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Antonio Pilati intervistato da Lucia Bigozzi

 

Due ‘ricette’ per riposizionare l’Italia in Europa e riconquistare i mercati. In altre parole, per accelerare l’uscita dal cono d’ombra della crisi. Le mette in fila Antonio Pilati direttore dell’Osservatorio Politico Economico nel dossier che oggi a Roma sarà al centro del convegno promosso con la Fondazione Magna Carta dal titolo: “Europa senza guida, Italia senza sovranità” (alle 17.30 Biblioteca ‘Spadolini’, in piazza della Minerva).

Dottor Pilati, perché un Osservatorio sull’Europa e sull’Italia?

L’idea dell’Osservatorio nasce da una forte preoccupazione: l’Europa è l’epicentro di una crisi economica mondiale esplosa nel 2007 negli Usa, che man mano si sta diffondendo anche a quei paesi emergenti i quali finora avevano fatto da traino.

Dove ravvisa gli elementi alla base ‘dell’epicentro’?

Anzitutto c’è un deficit di competitività e difficoltà a produrre innovazione. A questo si aggiungono altri fattori non meno rilevanti: pesantezza dello Stato, oneri sociali, welfare. Ma c’è un altro punto da considerare…

Quale?

Sono i problemi derivanti da un’architettura probabilmente sbagliata dell’Unione, dal modo con cui gli Stati, soprattutto quelli dell’Eurozona, si sono vincolati tra loro attraverso la moneta comune. Di fatto, lo schema disegnato a Maastricht con l’euro ha funzionato – anche abbastanza bene – nei momenti di benessere, ovvero di ciclo alto. Ha invece cominciato a perdere colpi quando si è verificata la fase di crisi. Essenzialmente perché quello schema era stato disegnato per una situazione standard, di stabilità e non ha incorporato al suo interno meccanismi in grado di governare situazioni di instabilità.

Dunque esiste un problema di governance?

Più che un problema di governance in quanto tale, è un problema di come viene amministrata la moneta in una condizione – in origine probabilmente sottovalutata – di Stati che hanno economie molto differenti e forti divari tra loro. Divari che nelle intenzioni degli ‘architetti’ dell’Unione si sarebbero dovuti ridurre ma che in realtà hanno continuato ad ampliarsi mettendo a repentaglio sia l’economia che la tenuta sociale dei paesi più in difficoltà. Tutto ciò, di fatto ha determinato una situazione nella quale i 17 paesi dell’Unione che hanno economie così diverse, vivono come se fossero in un regime di cambi bloccati.

La Germania vuole imporre la propria linea. Secondo lei l’Italia come può agire per contrastare il diktat teutonico?

La Germania sta tentando di imporre ai paesi più deboli la riduzione del tenore di vita. Il che non è certamente una grande premessa per lavorare all’unione politica dell’Europa perché senza solidarietà, non c’è unione che tenga.

Qual è la radiografia dell’Europa e dell’Italia che emerge dall’analisi dell’Osservatorio?

L’Osservatorio Politico Economico è calibrato su due direttrici: l’Europa e l’Italia. L’Europa mostra i propri difetti, l’Italia ne ha altri. Bisogna prendere atto che sono venuti a termine due cicli più o meno ventennali: in Europa era cominciato con Maastricht e in precedenza con il crollo dell’Urss tra l’89 e il 90; in Italia con la crisi che origina da Tangentopoli. Due cicli che si sovrappongono temporalmente. L’Italia che tutto sommato ha buoni fondamentali come, ad esempio, di un deficit inferiore ad altri paesi, mostra di contro un problema fondamentale che pesa come un macigno e che ci mette nel mirino dei paesi europei rendendoci un bersaglio facile: il debito pubblico.

Come se ne esce?

Finora il nostro paese ha puntato tutto sui flussi, ovvero la riduzione del deficit trascurando di affrontare la questione dello stock, cioè del debito.  L’effetto: economia in crisi per gli elevati tassi, quasi insostenibili. E i tassi sono così alti – all’incirca cento miliardi all’anno – perché i mercati manifestano preoccupazione sulla capacità di fare crescita in presenza di un debito così alto. La tesi che l’Osservatorio sostiene è che quella del debito è una questione strategica da affrontare subito.

Quali ricette propone?

Essenzialmente due: riduzione della spesa pubblica e abbattimento del debito. Se non si mette mano a queste priorità, saremo sempre un paese debole nell’area europea e dunque un soggetto estremamente vulnerabile. Questo perché in particolare con la crisi ma anche prima di essa, quella che era un’unione di paesi votata all’integrazione e a forme di coordinamento solidale, è diventata una specie di arena in cui si usano gli strumenti europei per farsi la guerra l’un l’altro. Per l’Italia la direzione da percorrere non può che essere quella di rimettere a posto il debito pubblico con ampie dismissioni e, più ancora che con la razionalizzazione degli sprechi, operando un ridimensionamento del perimetro dell’intervento pubblico. Altrimenti, il rischio è non riuscire a combattere la nostra battaglia in ambito europeo.

Se lei dovesse individuare una ragione ‘interna’ che ha proiettato la crisi mondiale in Europa, cosa evidenzierebbe?

A me sembra che sia in corso una mutazione genetica: la vocazione a un’integrazione dei diversi paesi ad un certo punto si è tramutata in un ripiegamento sugli interessi nazionali attraverso l’utilizzo del complicato apparato europeo. Questo ‘gioco’ pone in posizione egemonica la Germania e l’unico modo che l’Italia ha per contrastarne la portata è certamente rimettere a posto i conti, ma soprattutto abbattere il debito anche pensando che i conti non si aggiustano con le tasse.

Lei crede agli Stati Uniti d’Europa? Esistono le condizioni, magari proprio a causa della crisi, oppure è solo utopia?

Nella situazione attuale, progettare avanzamenti sul fronte dell’integrazione mi sembra un esercizio utopico. Occorre essere realisti: oggi assistiamo a rigurgiti nazionalisti, le opinioni pubbliche tendono ad associare l’Europa a un meccanismo che produce sofferenza sociale e riduzione del tenore di vita. Quindi, prima di fare passi in avanti, occorre aggiustare la casa che abbiamo.