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1. Il tema dei gruppi di pressione – ovvero le lobbies – è cruciale per il buon funzionamento della democrazia di tipo liberale, per il semplice fatto che a esso è consustanziale la massima garanzia possibile della trasparenza del processo decisionale pubblico. Nelle democrazie pluraliste, il fenomeno di gruppi organizzati di individui che si fanno portatori di interessi particolari presso il decisore pubblico, nel tentativo di orientarne le scelte, rappresenta una realtà imprescindibile. E valga l’esempio statunitense, dove l’attività di lobbying è talmente connaturata al sistema politico-costituzionale, al punto da considerarla, come dicono gli americani, “as American as apple pie”. Peraltro, come noto, negli Usa il lobbying gode di protezione costituzionale al Primo Emendamento, quale libertà di parola per convincere il decisore pubblico (come sostenuto dalla Corte Suprema, a partire da U.S. v. Harris del 1954).
Va altresì detto, che sempre più spesso il decisore pubblico ha avvertito la necessità di acquisire informazioni e conoscenze da parte di portatori di interessi particolari, e ciò soprattutto al fine di deliberare su questioni altamente tecniche o specialistiche. In tal senso, la dottrina ha evidenziato l’azione positiva esercitata dai gruppi di pressione nel processo decisionale, in quanto fornitori di elementi indispensabili per la comprensione dell’impatto di determinate scelte, sebbene molto spesso essi siano le cause di normative oscure o dalla difficile interpretazione (v. per tutti, P.L. Petrillo, Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato, Milano, 2011).
In molti ordinamenti tale attività di pressione – ovvero di lobbying, per usare un termine inglese – svolta da gruppi organizzati verso i decisori pubblici è sottoposta a una precisa regolamentazione volta ad assicurare la trasparenza del processo decisionale o anche la partecipazione dei gruppi di pressione (che rispettano precise regole) al processo decisionale stesso. In tali ordinamenti (Stati Uniti, Canada, Israele, Francia, Gran Bretagna, Australia, Ungheria, Polonia, Estonia, Lituania) si è avvertita, con sfumature profondamente diverse tra loro, la medesima esigenza di rendere conoscibili a tutti chi sono e quali sono i gruppi di pressione, definendo un assetto di regole volte, quanto meno, ad assicurare la trasparenza delle decisioni. Le analisi di diritto comparato evidenziano come nei sistemi in cui il Parlamento è “forte” –nel senso che gioca un ruolo chiave nei processi politici– esista una regolamentazione della rappresentanza parlamentare delle lobbies; all’opposto, al Parlamento debole corrispondono interessi oscuri. In tal senso, si è proceduto, da Petrillo nel lavoro prima ricordato, a classificare e comparare i “modelli” normativi sulle lobbies, con ricaduta in punto di forma di governo, come: “regolamentazione-trasparenza” (Gran Bretagna e Canada), “regolamentazione-partecipazione” (Usa e UE), “regolamentazione-strisciante” (Italia).
Prendiamo il caso italiano, dove mancano regole organiche in materia mentre esistono delle disposizioni, “disperse” fra norme di vario genere, che in qualche modo si riferiscono ai gruppi di pressione e alla loro lecita azione di orientamento della decisione pubblica. Si pensi, per esempio, alle norme del regolamento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica in materia di istruttoria legislativa, ovvero alle disposizioni relative all’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), che impongono il coinvolgimento di soggetti privati nella redazione dell’atto normativo. Tali disposizioni, tuttavia, non hanno avuto l’effetto di rendere palese il fenomeno lobbistico, né era il loro obiettivo quasi che in Italia si fatichi ad ammettere che le lobbies esistono; e questo anche perché si è mossi dalla preoccupazione che la disciplina dei gruppi di pressione possa equivalere alla loro legittimazione, dunque una curiosa ritrosia a riconoscere che il Re è nudo. Le lobbies sono divenute, di conseguenza, un vero e proprio tabù giuridico-costituzionale, un argomento noto alle cronache giornalistiche ma ritenuto non sufficientemente degno di essere sottoposto ad analisi giuridica. Tabù che invece si vuole qui sfatare, dedicando per la parte monografica di questo numero di Percorsi proprio alle lobbies nelle varie declinazioni: come problema e soluzione nello stato contemporaneo (Guzzetta); come rappresentanza di interessi (Colavitti); nella loro dimensione europea (Ferioli e Sassi); nell’attività delle organizzazioni religiose (Macrì) e come diritto costituzionale al lobbying (Petrillo). Un’ampia carrellata di focus stranieri – Usa (Mazzone), Francia (Meny), Israele (Tal), America Latina (Pizzolo) – offre un quadro chiaro del fenomeno lobby per un inquadramento nel diritto comparato.
