrontare nel contesto delle regole vigenti, neppure ampliando l’area di applicazione delle deroghe previste dal contratto dei metalmeccanici del 2009 (contestato dalla Fiom che ancora si riconosceva in quello del 2008). Ma degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori e dei problemi sollevati, sia sul terreno dei rapporti tra livelli negoziali e della rappresentanza e rappresentatività sindacale, si è ampiamente parlato. In questa sede ci preme sottolineare un sostanziale appoggio che il ministro del Lavoro ha fornito alla linea dell’ad del Lingotto, in primo luogo evitando di intervenire nella controversia, come avrebbe fatto un Governo di centro sinistra. Sacconi è stato rispettoso dell’autonomia delle parti, vigilando con attenzione sul rispetto degli impegni di investimento assunti dal gruppo con il progetto Fabbrica Italia. Poi, quando l’accordo del 28 giugno 2011, sottoscritto anche dalla Cgil, pur dando una risposta alla problematica delle deroghe sollevata dalla Fiat, escludeva dalla sua applicazione proprio gli accordi di Pomigliano e Mirafiori (lasciandoli quindi in balia dei ricorsi giudiziari promossi dalla Fiom), il ministro Sacconi, nell’articolo 8 della supermanovra di ferragosto (dl n.138), ha voluto inserire – arriviamo così all’attualità –  una norma che ne confermasse la validità erga omnes. Ma il tanto discusso articolo 8 contiene altri aspetti interessanti proprio sul piano delle relazioni industriali. Il “pacchetto” ivi incluso costituisce un contributo essenziale allo sviluppo, che è pur sempre uno degli obiettivi del decreto: sviluppo sicuramente favorito dalla possibilità di definire, attraverso la libera contrattazione, modelli organizzativi e produttivi flessibili ritenuti più idonei per assicurare un consolidamento della ripresa produttiva, ancora gracile ed incerta; la legge non cambia di per sé il quadro delle regole, ma si affida all’iniziativa delle parti sociali.

Sempre in relazione all’articolo 8, peraltro, che il comma 2-bis è volto a specificare che nelle materie di cui al comma 2 le intese possono prevedere deroghe alle norme di fonte pubblica o contrattuale, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. E’ bene ricordare che la contrattazione in deroga è diffusa nei principali Paesi europei ed ha consentito – nel caso della Germania – di rafforzare le relazioni industriali e di farne un elemento determinante della ripresa economica.

 

Il comma 3 stabilisce che tutti i contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, siano efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto si riferisce, a condizione che il contratto medesimo sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori. Questo principio è stato applicato anche (ecco la norma salva-Fiat) agli accordi stipulati prima del 28 giugno purchè approvati con una votazione maggioritaria.

Ha fatto molto discutere il fatto che le intese negoziali di cui al comma 2 possono riguardare pure le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”, ad eccezione del licenziamento discriminatorio e del licenziamento lesivo dei diritti riconosciuti alla lavoratrice. E’ il caso di far notare quanto segue:

a) non si tratta di una modifica legislativa dell’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, ma le parti ricevono dalla norma un’opportunità in più che possono far valere o meno, ma che comunque è condizionata ad una intesa sindacale (la cui validità è comunque sottoposta a procedure anch’esse concordate);

b) secondo gli ordinamenti internazionali il lavoratore ha diritto ad una tutela in materia di licenziamento, azionabile in giudizio; ma la reintegra  giudiziale nel posto di lavoro è una mera modalità con cui si esercita tale tutela, al pari del risarcimento del danno che è poi la normale forma risarcitoria in materia di obbligazioni;

c) che la tutela tramite reintegra non sia un diritto inderogabile è provato dall’ordinamento giuridico che la riserva e riconosce solo ad una parte (numericamente minoritaria) del mercato del lavoro, tanto più che questa valutazione ha trovato riscontro persino in un referendum popolare del giugno 2003, che ha bocciato nei fatti, tramite il mancato raggiungimento del quorum, l’estensione erga omnes a tutti i lavoratori;

