1. La sovranità negata.
Questa crisi non è una parentesi. Come fu per il secondo dopoguerra, essa pone alla politica un problema di sovranità; e come il secondo dopoguerra richiede una fase costituente. Allora tale processo accompagnò l’evoluzione del quadro internazionale e precedette scelte draconiane. Anche per questo, la nostra non è stata una democrazia normale. La Costituzione risultò un alto e nobile compromesso influenzato dall’incertezza su chi, alla fine, sarebbe risultato vincitore. Il 18 aprile del 1948 non fondò alcun fisiologico bipolarismo ma determinò in quale parte del mondo l’Italia si sarebbe collocata e impose al sistema il vincolo di un sacrosanto “fattore K”. La Carta, da quel giorno, assai più che il riferimento comune dei protagonisti di un ordinato scontro politico divenne, per gli sconfitti, il mito di un nuovo inizio collocato oltre le colonne d’Ercole della guerra fredda. L’Italia – oltre che per la sua posizione geopolitica di piattaforma lanciata nel mediterraneo al confine tra i due blocchi, confinante con la Jugoslavia di Tito che aveva rotto il fronte stalinista e chiuso il corridoio di una possibile invasione dell’Armata rossa – anche per queste ragioni è risultata una democrazia debole e naturalmente predisposta alla destabilizzazione.
Oggi la crisi di sovranità della politica origina dal terreno dell’economia e della finanza. Dagli Stati Uniti ha attraversato l’Oceano e ha raggiunto l’Europa. E qui ha trovato ad accoglierla una costruzione comunitaria inadatta a sopportarne i rigori. Finita la Guerra Fredda, che bene o male ha concesso all’Europa unita una dimensione e una sostanza, il Vecchio Continente si è ritrovato privo di un costrutto statuale, di una identità, di una cittadinanza avvertita come comune, di istituzioni economiche adeguate al processo d’integrazione posto in atto a partire da Maastricht. La moneta unica si è così trasformata nella calamita della sovranità dispersa: quella sovranità alla quale gli Stati nazionali hanno rinunziato ma che non ha trovato nessuna istituzione sovranazionale pronta a recepirla. La conseguenza è stata che le economie più deboli – quelle più infettate dal debito, come la nostra – di fronte allo spettro fino a pochi anni fa inimmaginabile del fallimento di uno Stato, sono state messe sotto tutela. E poiché il consenso politico si esprime comunque a livello di Stato nazionale, non sono valsi né solidarietà né spirito europeista per convincere Angela Merkel e la Germania a consentire l’effettiva creazione di leve europee in grado di governare la moneta unica attraverso processi politici e far sì che i debiti sovrani non si trasformino nella clava utilizzata dalla finanza per annichilire la politica. La prova di tutto questo l’abbiamo avuta con l’opposizione tedesca e le tensioni che si sono registrate nel momento nel quale la Bce di Mario Draghi ha messo in campo misure di protezione della moneta dagli attacchi speculativi.
2. L’unità coatta.
Diversamente dal 1947, l’attuale crisi internazionale anziché determinare in Italia una divisione obbligatoria ha provocato un’unità coatta. Il “governo Monti” è il frutto, per i più indigesto, di questa perdita secca di sovranità. La circostanza potrà avere conseguenze positive o negative a seconda di come verrà sfruttata.
Vi è una differenza non di poco conto da tenere presente nella comparazione tra i due periodi storici. Allora ci trovavamo in un vero e proprio dopoguerra, in mezzo a macerie morali, materiali, economiche. La fine delle ostilità era stata dichiarata e, per tutti, c’era una democrazia da ricostruire. Oggi la guerra è metaforica, evocata a volte a proposito altre a sproposito; è in grado di sconvolgere le economie e i processi decisionali ma non viene considerata, nelle sue conseguenze, con lo stesso metro e la stessa consapevolezza da tutti gli attori politici. Soprattutto, non se ne può individuare con certezza la fine: nessuno è in grado di assicurare che quanto potrebbe accadere in Grecia o in Spagna nei giorni, nelle settimane, nei mesi prossimi non abbia conseguenze che riportino il Paese sull’orlo del baratro e del fallimento. E questo indipendentemente da chi si trovi in quel momento al governo. Sul punto ormai vi sono pochi dubbi: persino la sinistra ha perso la voglia di speculare sul fatto che la crisi nella sua fase acuta sia esplosa mentre governava il centro-destra!
