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“Le Nuove Relazioni Transatlantiche”
Washington, DC – 22 settembre 2008

 

“La situazione mondiale è molto seria. Credo che una delle nostre principali difficoltà è che oggi i problemi sono di enorme complessità e la grande quantità di fatti presentati ogni giorno all’opinione pubblica oltrepassa la capacità dei singoli cittadini di farsi una chiara idea della situazione. Inoltre gli americani sono distanti dalle aree più disastrate del pianeta ed è difficile per loro comprendere la condizione di chi vive tra grandi sofferenze e le conseguenze di ciò  sui loro governi e sui nostri sforzi di promuovere la pace nel mondo”.

Avrete capito che non si tratta di parole mie. Sono parole pronunciate da George Marshall, il 5 giugno del 1947 (61 anni fa) davanti agli studenti di Harvard per presentare il piano di sostegno all’Europa post-bellica che poi avrebbe preso il suo nome.

Ho citato quel discorso per almeno due motivi: il primo è il più evidente, sul Piano Marshall poggiano le fondamenta dell’alleanza che ha legato Europa e Stati Uniti in questi ultimi 60 anni; il secondo motivo non è meno importante: quelle parole potrebbero essere pronunciate ancora oggi e avrebbero pienamente senso se invece di pensare all’Europa del ’46, pensassimo all’Iraq o all’Afghanistan dei nostri giorni.

Sono gli stessi motivi che ci hanno portato qui oggi e che per il quarto anno consecutivo ci riuniscono attorno ad un tavolo per controllare lo stato di salute delle relazioni tra Europa e Usa. Si tratta infatti proprio di questo: ogni volta andare alle origine della nostra alleanza e ogni volta misurare quell’alleanza con le nuove evenienze e le nuove crisi del pianeta.

La necessità di questa continua messa a punto delle nostre relazioni (a livello di governi, di opinione pubbliche così come di Fondazioni come le nostre) è evidente a chiunque osservi con attenzione la mappa geopolitica mondiale. Ogni volta che Usa e Europa agiscono d’intesa non c’è maggiore forza capace di avere efficacia nelle crisi globali; quando Usa e Europa perdono quell’accordo non c’è altra forza capace di avere la stessa efficacia. Barak Obama, parlando a Berlino, ha tradotto a suo modo questa constatazione dicendo che “il peso della cittadinanza globale continua a tenerci legati”, io non credo si tratti di un peso né credo che nulla ci tenga legati. Più che un’alleanza, detta così, sembra una prigionia o una condanna. E’ invece proprio la nostra libertà che ci fa scegliere come alleati e ci rimette ogni volta in discussione.

Per questo anche non ci è mai piaciuta l’idea di chi vorrebbe l’Europa su l’altro piatto della bilancia planetaria rispetto all’America: quel tipo di equilibrio non ci interessa. Il nostro posto è sullo stesso piatto di quella bilancia.

D’altro canto questo è lo stesso modo di sentire dei nostri cittadini, spesso con più coerenza e chiarezza dei nostri leader. Arrivando a Washington sfogliavo i risultati di un recentissimo sondaggio del German Marshall Fund dove si scoprono molte cose interessanti: americani ed europei mostrano le stesse preoccupazioni e hanno le stesse priorità da suggerire ai loro governi. Al primo posto c’è ancora il terrorismo internazionale per il 43 per cento degli europei e per il 42 degli americani, lo stesso vale per la crisi dell’economia, condivisa come priorità dal 37 per cento degli europei e dal 39 degli americani, non siamo distanti neppure su temi come le tensioni in medio oriente o il riarmo nucleare. L’unico gap si registra sui temi del “cambio di clima”, ma è solo perché noi non abbiamo Al Gore.

Ma l’indicazione più seria viene dalla risposta alla domanda se Europa e Stati Uniti hanno sufficienti valori comuni per poter cooperare sulla scena internazionale: su entrambe le sponde dell’Atlantico la risposta positiva supera di molto il 50 per cento.

