1. Il primo dato che merita di essere evidenziato riguarda la “fonte” che ha istituito il gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, contestualmente a un gruppo di lavoro sulle riforme economiche. Ovvero il Presidente della Repubblica: a dimostrazione che il tema delle riforme in materia istituzionale, al pari di quelle in materia economica, trovano, financo nel vertice del nostro sistema costituzionale, un convinto assertore e propugnatore, perché ritenute questioni non più ineludibili per favorire una ripresa e ricrescita del sistema politico e istituzionale, da troppi anni soggetto a proposte ma mai a soluzioni definitive.
Allora, risulta pienamente condivisibile quanto si legge nella Premessa della Relazione finale del gruppo: «L’Italia ha bisogno di riforme in grado di ravvivare la partecipazione democratica, di assicurare efficienza e stabilità al sistema politico e di rafforzare l’etica pubblica: principi e valori che costituiscono il tessuto connettivo di ogni democrazia moderna e ingredienti del suo successo nella competizione globale. Le proposte contenute nel rapporto possono concorrere a migliorare il funzionamento della nostra democrazia contribuendo ad attivare i processi di crescita economica e sviluppo sociale».
2. Vado per ordine e seguo la cadenza di alcune delle questioni affrontate dal gruppo di lavoro. “Diritti dei cittadini e partecipazione democratica”: A) la previsione di regolamentare giuridicamente i partiti politici, dando così piena attuazione all’art. 49 cost., è una questione che andava risolta da tempo (Luigi Sturzo la suggeriva già negli anni Cinquanta). Nel finale della legislatura che si è appena conclusa, sembrava fosse maturata una volontà legislativa, nel senso dell’approvazione di un provvedimento normativo volto a dare una regolamentazione giuridica ai partiti politici. Vi erano diversi progetti di legge, tendenzialmente convergenti; vi era il cd. “velo d’ignoranza” su chi avesse potuto ricavare benefici da una simile legge; vi furono, infine, numerose riunioni della prima Commissione della Camera, avvalorate da una indagine conoscitiva degli esperti (fra cui chi scrive). Insomma, sembrava che fosse la volta buona. Approvare la legge sui partiti, sarebbe stato un gesto degno del barone di Munchaussen, che si tirò per il codino per sfuggire alle sabbie mobili. E così avrebbero dovuto fare i partiti. Invece, non è andata così. Sia chiaro: rivitalizzare il patto fra cittadini e partiti, vuol dire indurre questi ultimi a rinunciare a una parte del loro arbitrio, subordinandosi a regole certe e trasparenti, rendendo pubblici i loro statuti oltre che i loro bilanci, dando più potere ai loro iscritti ed elettori. Vale altresì ricordare l’intento del governo Monti con l’affidamento a Giuliano Amato della predisposizione di un elaborato relativo alla regolamentazione dei partiti (che ora è possibile leggere su Rassegna Parlamentare n. 4 del 2012). Certo, il Movimento 5 stelle non è un partito e si guarda bene dall’esserlo e, soprattutto, di essere percepito come tale. Questa scelta, di fatto, mette in crisi il sistema partitico e rende, oggi, complicata una legge sui partiti. Ma forse proprio per questo andrebbe assolutamente fatta; B) prevedere una maggiore diffusione del referendum è una proposta senz’altro apprezzabile: sia nella versione obbligatoria del referendum costituzionale ex art. 138 Cost., sia nella razionalizzazione dei meccanismi relativi al referendum abrogativo ex art. 75 Cost., a cominciare dalla ridefinizione del quorum di validità del risultato e del giudizio di ammissibilità “preventivo” da parte della Corte costituzionale. Il referendum va senz’altro rivitalizzato perché è un istituto importante nella nuova composizione dei sistemi democratici, che sono fondati sempre più sulla integrazione fra la componente rappresentativa e plebiscitaria. Anche l’idea di valorizzare maggiormente l’iniziativa legislativa popolare e prevedere un dibattito pubblico sui grandi interventi infrastrutturali, si muove senz’altro nella filosofia a cui sopra si faceva riferimento, e che è riassumibile nella formula della sovranità popolare il cui esercizio deve essere sempre consentito, sia pure nei limiti e nei modi stabiliti dalla Costituzione.