d) sembra poi non dimostrata e non sostenibile sul piano giuridico la tesi per cui l’articolo 8 prefigurerebbe, in talune sue parti, una violazione delle norme costituzionali, come sostiene solo parte dell’opposizione (atteso che alcuni gruppi che non sostengono il Governo hanno comunque votato a favore della norma al Senato). La stessa Consulta, infatti, non ha mai affermato il principio secondo cui la tutela reale ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori abbia una copertura costituzionale. Al contrario, la Corte costituzionale aveva dichiarato ammissibile (con la sentenza n. 46 del 2000) il referendum abrogativo – svoltosi nel maggio

2000 e di segno opposto rispetto a quello già ricordato – dell’articolo in questione, tra le cui disposizioni rientra anche quell’obbligo di reintegra che è il tema dell’attuale polemica.

Sappiamo che, in sede di ratifica dell’accordo del 28 giugno, si è aggiunta una postilla che, senza cambiare nella dell’efficacia giuridica dell’articolo 8 in quanto legge dello Stato, è apparsa come una presa di distanza politica delle parti sociali dalle opportunità che la norma offriva alla loro iniziativa negoziale. Tale circostanza – rivolta a mantenere la Cgil nel perimetro dell’accordo – ha comportato la decisione del Lingotto di uscire dalla Confindustria.

 

La riforma dell’apprendistato

Un nuovo decreto legislativo (sotto il titolo di Testo Unico) di recente pubblicazione, anch’esso in applicazione di una delega  del “collegato lavoro”,  definisce l’apprendistato come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – articolato in tre diverse tipologie contrattuali (apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale; apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere e apprendistato di alta formazione e ricerca) – finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani.

Il più importante elemento di novità è rappresentato dal coinvolgimento pieno delle parti sociali – senza esclusione alcuna – attraverso il rinvio alla disciplina attuativa recata da appositi  accordi  interconfederali o  da  contratti  collettivi  di  lavoro  stipulati  a  livello nazionale dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, sulla base di una serie di principi in parte mutuati dalla legislazione vigente e in parte innovativi (tra questi ultimi, si segnala l’estensione della forma scritta al piano formativo individuale, da definire entro 30 giorni dalla stipulazione del contratto). Si specifica, quindi, che i due sistemi previsti della retribuzione dell’apprendista (sottoinquadramento o percentualizzazione) devono intendersi alternativi tra loro, mentre restano confermate le norme vigenti riguardanti altri aspetti della regolamentazione, tra cui i limiti quantitativi per le assunzioni di apprendisti e la tutela previdenziale e assicurativa.

Viene disciplinato l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale – in sostituzione dell’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione – inteso alla stregua di un titolo di studio del secondo ciclo di istruzione e formazione. Tra le novità introdotte si segnala la possibilità di essere assunti con tale contratto con un età minima 15 anni (per tale aspetto confermando quanto disposto dalla normativa vigente), ma non oltre il compimento dei 25 anni. Il limite massimo di durata del contratto viene elevato è di 3 anni, elevabili a 4 nel caso di diploma quadriennale regionale.

È previsto l’ampliamento del campo di applicazione oggettivo dell’istituto (ai settori di attività pubblici e privati), la riduzione della durata massima del contratto, da 6 a 3 anni (per la sua parte formativa), ovvero 5 anni per le figure professionali dell’artigianato individuate dalla contrattazione, la possibilità per le regioni e i sindacati dei datori di lavoro di definire le  modalità  per  il  riconoscimento della  qualifica  di  maestro  artigiano  o  di  mestiere, l’esplicita previsione di specifiche modalità di svolgimento dell’apprendistato per le lavorazioni in cicli stagionali.