2. Certo, nessuno ignora il fatto che le decisioni pubbliche assunte a tutti i livelli nel nostro sistema siano comunque il frutto di una negoziazione tra interessi differenti, la cui sintesi spetta all’Autorità chiamata a formalizzare la decisione. Ugualmente è noto che all’interno della grandi società operano direzioni generali competenti proprio in materia di lobbying (o, con espressione più “pudica”, di relazioni istituzionali) e che in Italia numerose sono le società il cui scopo principale è proprio l’esercizio del lobbying per conto di terzi soggetti. Tale attività, infatti, non soltanto richiede, per essere esercitata correttamente, una specifica competenza basata su conoscenze tecniche e scientifiche, ma ha assunto una sua funzione economica-sociale.
Con la crisi dei partiti politici, tradizionali mediatori degli interessi della società civile presso le istituzioni pubbliche, tale fenomeno ha assunto una dimensione maggiore, ed è sembrato configurarsi quale “succedaneo” della rappresentanza politica, se non addirittura alternativa a essa. Il punto è delicato e non posso certo trattarlo in questo breve spazio di presentazione, ma rimando senz’altro alla lettura dei contributi pubblicati in questo fascicolo, che prendono sul serio tema e problema.
Credo, però, che occorra partire da questa constatazione, relativamente alla crisi dei partiti, e dal presupposto che l’attività di lobbying non solo è lecita ma è anche utile e preziosa per il decisore pubblico, perché strumento indispensabile per acquisire informazioni tecniche, altrimenti difficilmente comprensibili, e prevenire impatti economicamente e socialmente insostenibili delle decisioni che si vogliono adottare. Il lobbying opererebbe, dunque, quale infrastruttura sociale ed economica in grado di unire, fermo restando le proprie rispettive responsabilità, soggetti privati e decisori pubblici.
La crisi che permea le istituzioni partitiche che erano i normali collettori di interessi collettivi, sollecita un intervento legislativo in tal senso. Non si può infatti negare che l’attività dei portatori di interessi sia sempre esistita ed esista in qualsiasi società evoluta. L’obiettivo che si deve raggiungere è quello di rendere trasparenti le attività, le finalità e gli scopi, i mezzi umani e finanziari impiegati, i gruppi che muovono tali interessi. Lo scopo, quindi, non è quello di istituire una nuova figura professionale o di imporre sui gruppi di interessi nuovi e maggiori oneri, ma quello di razionalizzare un’attività già presente ma non regolamentata, per fornire al decisore pubblico uno strumento e un supporto chiaro e con obiettivi e finalità ben definite e, al tempo stesso, garantire ai cittadini il diritto di conoscere le ragioni (non solo politiche) sottese alla decisione pubblica.
Peraltro, che oggi l’esigenza di “regolare gli sregolati”, per così dire, risulti senz’altro avvertita è dimostrato e confermato anche, e forse soprattutto, dalla critiche che vengono mosse all’azione oscura, in quanto «viaggiano a fari spenti, nella notte delle regole», delle lobbies, accusate, come scrive Michele Ainis in un recente libro, di divorare l’Italia. Per poi specificare, opportunamente: «come se il lobbying fosse un’attività criminosa, e non invece un veicolo d’informazione per le assemblee legislative, nonché di partecipazione per le categorie cui si rivolge la decisione del legislatore» (M. Ainis, Privilegium. L’Italia divorata dalle lobby, Milano, 2012). E allora: resta ferma l’esigenza di legittimare l’aggregazione e la sintesi degli interessi, ammettendoli a un’istruttoria procedimentale formale che non ha ovviamente l’obiettivo di favorire la nascita di un neo-corporativismo, ma che porterebbe certamente a una migliore compenetrazione con l’interesse pubblico per costruire una migliore decisione. In una battuta finale: la democrazia esige trasparenza e la trasparenza esige una legge sulle lobbies. Così è se vi pare.