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 “Il tempo e gli spazi delle riforme”

di Gaetano Quagliariello

Esiste una divisione tra visione e narrazione: abbiamo il compito di riunirle

Uno degli effetti che la crisi economica ha provocato è stato quello di accentuare, in politica, la separazione tra l’analisi e la visione da un canto, e la divulgazione – quella che con un termine alla moda si usa definire narrazione – dall’altro.

Tra i compiti della Fondazione Magna Carta vi è quello di riavvicinare i due elementi. Perché da sempre – e la storia dell’Italia unita, come si dirà, ne è la prova – la politica può considerarsi una risorsa a condizione che gli strumenti d’azione siano sostenuti da una visione, da una prospettiva. Che è cosa diversa dal possedere una rigida ideologia.

Stiamo invece correndo il rischio di accettare che la visione sia collocata fuori dai territori della lotta politica; che addirittura venga criminalizzata in quanto ritenuta “ritardante e inutilmente sofisticata”. E che, per questo, si ritenga di poterla sostituire con la narrazione, da effettuarsi con forme che la tecnologia consente sempre più concise e immediate.

La politica, in tal modo, scade ad arte dell’impressionare anziché del convincere, correndo il serio rischio di trasformarsi in un esercizio di pura vanità.

 

Due problemi a cui le riforme devono rispondere: gli spazi e il tempo.

Proprio il tentativo di conciliare visione e divulgazione mi porta a individuare negli interventi raccolti nel volume dell’Osservatorio politico “Riforme: ultima chiamata”, pubblicato di recente dalla Fondazione Magna Carta, due grandi problemi ai quali le riforme dello Stato devono trovare risposta: uno concerne gli spazi della politica, l’altro il tempo.

Tutto parte dal grande mutamento determinato dalla cosiddetta globalizzazione. Sarà anche scontato, ma è bene ribadire che la globalizzazione ha provocato una svalutazione della politica. Assistiamo, da parte delle persone più insospettabili, alla riabilitazione, spesso inconsapevole, della vecchia distinzione marxista tra struttura e sovrastruttura, laddove a rappresentare la struttura sarebbero le grandi forze economiche, mentre la politica sarebbe relegata a un ruolo fondamentalmente sovrastrutturale, quello di chi agisce in superficie e “a copertura”.

A mio giudizio le cose sono più complesse. Questo volume dell’Osservatorio ci aiuta a comprendere tale ruolo e fornisce una serie di indicazioni su come si sono modificati gli spazi dell’intervento politico e, in particolare, quelli propri della dimensione statuale.

 

Un problema di spazi:

 

A livello sovranazionale.

Il disordine e l’incoerenza con cui si è sviluppato il processo di unificazione europea hanno determinato, in questi ultimi decenni, una progressiva evaporazione della sovranità statuale.

Sia chiaro: quest’analisi non sconta alcuna scoria di euroscetticismo. Chi scrive ritiene il processo di unificazione privo di alternative. Non tanto per la pur convinta condivisione delle speranze dei Padri fondatori. Ancor di più, perché ritengo impossibile affrontare molte delle sfide che l’agenda del Terzo Millennio ci propone senza creare una grande unione continentale che metta in comune gli strumenti economici per reagire alla sfida delle potenze emergenti; quelli militari per difendersi dai nuovi terribili pericoli che si stagliano all’orizzonte; i confini per evitare di essere invasi.

Non bisogna essere “euroscettici”, però, per comprendere come siano andate le cose. Dopo la caduta del Muro, l’Europa ha ritenuto vi fossero le condizioni per richiedere agli Stati un passo più avanzato nella cessione della loro sovranità: la devoluzione della potestà statuale legata alla produzione della moneta e ai processi ad essa connessi.

A questo processo di cessione di sovranità non è corrisposta la capacità di elaborare un nucleo di potere politico unitario e nemmeno istituzioni finanziarie in grado di governare il meccanismo innescato. Sicché la sovranità non si è trasferita da un livello statuale a uno sovranazionale. È sì fuoruscita dallo Stato nazionale, ma è evaporata, senza trovare un altro luogo istituzionale di coagulo.

La problematica non è del tutto inedita. Basta ripercorrere la trama della unificazione europea per scoprire che quando nel ’54 si pose la sfida dell’esercito unitario (CED), non a caso Alcide De Gasperi chiese con forza che in parallelo si costituisse un nucleo di potere condiviso perché, anche in quel caso, il processo di integrazione auspicato aveva bisogno di un riferimento politico unitario per non rivelarsi velleitario o, peggio, pericoloso.

In quel caso si trattava di eserciti e non di valuta. Ma analogamente si sarebbe prodotta una fuga di sovranità: esattamente quella che si è verificata con la moneta unica.

Allora quel nucleo di potere unitario non si volle creare e anche per questo l’unificazione degli eserciti fallì. Con la moneta è andata diversamente, con la conseguenza che oggi lo spazio residuo del potere statuale è il prodotto di una dinamica che va di volta in volta tarata per provare a scoprire cosa resta alla competenza dello Stato, cosa si è trasferito e cosa è andato perduto. E, infine, se c’è qualcuno che da questa perdita è stato avvantaggiato.

