La questione del rapporto tra politica e giustizia costituzionale è stata posta con particolare vigore negli Stati Uniti dove, come rileva Stephen M. Griffin, la teoria costituzionale rappresenta un ambito di indagine che nasce episodicamente e in via di reazione rispetto alle più dibattute decisioni della Corte Suprema.
È noto, ad esempio, che negli Stati Uniti l’aborto è stato introdotto per via giurisprudenziale, a seguito della sentenza Roe v. Wade, che per i conservatori rappresenta ancora una ferita.
Ciò è potuto avvenire perché la Corte Suprema, unico tribunale espressamente previsto dalla Costituzione americana all’articolo 3, è l’organo giudiziario superiore, e come tale le sue pronunce, in base al principio di common law dello stare decisis, sono vincolanti per i tribunali inferiori. Ciò significa che ogni tribunale federale è competente a interpretare e stabilire la costituzionalità delle leggi federali, ma solo la Corte Suprema può rendere il controllo di costituzionalità definitivo ed efficace erga omnes.
La sentenza Roe v. Wade, come altre decisioni, è stata al centro di furiose battaglie. Parte della dottrina americana, specie quella di orientamento conservatore ha accusato esplicitamente di tradimento i giudici della Corte Suprema rei, a loro avviso, di espropriare il Parlamento, e quindi il popolo, della sovranità. Per avere un’idea più chiara di quanto sia duro questo scontro, e di come le “guerre culturali” siano sentite negli Stati Uniti, un’ottima lettura è il libro Il giudice sovrano, di Robert H. Bork, tradotto in Italia dalla liberilibri con un’interessante prefazione di Serena Sileoni.
Robert Bork è un celebre avvocato, professore di diritto costituzionale alla Yale University, il quale ha ricoperto incarichi pubblici di primo piano, tra i quali quello di rappresentante del governo federale statunitense presso la Corte suprema e di Sostituto procuratore generale degli Stati Uniti. È stato inoltre giudice d’appello federale. Bork ha ottenuto un grande successo nello studio delle leggi antitrust, dimostrando che esse agiscono contro l’interesse dei consumatori, incoraggiando una costosa forma di protezione per inefficienti e non competitive piccole attività d’impresa.
Ma Bork è soprattutto famoso per essere fra i fondatori dell’“originalismo”, i cui punti essenziali sono i seguenti. Il dilemma della democrazia sta nel rapporto fra il potere della maggioranza e la libertà della minoranza. In questo quadro è compito della classe dei giudici proteggere energicamente i diritti degli individui, ma al contempo essere scrupolosi nel non negare il legittimo diritto di governare alla maggioranza. A questo scopo la via migliore consiste nella presa d’atto che la Costituzione è una legge, composta di parole che astringono i giudici allo stesso modo in cui astringono i legislatori, i governanti e i cittadini. Le previsioni costituzionali non soltanto proteggono diritti individuali, ma contengono anche limiti imprescindibili per il buon governo della società.
La presenza di tali limiti implica che pure l’autorità del giudice deve essere limitata.
Se così non fosse e il potere dei giudici si estendesse al di là delle aree loro assegnate da specifiche clausole della Costituzione, allora non vi sarebbe legge diversa dalla volontà del giudice e la legge sarebbe la volontà del giudice.
Una situazione del genere non sarebbe legittima in democrazia.
Se si dicesse che la Costituzione non è una legge, ma un compito che spetta alla filosofia morale completare, si consegnerebbe il potere di governare alle particolari predilezioni morali dei giudici della Corte Suprema.
Uno dei testi più conosciuti di Bork, Il giudice sovrano, è decisamente dissacrante nei confronti dei giudici delle leggi, ma del resto le sue bordate contro la classe giudiziaria, accademica e intellettuale americana, come ricorda la Sileoni, gli hanno valso, tra le altre, l’etichetta di theocon ultraconservatore, a voler essere teneri. Non a caso Bork, nominato alla Corte Suprema, non ottenne il consenso del Senato a causa delle sue opinioni personali. Negli Stati Uniti, infatti, i giudici federali sono nominati dal Presidente e confermati dal Senato.