3. Per quanto riguarda il cd. metodo delle riforme, la Relazione propone la costituzione di una Commissione redigente a composizione mista, parlamentari e non. Rimane una certa perplessità sullo status dei componenti non parlamentari all’interno di una Commissione comunque parlamentare. Semmai si può prevedere un Comitato di studio, come questo la cui relazione finale qui si commenta, che elabori alcuni progetti di riforma costituzionale e poi li sottoponga alla Commissione redigente. E’ chiaro però, che al di là della bontà tecnica dei progetti elaborati dagli studiosi di un Comitato, deve esserci la volontà delle forze politiche di approvare la riforma, eventualmente anche a maggioranza salvo passare obbligatoriamente per la via referendaria.
4. E proprio con riferimento ai progetti di riforma costituzionale, si evidenzia come nella relazione si prospettino due differenti ipotesi di forma di governo: il premierato oppure il semipresidenzialismo. Entrambi hanno la finalità comunque di valorizzare il voto degli elettori e quindi il principio della sovranità popolare: l’uno, nel caso del semipresidenzialismo, con maggiore incisività, in considerazione dell’elezione a suffragio del capo dello Stato, che non è però capo del governo e che può “subire” una maggioranza parlamentare politicamente a lui avversa; l’altro, nel caso del premierato, per il tramite dell’investitura e non dell’elezione del governo, il quale dovrebbe però essere espressione di una maggioranza parlamentare voluta per il tramite del voto degli elettori. Qui, ovviamente, grande peso ha la legge elettorale, che dovrebbe consentire che si possa comunque avere “una maggioranza e un governo”, ovvero, come si legge nella Relazione, soluzioni elettorali che «favoriscano la costituzione di una maggioranza di governo attraverso il voto». Il tutto sarebbe reso assai più agevole da una riforma da tempo reclamata, e cioè il superamento del bicameralismo paritario: con la sola Camera che detiene il rapporto fiduciario e il Senato espressione delle autonomie territoriali. In tal senso, risulterebbe utile riprendere quanto elaborato dal progetto di riforma costituzionale del 2006, specialmente per le modalità di elezione del Senato federale. La riduzione del numero dei parlamentari è altresì riforma complementare al progetto complessivo di rielaborazione della forma di governo e più in generale della ridefinizione del ruolo del Parlamento, che dovrebbe altresì dotarsi di nuovi regolamenti il cui impianto di fondo è chiaramente specificato e risulta senz’altro condivisibile nella Relazione finale.
5. Il tema dei rapporti Stato/Regioni, alla luce dei problemi insorti con la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, è fin troppo noto nonché fin troppo evidenziato nel corso di oltre un decennio di contenzioso costituzionale. Proprio nel giorno in cui veniva consegnata la Relazione finale qui commentata, si teneva una Riunione straordinaria della Corte costituzionale alla presenza del Presidente della Repubblica dove veniva, ancora una volta, segnalata l’emergenza attuativa del Titolo Quinto della Costituzione e le difficoltà in cui era costretta la Corte a porvi rimedio attraverso le sue decisioni giurisprudenziali. Quindi: l’idea di razionalizzare l’impianto del Titolo Quinto e, soprattutto, sfoltire le materie di competenza concorrente, che sono quelle che maggiormente creano difficoltà applicative, è senz’altro apprezzabile e condivisibile.
6. La parte relativa all’amministrazione della giustizia è piena di buone intenzioni, come per esempio quella di ridurre l’ipertrofia del contenzioso ovvero il rispetto della ragionevole durata dei processi. Nulla, mi pare, si dica sulla separazione delle carriere fra giudicante e inquirente, che rimane però la riforma delle riforme.
7. Infine, un cenno di pieno apprezzamento riguarda il riferimento a una regolamentazione delle lobbies, attraverso una disciplina che riprenda, magari secondo un’accorta sintesi, i modelli di regolazione del Parlamento europeo e quello degli Usa. In tal senso, molti spunti possono trovarsi nel fascicolo di Percorsi Costituzionali (n. 3/2012), la rivista della Fondazione Magna Carta, dedicato alle Lobbies come Democrazia.