Da questa incertezza sui tempi della crisi derivano, in fondo, le tentazioni confessate a mezza voce, come dal sen fuggite, di sospendere la democrazia a tempo indeterminato. Vi sono infatti solo due modi per calmierare le ansie dei mercati per i possibili sconvolgimenti provocati dal voto degli italiani: posticipare le elezioni a tempo indeterminato (l’incertezza, infatti, è la fisiologia di un libero voto) o decretare che l’attuale unità coatta si protrarrà dopo il voto, indipendentemente da quelli che saranno i suoi esiti. Anche chi, come il sottoscritto, non è un fanatico della democrazia – nel senso che con Tocqueville la ritiene il risultato di un processo storico inevitabile e con Churchill il minore dei mali fin qui sperimentato – si accorge del rischio che si correrebbe se si assecondassero passivamente queste derive. Soprattutto, si rende conto che l’Italia smarrirebbe un’ulteriore occasione di far compiere alla sua vita civile e politica quello scatto di reni verso la definitiva modernizzazione che fin qui non si è riuscito a produrre.
3. L’altra strada.
C’è però un’altra strada. Una strada che passa dal ripudio di quell’alternativa tra residuo ideologico e pensiero debole che fa apparire il centro come se fosse l’unico luogo del buon senso. Una strada che passa dalla comprensione del momento storico, dalla rivendicazione di un’identità, dalla convinzione che la crisi possa essere un’occasione per andare avanti e non la condanna a tornare indietro. Se ci si pone lungo questo sentiero, perde ogni senso il dibattito sulle larghe intese che quest’estate ha scaldato il centro-destra. Le larghe intese non le si può infatti invocare preventivamente, pena smarrire la sostanza della politica e riportarla alla sola dimensione contingente come, appunto, vorrebbe il pensiero debole. Ne’ le si può escludere a priori, in ogni caso, attraverso il rito del “giuramento anticomunista”, perché l’emergenza nazionale è una prospettiva che in via ipotetica non può essere elusa da nessun precetto ideologico. Così come nessuno è in grado di scongiurare l’incertezza di un quadro politico che verrebbe determinato da un voto che non proclami in modo netto vincitori e vinti (è accaduto persino nell’ultra-maggioritario sistema inglese). Prima di giungere a questo c’è però tanto altro da fare, sia su quei temi che privilegiano una prospettiva unitaria sia per provare a vincere le elezioni come centro-destra.
A differenza del 1947, questa volta lo sforzo costituente potrebbe seguire la crisi (e le elezioni) e non precederla. Si tratta di un potenziale vantaggio, e non di poco conto. Sebbene infatti non possiamo prevedere la durata della turbolenza e tutti i suoi risvolti, conosciamo invece quale scenario abbiamo davanti. Sappiamo che c’è un problema di sovranità da affrontare tutti insieme senza pregiudizi ideologici. In caso contrario, questa volta, ad approfittarne non sarà uno dei due schieramenti, ma tutti insieme avremo permesso ad altri soggetti, estranei al processo e alla dialettica politica, di dettare alla politica la propria legge.
La partita si gioca innanzi tutto a livello europeo. Passa attraverso la credibilità del Paese, le alleanze internazionali ma anche la revisione delle istituzioni comunitarie sia economiche sia politiche che, tra l’altro, dovrebbero instaurare collegamenti meno sporadici tra i parlamenti nazionali e lo spazio di decisione comunitaria. In tal senso, la proposta dell’ex-ministro tedesco Joschka Fischer di dare vita a una Camera alta con rappresentanti eletti dai parlamenti nazionali non andrebbe fatta cadere.