Nel giugno del 1987 si dimetteva il giudice della Corte Suprema Lewis Powell, il cui voto era stato decisivo nelle sentenze sulle azioni positive e sul diritto all’aborto. Ronald Regan, l’allora Presidente, ritenne che al suo posto avrebbe potuto sedere il conservatore Robert Bork.
Ma Robert Bork non passò indenne il giudizio del Senato e la sua investitura dovette essere ritirata.
Il senatore Ted Kennedy con l’appoggio dei liberals, scatenò una violentissima campagna mediatica contro Bork tanto è vero che da allora Bork si è declinato a verbo che, secondo l’Oxford English Dictionary vuol dire “offendere o diffamare una persona in maniera costante, in particolar modo attraverso i mass media, con lo scopo in genere di impedire la sua nomina ad una carica pubblica”.
Ed in effetti le opinioni di Bork sono scagliate come pietre che vanno ad infrangere il politically correct che sembra essere la nuova religione dei liberals americani.
Per Bork le nazioni occidentali hanno temuto a lungo di venire contagiate dalla “malattia americana”, ovvero dal fenomeno dell’appropriazione, da parte dei giudici, dell’autorità appartenente al popolo e ai suoi rappresentanti eletti. Una simile patologia si manifesta non appena i giudici si trovano in condizioni tali da ricevere o da attribuirsi il potere di calpestare le decisioni prese da altri organi dello Stato: il potere del controllo giurisdizionale di costituzionalità.
A detta di Bork la New Class americana, progressista, totalmente di sinistra e ostile ai valori tradizionali controlla quasi tutte le istituzioni culturali del paese, comprese le università.
Il problema della New Class è che le sue convinzioni in tema di aborto, di definizione di famiglia, sull’insegnamento dei valori nelle scuole pubbliche, sui diritti degli omosessuali, fanno leva solo su una minoranza politica. Ed infatti, nonostante sia capace di esercitare la sua influenza in molti modi, non appena le sue posizioni sociali e culturali si fanno sufficientemente chiare, la classe degli intellettuali progressisti perde le elezioni. Diventa dunque essenziale, per la sinistra culturale, trovare un modo per evitare il verdetto delle urne. Poiché le corti costituzionali sono in grado di fornire i mezzi necessari per avere la meglio sulle maggioranze annullandone il voto, la magistratura è diventata l’arma prediletta dei liberals per scardinare democrazia e Stato di diritto e per indirizzare la cultura verso percorsi che l’elettorato non sceglierebbe mai.
Per Bork i magistrati hanno giocato un ruolo di primo piano nell’abbattere le tradizionali barriere giuridiche che la società ha eretto contro la degenerazione e nel dispensare lezioni morali basate sullo spirito di emancipazione. E l’attivismo giudiziario è una realtà internazionale al pari del conflitto culturale. Ma chi sono i giudici attivisti? Essi sono quei giudici che emettono sentenze senza alcuna connessione plausibile con la legge che dichiarano di applicare, o che deformano e perfino contraddicono il significato di tale legge giungendo a conclusioni basate su principi neanche lontanamente contemplati da coloro che l’hanno scritta e votata.
Ed è per questo motivo che è spesso più facile prevedere un verdetto conoscendo il nome dei giudici piuttosto che la dottrina giuridica applicabile al caso in questione.
Inoltre, il prestigio di un giudice dipende dalla considerazione di cui gode nell’ambiente universitario e nei media, entrambi bastioni della New Class che generalmente considerano “moderati” giudici in realtà molto progressisti e bollano come “conservatori” o “destrorsi” quei giudici che tentano di applicare la legge tenendo conto del suo significato originale.
La globalizzazione della guerra culturale ha portato ad una globalizzazione dell’attivismo giudiziario. In tutti i paesi in cui ha preso piede il sindacato giurisdizionale di legittimità, i giudici attivisti sostengono e impongono i valori della New Class, spostando costantemente la cultura a sinistra.