 

Sussidiarietà verticale e orizzontale, policentrismo anarchico, crisi dei corpi intermedi.

A questa difficoltà di determinazione degli spazi di statualità a causa di un processo di devoluzione ascendente, si aggiungono i problemi della cosiddetta fase discendente.

Ricordo una pagina di un libro del Cardinal Giacomo Biffi, “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, nella quale si ripercorrono le origini del processo costituente viste dai cattolici. Si rammenta come, in quel momento storico, il mondo cattolico fu attraversato da un dibattito che vide contrapposti quanti avrebbero voluto che la sussidiarietà fosse costituzionalmente tutelata soltanto in senso verticale e quanti, invece, ritenevano che il problema vero fosse quello di garantire anche i processi di sussidiarietà orizzontale a vantaggio delle iniziative autonome della società civile e dei cosiddetti “corpi intermedi”.

Allora vinsero coloro i quali, in nome di un mal concepito senso dello Stato, si battevano per una sussidiarietà esclusivamente verticale.

Ci volle del tempo perché essa, con l’istituzione delle Regioni, divenisse effettiva; efficiente, con rare eccezioni, non lo è stata mai. Poi, con la riforma del Titolo V del 2001, la sussidiarietà verticale si è complicata al punto di dar vita a una sorta di policentrismo anarchico (per riprendere un’efficace espressione di Luca Antonini).

Questo processo non solo ha reso incerti gli spazi dello Stato e quelli degli Enti locali, a iniziare dalle Regioni. Ha anche ostacolato, nei fatti, lo spontaneo prodursi di una sussidiarietà orizzontale, che nel frattempo i processi di liberazione economica hanno naturalmente prodotto a dispetto di una esplicita tutela costituzionale.

Le iniziative autonome che nascono dal basso, e che hanno valenza economica, non sanno infatti bene quali spazi possono occupare, quali limiti devono rispettare, quali aiuti – e da chi – possono legittimamente ricevere. Si comprenderà come tutto ciò spinga allo sviluppo di un malinteso lobbismo e favorisca la corruzione.

Si delinea, dunque, un quadro nel quale gli spazi della politica sono rappresentati attraverso un disegno astratto: non si comprende bene quale sia lo spazio di potere statuale residuo rispetto ai processi di devoluzione verso l’alto e verso il basso. Ancor meno si determina con certezza, nel contesto del policentrismo anarchico, quali siano gli spazi di governo assegnati ai diversi enti locali.

Queste confusioni al livello delle istituzioni fanno da sfondo e da premessa alla crisi dei cosiddetti corpi intermedi prodotti naturalmente dalla società. La radice di tale crisi è senz’altro di natura sociale. Essa però viene amplificata – e in alcuni casi persino ingigantita – dal descritto disordine istituzionale.

A riprova di ciò valga una considerazione: a essere in crisi più degli altri sono proprio quei corpi intermedi che hanno rappresentato il “ponte” tra società e Stato.

La crisi dei partiti politici, infatti, va colta innanzi tutto sul versante sociale: per il partito la antica funzione di integrare le masse è da tempo finita. Le istituzioni, però, non sono state in grado di assegnare loro un altro compito, più limitato ma non meno essenziale per il funzionamento del sistema politico.

Sicché, finite le ideologie, i partiti non producono più una sintesi tra carisma, idee e organizzazioni. Nascono e muoiono nel tempo in cui si consuma una biografia politica.

Da tutto ciò una prima conclusione. Ci si muove all’interno di uno spazio terribilmente segmentato, nel quale l’intervento politico nel migliore dei casi rischia di essere confuso. Nel peggiore  di essere superfluo o addirittura dannoso.

Da qui nasce la proposta, che ho colto al fondo di molti scritti raccolti nell’Osservatorio “Riforme: ultima chiamata”: concepire e censire uno spazio per lo Stato che sia più ristretto ma nel quale si possa esprimere un contenuto politico migliore e una migliore e più forte presenza della politica.

Quindi: non “meno Stato più società” ma “miglior Stato per aiutare e stimolare una migliore società”.

Se non si coglie questa ricetta, lo Stato rischia la stessa sorte dei partiti che, nel corso degli anni ‘80 e ’90, morirono non perché troppo deboli ma perché si illusero di essere troppo forti, di poter controllare uno spazio ampissimo, per poi accorgersi che erano stati colonizzati dall’interno da interessi settoriali, quando non propriamente illeciti.

 

Per risolvere il problema dello spazio politico serve una visione

Il problema che riguarda gli spazi delle istituzioni e, conseguentemente, quello della politica, per essere risolto ha bisogno di una visione. Questa investe anche la riforma del titolo V e la riforma del Senato.