Occorre poi evidenziare la  disciplina dell’apprendistato di alta formazione e ricerca, che sostituisce  l’apprendistato  per  l’acquisizione  di  un  diploma  o  per  percorsi  di  alta formazione. Tra le novità introdotte (oltre, appunto, alla previsione di un apposito contratto di apprendistato per la ricerca) si sottolinea la rimessione alle Regioni della regolamentazione e  della  durata  dell’istituto, in  accordo  anche  con  altre  istituzioni  di ricerca, nonché la possibilità di assumere con contratto di apprendistato di alta formazione e di  ricerca  anche  i  soggetti  coinvolti  nel  praticantato  per  l’accesso  alle  professioni ordinistiche o per esperienze professionali.

 

In conclusione, il decreto legislativo mira ad innovare la disciplina dell’apprendistato al fine di facilitare l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, favorendo un più efficiente raccordo tra percorsi di studio e di formazione e accesso alle professioni, nel pieno rispetto delle competenze dei diversi soggetti istituzionali e sociali.

Gli impegni della “lettera di intenti” sull’efficientamento del mercato del lavoro

È prevista l’approvazione di misure addizionali concernenti il mercato del lavoro.

1. In particolare, il Governo si impegna ad approvare entro il 2011 interventi rivolti a favorire l’occupazione giovanile e femminile attraverso la promozione: a. di contratti di apprendistato contrastando le forme improprie di lavoro dei giovani; b. di rapporti di lavoro a tempo parziale  e di contratti di inserimento delle donne nel mercato del lavoro; c. del credito di imposta in favore delle imprese che assumono nelle aree più svantaggiate.

2. Entro maggio 2012 l’esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro a. funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato; b. più stringenti condizioni nell’uso dei “contratti para- subordinati” dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato.

Conclusioni

Alle leggi ricordate vanno aggiunte le norme riguardanti le revisione dei tirocini formativi al fine di limitarne gli abusi e l’introduzione di una sanzione penale per il c.d. caporalato. Sono poi da annoverare una serie di atti politici e di avvisi comuni che hanno affrontato alcuni aspetti importanti del mercato del lavoro, dell’occupabilità dei giovani e delle donne, della conciliazione tra lavoro e famiglia, della formazione e dell’apprendimento. È in attesa di un avviso comune delle parti sociali la bozza di Statuto dei lavori, in verità largamente anticipato dall’articolo 8  del  decreto  n.  138  del  2011  (la  manovra  di  ferragosto);  è incardinato al Senato il disegno di legge per la revisione delle norme attinenti all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi di pubblica utilità. Va ricordato sicuramente il Libro bianco sul welfare che ha tentato di offrire una visione culturale complessiva fondata sui principi della sussidiarietà e della responsabilità sociale. Il ministro Sacconi ha offerto diverse occasioni di riflessione alle parti sociali – come sui temi della partecipazione – quasi mai raccolti compiutamente.  Da questa mole di iniziative emerge una precisa linea di condotta, fortemente ispirata a quanto contenuto nel Libro Bianco la cui stesura fu coordinata da Marco Biagi: una linea riformista, attenta e rispettosa del ruolo delle parti sociali e della funzione della contrattazione collettiva; una linea moderna, allineata con le esperienze europee e impegnata a favorire la c.d. contrattazione di prossimità. Dopo la con l’Unione  europea  il  Governo  ha  riaperto  il  fronte  dell’articolo 18  dello  Statuto  dei lavoratori, non più aggirandolo come con l’articolo 8 del decreto di ferragosto, ma affrontandolo di petto e direttamente sia pure nell’ambito limitato dei licenziamenti c.d. economici. Ricompare così la sfida al “grande tabù” degli anni ’70: la reintegra per via giudiziaria nel posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo.

Non è un caso che sul piano del lavoro e del welfare abbiano potuto agire due ministri, in piena  autonomia, due  ministri  ex  socialisti,  che  hanno fatto  tesoro,  nella  loro  storia personale,  delle  migliori  culture  della  Prima  Repubblica. Purtroppo  anche  le  peggiori culture di quell’epoca sono arrivate fino a noi.