Il gruppo di lavoro sulla crisi istituzionale voluto dal presidente Napolitano ha terminato il suo compito. Converrà, perciò, svolgere un breve esame della proposte contenute nel documento finale. Per ragioni di spazio prenderemo in esame soltanto le indicazioni relative al parlamento e al governo, tralasciando gli altri aspetti. Pure, però, occorre spendere una parola sui giudiziosi suggerimenti in materia di rapporti tra stato e regioni; dove si propone una riscrittura dell’art. 117, che sfoltisca drasticamente le materie di competenza concorrente, garantendo la supremazia, in ultima istanza, del legislatore statale.
Per la forma di governo la commissione si è espressa a maggioranza per il mantenimento del sistema parlamentare. Tale opinione non ci conforta, avremmo preferito una opzione a favore di un regime semipresidenziale che, a nostro avviso, è più in grado di fronteggiare la crisi istituzionale che stiamo attraversando. Tuttavia, se si esamina il merito delle proposte ci si accorge che il rifiuto del semipresidenzialismo si accompagna a un’indicazione per una forma di governo che è molto di più di un parlamentarismo razionalizzato. Nella relazione si specifica, infatti, che il presidente del consiglio può proporre al capo dello stato la nomina e la revoca dei ministri e può chiedere lo scioglimento anticipato del parlamento. Inoltre il governo in carica può essere sfiduciato solo con una mozione votata a maggioranza assoluta che indichi anche un nuovo presidente del consiglio (la cosiddetta sfiducia costruttiva).
Tali disposizioni sono rafforzate da altre indicazioni presenti nel testo e non direttamente connesse alla forma di governo. La commissione suggerisce il superamento del bicameralismo simmetrico o paritario. La fiducia al governo è appannaggio della sola Camera dei deputati. Il Senato è sostituito da una camera delle regioni, che assorbe le funzioni della conferenza stato/regioni, ed è ad elezione indiretta. Ne fanno parte i presidenti delle regioni e un numero di delegati proporzionale al numero di abitanti di ciascuna regione. Questa seconda camera non ha potere di veto, ma solo di emendamento. Tale diversa articolazione del bicameralismo fa scendere del 30% il numero dei parlamentari (in tutto si prevedono 480 deputati e 120 senatori).
A favore della stabilità dell’esecutivo sono anche i suggerimenti relativi ai regolamenti parlamentari: si propone che non sia possibile costituire gruppi con meno di trenta deputati e soprattutto sia necessaria la corrispondenza tra lista di elezione e gruppo di appartenenza.
Meno definite e meno soddisfacenti sono le proposte in materia di legge elettorale. In questo caso la commissione fissa solo alcuni parametri generali, auspicando un alto sbarramento, esplicito o implicito (e quest’ultimo sarebbe preferibile) e un ragionevole premio di governabilità (che a nostro sommesso avviso sarebbe opportuno assegnare al maggior partito e non alla coalizione). A parziale conforto di tale indeterminatezza c’è da rilevare che, una volta superata l’anomalia del bicameralismo paritario, la possibilità di avere una maggioranza definita nell’unica camera abilitata a concedere la fiducia diventa un obiettivo perseguibile con vari tipi di sistemi elettorali.
La commissione indica anche il percorso con cui attuare la revisione costituzionale. Si esclude il ricorso a una bicamerale, dove in passato si sono scaricate tensioni politiche e i dissensi tra i partiti. Si suggerisce, invece, una commissione redigente mista (costituita da parlamentari e non parlamentari) che in pochi mesi appronti un articolato da far votare poi in parlamento articolo per articolo senza emendamenti. A completare la procedura ci sarà poi un “referendum confermativo del testo approvato dal parlamento distinto per singole parti omogenee”.
In sostanza, al di là delle facili ironie sui saggi che abbiamo letto in questi giorni, le proposte della commissione sulla crisi istituzionale appaiono un onesto compromesso fra diverse posizioni. Esse disegnano non un impossibile libro dei sogni ma un’accettabile proposta di riforma. C’è da sperare che, una volta sciolto il nodo del Quirinale, si dia vita a un governo capace di imboccare la strada della ragionevolezza.