Su questi impegni si possono sviluppare “larghe intese”. E allo stesso modo la natura sovranazionale della crisi non può sviarci dal mettere in agenda tutto ciò che può concedere rinnovato vigore alla sovranità nazionale. In tal senso, c’è una riforma delle istituzioni che viene prima delle altre ed è quella della giustizia. Nemmeno la crisi e i pericoli oggettivamente corsi dal Paese hanno infatti fatto venir meno un’altra idea di legittimazione, fondata non sul rispetto della sovranità del popolo bensì sulla presunzione fatale di possedere una superiorità etica al cospetto di una classe politica corrotta. Ma se questa è storia antica, che affonda le sue radici nelle origini stesse della cosiddetta Seconda Repubblica, è invece inedita la constatazione che nonostante il passo indietro di Silvio Berlusconi la presunzione di una minoranza rivoluzionaria della magistratura non si è appagata: piuttosto, ha volto il proprio attivismo contro nuovi obiettivi, senza rispetto né per la collocazione politica né per le istituzioni. Sicché abbiamo visto giornalisti e costituzionalisti eccellenti, campioni dell’antiberlusconismo, rubarci argomentazioni e parole per stigmatizzare i colpi mortali inferti allo Stato di diritto. E’ una sensazione strana ma, soprattutto, è un’occasione da non perdere perché senza una radicale riforma della giustizia e del suo materiale rapporto con la politica non c’è esecutivo né di destra né di sinistra e, alla lunga, neppure tecnico che avrà legittimazione a sufficienza per operare e la possibilità d’impostare un programma di governo all’altezza delle esigenze imposte dalla crisi.
Di fronte alla riforma della giustizia, persino quella delle istituzioni – di cui si parla inutilmente da quarant’anni – passa in secondo piano. Tuttavia oggi quest’ultima è quantomai necessaria per arginare il deficit di sovranità di cui soffre il nostro Paese. Il centro-destra ha deciso di puntare sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ha persino approvato, in tal senso, un testo di riforma in un ramo del Parlamento. Se non si tratta di una clava per colpire il nemico, l’obiettivo va perseguito con intelligenza e pazienza come l’unico strumento in grado di rimettere il pubblico al centro dell’arena politica, creando quel processo di personalizzazione della sovranità che poteri invisibili tendono invece ad annullare. Quella presidenzialista è l’unica riforma delle istituzioni all’altezza dei tempi, in grado di oggettivare il fattore carismatico dal quale è nata la storia del centro-destra. Se si procederà con intelligenza creativa, evitando le logiche ultimative, non sarà impossibile nella prossima legislatura aggregare intorno a questa proposta uno schieramento più ampio, in grado di farle tagliare davvero il traguardo dell’approvazione.
4. Il centro-destra e la visione dell’uomo.
Se però questa parte del programma ha bisogno di larghe intese, vi è un’altra parte che deve e non può che essere esclusiva del centro-destra? L’evoluzione del dibattito politico ci dice fortemente di sì. E’ evidente, infatti, che la crisi economica in atto impone la riscrittura dei paradigmi economico-sociali novecenteschi, dei quali non resistono più nemmeno i residui. Ed è altrettanto evidente che tale prospettiva pone problemi crescenti alla sinistra: a quella classica non meno che a quella post-moderna (si pensi allo scontro tra lavoro ed ecologia che si sta drammaticamente consumando intorno all’Ilva di Taranto). Come pensa la sinistra di risolvere il problema? Barattando, nei suoi programmi, la perdita dei diritti sociali del tempo del welfare state con l’assunzione di presunti diritti individuali che trasferiscano al livello della persona e della propria esistenza la presunzione fatale di poter tutto programmare, trasformando ogni desiderio in diritto. Lungo questa deriva la componente tradizionale dell’evoluzione sociale viene inevitabilmente travolta, la dimensione individuale prende il sopravvento su quella comunitaria e si afferma un ideale di ragione che non lascia spazio per il sentimento religioso, se non nel ghetto della coscienza di ognuno. Sbaglia chi come Casini pensa di poter derubricare a “sovrastruttura” questa parte dell’accordo tra nuova e vecchia sinistra. Sbaglia a ritenere di poter guidare i processi che si vanno manifestando. La sinistra ha un bisogno vitale di una cifra ideologica e tenderà a conquistarla su questo terreno, contrabbandando il giacobinismo per anelito alla libertà.