In Italia come in tutta Europa si seguono le elezioni americane con più passione che un campionato di calcio: ognuno ha la sua idea, la sua strategia da suggerire al candidato preferito. Certo se votassero gli europei Obama stravincerebbe, ma in questo probabilmente i sondaggi non coincidono (almeno spero). Ma i supporter europei dell’uno e dell’altro candidato forse non colgono appieno il fatto che con la nuova amministrazione, quale essa sia, molto cambierà anche per l’Europa. Uscito di scena Bush, su cui la storia sono convinto che darà un giudizio diverso da quello oggi prevalente, uscirà di scena anche un gigantesco alibi per “stare a guardare”. Finchè le scelte, le richieste, le proposte dell’America erano quelle di George W. Bush era facile per molti europei girarsi dall’altra e non pagare il prezzo politico. Tutto questo è destinato a cambiare. L’Europa sarà chiamata a dare risposte precise e a prendere impegni su molti fronti finora lasciati sguarniti: il ruolo delle nostre truppe in Afghanistan con i troppi caveat a fare d’impaccio, l’Iraq dove ormai è il momento per l’Europa di tornare a dare un contributo alla ricostruzione del paese dopo aver lasciato agli americani il compito di vincere la guerra, all’Iran dove le trattative ristagnano da troppo tempo , il peso da dare alla Nato e l’impegno militare ed economico da destinare all’alleanza atlantica, per finire con le nuove emergenze caucasiche.

Su questo ultimo fronte si sono registrate differenze di valutazioni e di sensibilità tra americani e europei. L’Europa è stata accusata di essere troppo tenera e remissiva nei confronti di Putin e dell’aggressione della Georgia. Condoleezza Rice ha detto l’altro ieri che “Gli Usa e l’Europa non devono permettere alla Russia di trarre alcun beneficio dall’aggressione della Georgia”. Dire che al di la delle nostre intenzioni e dei nostri sforzi è già così: l’economia russa sta pagando un prezzo molto alto e il conto totale ancora non si conosce; la Polonia che da tempo esitava a concedere l’installazione di missili americani sul suo territorio ha dato il via libera senza condizioni, l’Ucraina ha chiesto di accelerare la sua adesione alla Nato e persino i partner della Shanghai Cooperation sono rimasti piuttosto tiepidi davanti alla questione dell’indipendenza di Abkazia e Ossezia.

E’ vero che molti paesi europei sono stati costretti a fare i conti con la loro dipendenza dal gas russo, il 60 per cento di quello italiano arriva da lì. Questo aspetto non può essere sottovalutato come un elemento di puro egoismo nazionale. D’altronde sarebbe inutile gettare la croce addosso agli Stati Uniti per la sua relazione privilegiata con l’Arabia Saudita (anche se chi ha letto “Sleeping with the devil” di Robert Baer non dorme sonni tranquilli) .

Il problema è di più largo orizzonte e richiede una grande prova di leadership condivisa e di lungimiranza: il fatto che i combustibili fossili siano oggi il vero motore del fondamentalismo e dell’autoritarismo nel mondo non può più essere considerato un fatto marginale. Oggi combattere per la democrazia e immaginare fonti energetiche alternative sono all’interno di uno stesso panorama strategico.

Qualche volta penso che i nostri amici americani si siano fatti un po’ troppo condizionare dalla definizione kaganiana (parlo di Robert) dei nostri due mondi: l’America sarebbe marte e l’Europa venere. Sarebbe forse un utile esercizio logico ogni tanto provare a ribaltare lo schema.

Se pensiamo alla pressione che l’immigrazione musulmana esercita sui confini europei, alle enclaves fondamentaliste che si installano nelle nostre città, alle moschee che anche in Europa diventano spesso luoghi di predicazione dell’odio, se pensiamo alle bombe di Madrid e di Londra, a Theo Van Gogh o a Pym Fortuin, è difficile vedere il vecchio continente come un luogo pacifico e pacificato. Se esiste uno scontro di civiltà, in quello scontro l’Europa è certamente in prima linea.

Allo stesso modo se la crisi del Caucaso dovesse sfociare in una qualche riedizione della guerra fredda saremmo noi per primi a veder risorgere la cortina di ferro. E sarebbero quei paesi che una volta chiamavamo “europa dell’est”- e che ora sono Europa e basta -a rivivere in pieno la paura sovietica.

Per questo definire l’Europa un “paradiso postmoderno” comporta una forte approssimazione per difetto. E’ vero che il virus del relativismo e del multiculturalismo ha molto fiaccato le nostre difese, ma forse è il caso di credere in una ripresa se pensiamo alla Francia di Sarkozy, alla Germania della Merkel, all’Italia di Berlusconi e non da ultimo alla Chiesa di Benedetto XVI.

Così anche l’America potrebbe a sua volta prendere il posto di Venere se pensiamo al suo isolamento geografico, alla stanchezza della sua opinione pubblica per l’impegno da poliziotto planetario, e in fondo, allo stesso successo del “sogno obamiano”. Ma la mia intenzione non è veramente quella di ribaltare lo schema, piuttosto quella di dire che Europa e Stati Uniti sono entrambi e allo stesso tempo un po’ Venere e un po’ Marte. Per questo siamo simili, per questo abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Grazie a tutti.