L’imperialismo giudiziario è per Bork del tutto evidente ovunque, dagli Stati Uniti alla Germania a Israele, dalla Scandinavia al Canada all’Australia, ed è attualmente la pratica comune dei tribunali internazionali.
L’opinione pubblica non si rende conto che le singole decisioni che non condivide non sono errori, ma punti di un programma preciso volto a modificare, attraverso il diritto, i tratti morali della società. Per cui prosegue la tendenza a trasformare temi morali e politici in questioni giuridiche, con il conseguente trasferimento di potere dalle assemblee legislative e dagli esecutivi, organi regolarmente eletti, a corti di giustizia che sono irresponsabili di fronte agli elettori.
In altre parole, parafrasando von Clausewitz, l’interpretazione costituzionale sarebbe la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Serena Sileoni nella prefazione alla traduzione italiana de Il giudice sovrano, ha scritto che il valore di quest’opera non è da ravvisare nel desiderio di un’abolizione della giustizia costituzionale, quanto piuttosto nell’esortazione a liberarci, attraverso lo studio della storia e della prassi del judicial review, da una visione “mistica” dei giudici delle leggi.
Il pensiero di Robert Bork che si è voluto brevemente riassumere, ma senza alcuna presunzione di completezza, ha influenzato profondamente i giudici conservatori William Hubbs Rehnquist (1924-2005) e Antonin Gregory Scalia.
Quest’ultimo è forse il più significativo rappresentante attuale della corrente “originalista”, soprattutto nella versione “testualista”.
Scalia, invero, ha corretto alcuni aspetti giudicati troppo soggettivistici della primitiva dottrina “originalista”, che attribuivano all’interprete il compito di accertare l’intento soggettivo del legislatore originario. In realtà, come chiaramente Scalia ha scritto, quanto l’interprete deve focalizzare con precisione è l’intento obiettivato nella legge, cioè l’intento che una persona ragionevole ricaverebbe dal testo scritto della legge, alla luce dell’insieme complessivo del sistema normativo.
In Italia il giurista cattolico Mauro Ronco ha affermato che gli obiettivi essenziali per cui è sorta e si è strutturata la dottrina dell’“originalismo” sono integralmente condivisibili. Infatti, da un lato è da apprezzare la forte proclamazione che il consenso dei governati sta alla base del potere dei governi e che a tale fondamento non può sostituirsi il richiamo, da parte di una piccola èlite di giudici, a valori vaghi e indefiniti, che pretendono di modellare la dignità umana secondo il cangiante desiderio di libertà individuali, irresponsabili e illimitate.
Da un altro lato, e in conseguenza della giusta messa a punto della sottoposizione anche dei giudici alla legge e alla Costituzione scritta, si sottolinea l’affermazione dell’essenzialità del bilanciamento dei poteri dello Stato e la rivalutazione del potere legislativo e, soprattutto, del potere di governo, che è direttamente e ineludibilmente chiamato alla sfida della promozione del bene comune dell’intera società. Inoltre, sempre per Ronco, la dottrina “originalista” è particolarmente apprezzabile perché ricerca una fondazione oggettiva della dignità umana e dei diritti individuali e dei gruppi sociali, tentando di superare l’individualismo anomico e l’utilitarismo sfrenato che caratterizzano la maggior parte delle dottrine contemporanee sui diritti individuali.
Infine il merito storico dell’“originalismo” è comunque grande, perché ha ribadito il principio fondamentale che il contesto non può sommergere e annullare il testo.
Al di là delle diverse opinioni su tale dottrina giuridica una riflessione sull’“originalismo” è sicuramente un utile esercizio per interrogarsi sul ruolo che devono avere i giudici (costituzionali e non) nella nostra società.
BIBLIOGRAFIA:
1)ROBERT H. BORK, Il giudice sovrano.(2002), liberilibri, 2004, a cura di SERENA SILEONI.
2)MAURO RONCO, “Originalismo. Venticinque anni di dibattito”. Una recensione.,in Cristianità, n.347-348, maggio-agosto, 2008
3)STEPHEN M. GRIFFIN, Il costituzionalismo americano. Dalla teoria alla politica,(1996), il Mulino, 2003.