La rivisitazione dei parametri socio-economici determinata dalla crisi, che ha costretto la sinistra a porre a mezz’asta le sue vecchie bandiere sociali, ha trasferito sul terreno antropologico la ricerca dei sogni da vendere, dei desideri da appagare, dei miti da conquistare. Non è un caso se con una eccentricità solo apparente rispetto ai temi del dibattito pubblico Nichi Vendola abbia scaraventato proprio ora sul tavolo della discussione il suo desiderio di convolare a nozze. E non è un caso se dopo tante pellicole spese a raccontare il disagio delle fabbriche, l’alienazione delle periferie urbane, la via crucis dei barconi della speranza degli immigrati, la cinematografia cosiddetta “impegnata” si sia ora manifestata sotto le sembianze del film di Marco Bellocchio in questi giorni nelle sale. Non si tratta di un bel film, a prescindere dalla condivisione o meno delle idee dell’autore. Ma proprio per questo quei sedici minuti di applausi e l’accoglienza entusiastica della grande stampa dovrebbe far riflettere chi ritiene che la concezione dell’uomo, della vita e della morte possa essere considerata una variabile ininfluente rispetto a un progetto politico e alla scelta dei potenziali compagni di viaggio.
Oltre a presentare una visione distorta e caricaturale tanto della politica quanto della religiosità, il film “Bella Addormentata” ci dice fondamentalmente una cosa: c’è l’eroe, che impedisce all’aspirante suicida di interrompere consapevolmente la propria esistenza; e c’è l’antieroe, che si adopera perché l’esistenza di una persona non in grado di esprimersi non venga interrotta. C’è dunque una vita che è un valore salvare, e una vita alla quale è un disvalore non mettere fine. E a decidere quale vita sia degna e quale non lo sia, a decidere “tu sì” e “tu no”, non è la libera autodeterminazione delle persone, come vorrebbero far credere, ma è Marco Bellocchio, o la giuria di un tribunale, o la presunzione di qualche consesso radical chic.
Noi non sappiamo come farà Pier Ferdinando Casini a derubricare questi temi a eventi accidentali nel dibattito pubblico estranei alle piattaforme di alleanza politica. Sappiamo invece che sulla centralità della persona il PdL ha maturato un profilo identitario e valoriale forte, valido per credenti e non credenti uniti dalla laica consapevolezza che il futuro è un mistero sempre aperto; accomunati dal rifiuto dei piani quinquennali sul corpo umano e della pretesa di poter tutto controllare, tutto manipolare, tutto pianificare. Checché ne dica Bellocchio con le sue ciniche e false rappresentazioni, il dramma di Eluana Englaro ha rappresentato un momento di grande maturazione per il nostro partito. Con Maurizio Gasparri abbiamo vissuto in Senato nel nostro gruppo un confronto tanto profondo quanto libero, fatto di cuore, ragione e passione civile, mentre i colleghi del Pd erano irreggimentati dai diktat di partito e per esprimersi liberamente dovevano aspettare le votazioni a scrutinio segreto nelle quali i “sì” sono stati sistematicamente più numerosi di quelli registrati a scrutinio palese. E poiché è questa la frontiera sulla quale si scontreranno opposte visioni dell’uomo, e sulla quale si vedrà anche chi una concezione ce l’ha e chi preferisce derubricarla a convinzione personale per nascondere insanabili contraddizioni politiche, noi chiederemo che entro la fine della legislatura il Parlamento approvi definitivamente una legge sul cosiddetto testamento biologico che noi non avremmo mai voluto ma che si rende necessaria per sottrarre il confine fra la vita e la morte all’arbitrio di una giuria di tribunale.
