Una breve riflessione sulla relazione del gruppo sulle riforme istituzionali
La lettura del rapporto presentato dalla commissione che si è occupata dei profili istituzionali dà a chi legge l’impressione di trovarsi di fronte a considerazioni e propositi improntati al buon senso. Difficile dire che il risultato conduca alla scoperta di una visione profondamente innovativa. Comunque sia resta il fatto che il lavoro svolto potrà essere preso a base delle future iniziative di intervento per una riforma del nostro sistema politico e istituzionale.
Innanzi tutto scindiamo le proposte che possono essere attuate a sistema costituzionale invariato da quelle che richiederebbero revisioni della costituzione. Le prime in teoria più semplici in quanto affidate alla sola volontà di chi ci governa, le seconde invece legate alla farraginosità della macchina della revisione che fu voluta più di sessanta anni fa.
Le riforme che non richiedono revisione sono innanzi tutto quelle collegabili a una riconsiderazione della educazione civica dei cittadini e delle regole proprie dell’etica pubblica. Una questione complessa la cui presa di coscienza dovrebbe essere affidata a un rivoluzionario progetto di riconsiderazione del ruolo che il privato e il pubblico dovrebbero svolgere nell’interesse comune. Tutto questo viene prima dei ritocchi costituzionali e legislativi. Oggi, francamente parlando, appare una chimera. Ma è il caso di sottolineare che senza un forte impegno dei mezzi di informazione, del sistema pubblico di istruzione e della volontà dei protagonisti locali e centrali della politica diretto a salvaguardare i valori condivisi propri di una civiltà di stampo liberale appare del tutto lontano un credibile cambio di rotta. Senza un forte impegno civile dobbiamo abbandonare l’idea che le riforme da sole condurrebbero a una rigenerazione della poltica.
In questa direzione vanno i richiami contenuti nella relazione a una forte deontologia che deve interessare, tra l’altro, i partiti e la magistratura. Per quest’ultima è del tutto opportuno il richiamo all’indipendenza, già oggi assicurata ma offuscata da quelle forme di partecipazione di singoli magistrati all’attività politica che sicuramente non vanno a beneficio dell’immagine del’istituzione.
Alla legislazione dovrebbe competere un ulteriore ridimensionamento dei criteri di finanziamento dei partiti, di definizione dei rimborsi elettorali, di disciplina dei gruppi di pressione. Ai regolamenti parlamentari una serie molto articolata di interventi di razionalizzazione della organizzazione e delle procedure istruttorie e decisionali. Tutte cose ottime e condivisibili. Questa parte del documento è sicuramente quella più tecnicamente condivisibile e diffusamente spiegata. Sicuramente utile per un intervento non costoso e attuabile in tempi rapidi a forma di governo invariata.
Più complesso il versante delle riforme da effettuarsi con legge di revisione e che quindi vengono trasmesse al parlamento attuale o a quello che verrà in caso di nuove elezioni ravvicinate.
La soluzione della commissione tecnica che dovrebbe preparare il testo delle possibili revisioni è sicuramente da preferirsi a una assemblea politica di tipo parlamentare che portasse avanti contemporaneamente il lavoro politico giornaliero e quello tecnico di revisione.
Il lavoro della commissione sarebbe trasmesso al parlamento che manterrebbe il potere di ridiscuterlo e quindi con il rischio di un riesame che potrebbe ribaltare e rendere inutile il lavoro tecnico precedente. Ma forse è un rischio che si può correre.
Si conferma l’idea dell’abbandono del bicameralismo paritario. Un lusso assurdo che l’Italia si trascina faticosamente da decenni e che in tempi recenti ha reso palpabile il dramma del doppio rapporto fiduciario con Camera e Senato produttivo degli effetti disastrosi ormai sotto gli occhi anche dei più disinformati. Bene la riduzione del numero dei parlamentari – purchè operativa dalla prossima legislatura e non scalata a quella successiva come ridicolmente proposto da precedenti iniziative a suo tempo naufragate – la diversa rappresentanza delle due assemblee, le diverse funzioni, la sola Camera dei deputati come sede del rapporto fiduciario e dell’indirizzo.
A questo punto ecco la rassegna delle riforme possibili della legge elettorale. Tutte le opzioni di cui si discute in questi anni vengono evocate tra cui quella del doppio turno di collegio che opportunamente si aggancerebbe a un visione simile a quella c.d. semipresidenziale di taglio francese. E qui emerge, e viene dalla maggioranza dei saggi accantonato, il vero problema. La maggioranza opta per una razionalizzazione della forma di governo parlamentare presentando aggiustamenti sicuramente condivisibili. Tuttavia questo tipo di opzione per essere confortato da successo nella pratica presupporrebbe un sistema di partiti robusto, possibilmente con un consolidamento della tentata bipolarizzazione. Ma abbiamo avuto la prova recente che questo non è successo ed è poco credibile che succeda nei prossimi tempi. Solo la presenza di partiti ben strutturati potrebbe avvantaggiarsi di un rafforzamento del ruolo del presidente del consiglio nei meccanismi fiduciari, nella definizione e attuazione dell’indirizzo, nella nomina e revoca dei ministri e simili.
Con l’attuale labilità degli apparati di partito e con lo sbandamento di larga parte dell’elettorato verso aggregazioni personalistiche che hanno per obiettivo lo sgretolamento delle istituzioni affidandosi a guru extraparlamentari che dirigono i propri seguaci dall’esterno dell’apparato, occorrerebbe rafforzare il sistema istituzionale creando un esecutivo robusto legittimato dal voto popolare. A questo punto il doppio turno presidenziale e parlamentare darebbe certezza di risultati e semplificherebbe la selezione della rappresentanza parlamentare. Fare riferimento al modello francese, che bene inteso potrebbe tollerare aggiustamenti ove necessario, non deriverebbe altro che dal buon senso e dalla constatazione del sostanziale successo di quella esperienza costituzionale. Continuare a fare affidamento sulla capacità dei partiti di rivitalizzare lo schema ideato a metà degli anni quaranta del secolo trascorso è illusorio.
Infine del tutto condivisibili le proposte di intervento sul riformato Titolo V con particolare riferimento alla disciplina della suddivisione delle competenze statali e regionali. Su questo aspetto ha fatto scuola una estesa giurisprudenza costituzionale che ha cercato di rimediare i guasti della insensata riforma del 2001.