5. Ricette economiche e offerta politica.
E se sul terreno dei principi fra noi e la sinistra non c’è possibilità d’incontro a priori, sul versante delle ricette economiche le distanze non sono certo inferiori. La riduzione del debito, infatti, è una priorità per il centro-destra così come per la sinistra. La differenza è che mentre noi intendiamo raggiungere l’obiettivo attraverso una riduzione della spesa pubblica e della dimensione statuale che porti a una semplificazione e riduzione del carico fiscale, convinti come siamo che solo liberando risorse e creando spazi d’iniziativa autonoma sia possibile innescare un processo di crescita, la sinistra è ossessionata dall’idea di colpire sempre e comunque la ricchezza e, in campo tributario, intensificare i processi di contrasto poliziesco piuttosto che puntare a riforme che sollecitino l’emersione spontanea; e ritiene che la crescita possa crearsi attraverso la programmazione (decreto), in tal modo mettendosi in scia della parte meno convincente del programma portato avanti dal governo Monti. La crescita del debito pubblico nonostante un programma di forte inasprimento fiscale che ha limitato la capacità di spesa di chi possiede, evidenzia come il risanamento non si possa conseguire limitandosi a tosare le pecore con più lana, colpendo oltre modo il profitto né tanto meno criminalizzando la ricchezza.
Un centro-destra responsabile non può certo auspicare la fuoruscita dall’euro (che sarebbe una medicina peggiore del male), non può negare il debito né proporre politiche in deficit che pure in altri frangenti storici hanno pagato; tanto meno deve attardarsi in keynesismi posticci. Deve piuttosto dire con chiarezza che la cura dimagrante va imposta innanzi tutto allo Stato piuttosto che alle persone; che la spesa pubblica va aggredita incidendo con coraggio su capitoli strutturali del bilancio ad esempio relativi alle modalità di funzionamento del pubblico impiego e che va computato il patrimonio dello Stato e degli enti pubblici nelle pieghe del quale si annidano enormi margini di recupero di risorse – si pensi ai cespiti immobiliari ma anche alla proliferazione di società, consorzi e altri organismi partecipati da regioni ed enti locali -: risorse da finalizzare all’abbattimento dello stock di debito. Deve dire che l’ipertrofia statuale e i privilegi delle corporazioni sono stati i mali antichi dell’Italia che oggi ci troviamo a scontare tutti insieme, mentre la capacità d’intraprendere e di risparmiare delle persone e delle famiglie sono ancor oggi la nostra principale ancora di salvezza. E noi oggi, di fronte a un’alternativa necessaria e ultimativa, dobbiamo dirci pronti a salvaguardare la ricchezza delle persone e delle famiglie anche a costo di dismettere una parte delle risorse statuali: senza se e senza ma.
Insomma, affinché la crisi non produca un paradossale sbilanciamento a sinistra del quadro politico, serve un centro-destra normale che rispetti la sua origine carismatica e la sua storia, che ritrovi una profonda unità d’intenti e inscriva la sua vicenda nel solco della durata. Un centrodestra che sappia rivendicare e valorizzare il proprio patrimonio ideale e identitario, e che però si serva di quel patrimonio non per restare ancorato al passato, ma per dire agli italiani che le nostre idee sono lo strumento migliore per affrontare le sfide e le incognite che il futuro ci pone.
In momenti ordinari è possibile sperimentare. In momenti straordinari servono gli anticorpi e questi possono venire solo da chiare contrapposizioni. Questo è il vero errore di tutte le ricette centriste, di quelle classiche non meno che di quelle “neo”: illudersi di poter controbilanciare le ricette della sinistra in un rapporto contrattuale, affidandosi alle obiettive necessità della storia. Basta ripercorrere la vicenda della sinistra per scoprire come la forza dell’ideologia alla fine s’imponga ad ogni empiria.
Per sconfiggere l’ideologismo bisogna volerlo battere. E respinto il compromesso programmatico spacciato come ineluttabile necessità della storia, c’è un altro errore che ci riguarda più da vicino e che dobbiamo evitare. L’ideologismo non si batte infatti contrapponendo all’ideologia avversaria la riesumazione di un’altra ideologia, fosse anche quella anticomunista, e confondendola con l’identità. L’ideologismo si batte sfidando la sinistra sul terreno delle idee per il futuro dell’Italia e dell’Europa e sulle ricette di governo per il perseguimento del bene comune, queste sì identitarie e ispirate a un chiaro orizzonte culturale.
Se poi un incontro si renderà necessario per il bene del Paese perché privo di alternative, esso non deve essere il frutto di un accordo programmatico. Quella si chiama resa. Per non essere travolti servono pensiero forte e uomini forti, facendo tesoro degli errori che si sono compiuti nel rapporto col governo Monti, sin dalle sue origini.