Credo sinceramente che il problema più importante non sia quello di come si voterà per il Senato: se direttamente o indirettamente. Il tema non è insignificante ma c’è qualcosa che viene prima: in presenza di un Titolo V profondamente rivisitato, quale ruolo svolgerà il Senato? Come contribuirà il Senato a riordinare il policentrismo anarchico? Saprà essere camera di compensazione tra Stato e regioni? Aiuterà a evitare il contenzioso che ha di fatto dirottato l’effettivo potere legislativo verso la Corte Costituzionale? Sarà attraversato da dinamiche imperniate su obbligazioni partitiche o legate alla provenienza regionale?

La risposta a questi quesiti viene prima del problema della composizione del Senato e della sua modalità di elezione. Quando avremo saputo scioglierli, allora avremo conciliato visione e narrazione, evitando di ridurre tutto a un problema di costi.

 

Il problema del tempo politico.

C’è poi un problema di tempo che investe la politica e, in particolare, il lavoro dei legislatori: ruolo e funzione dei rappresentanti del popolo.

Ormai da moltissimi anni ci troviamo all’interno di un processo nel quale il tempo della decisione va comprimendosi e si comprime ancor di più il tempo di reazione dell’opinione pubblica.

Questa deriva diviene sempre più inarrestabile, ma il problema è che essa nega in radice uno dei cardini irrinunciabili sui quali si è storicamente retta la democrazia rappresentativa. Questa, infatti, prodotto sette-ottocentesco, presupponeva il divieto dell’obbligo di mandato, quello secolarmente noto come “mandato imperativo”.

Intorno a quel divieto si è sviluppata la storia del parlamentarismo: l’elettore sceglie liberamente il suo rappresentante, questo compie le sue scelte libero da vincoli di mandato, ha la possibilità di assumere anche decisioni impopolari contando sul fatto che vi sia il tempo affinché il giudizio del corpo elettorale si sedimenti: alla scadenza della legislatura, dopo una valutazione meditata anche delle scelte del rappresentante istintivamente mal considerate, l’eletto si sarebbe, eventualmente, sottoposto nuovamente al giudizio degli elettori per riceverne una conforma o un diniego.

La sedimentazione del giudizio è, dunque, un elemento fondamentale della teoria rappresentativa. Nel momento in cui noi comprimiamo, fino al punto di eliminarlo, lo spazio di sedimentazione del giudizio politico, neghiamo un cardine della democrazia rappresentativa e prepariamo il passaggio verso forme sempre più invasive di democrazia diretta.

È quanto sta avvenendo, in realtà non da oggi ma già da vent’anni: la televisione, i sondaggi, i social network e l’associazione tra tv e social hanno sempre più compresso il tempo della sedimentazione del giudizio. Oggi non c’è la possibilità di prendere una decisione impopolare, perché immediatamente un sondaggio di Ballarò ti penalizza, la tua base reclama, i tuoi avversari interni cercano di sfruttare la situazione.

Il mestiere del politico così cambia radicalmente. Oggi rischia di divenire normale il comportamento insito in una risposta “geniale” che, nell’immediato dopo-guerra, un parlamentare democristiano diede a chi gli rimproverava di essere stato prima giolittiano, poi fascista e poi democristiano: “ma mica sono io che ho cambiato idea. Sono stati i miei elettori che l’hanno mutata e io mi sono semplicemente adeguato”.

 

Bisogna quindi risolvere il problema degli spazi senza lasciarsi troppo influenzare dalla compressione del tempo.

Si pone, dunque, un problema di “riformattazione” dello spazio politico e un problema di ricerca del tempo perduto. Se la politica vuole tornare ad essere una risorsa, deve sciogliere insieme questi due nodi.

Al tempo dell’unità d’Italia la politica fu una risorsa, perché stando agli elementi di fatto, l’Italia unita non si sarebbe dovuta realizzare. All’epoca della ricostruzione post-bellica, la politica fu ancora una risorsa per l’Italia, perché senza di essa non vi sarebbe stato il grande boom e il definitivo passaggio alla fase industriale. Al tempo del terrorismo lo fu ancora una volta.

Gli esempi citati pongono l’accento innanzi tutto sull’importanza degli uomini. Oggi, però, l’opera degli uomini non basta. Quella dei corpi collettivi latita. C’è un problema di istituzioni: riusciremo a “formattare” lo spazio politico e a ritrovare un tempo all’intervento della politica solo attraverso una profonda riforma delle nostre istituzioni.

 

Conclusioni.

Torniamo alle riforme. Innanzitutto non sprechiamo quell’avvicinamento che c’è stato, all’inizio di questa legislatura, tra visione e azione politica. Io credo che il fatto di aver creato un contatto e persino una comunicazione tra le parti contrapposte del microcosmo dei costituzionalisti – scuole che si erano parlate a lungo solo attraverso gli editoriali dei giornali, di giornali ovviamente antagonisti, senza mai ritrovarsi allo stesso tavolo -, sia stata una conquista che non andrebbe sprecata come invece sta avvenendo.

Il fatto poi che in sede politica, con il cosiddetto “patto del Nazareno”, si fosse allargata la platea di coloro i quali erano disposti a sedersi al tavolo delle riforme, ha avuto da parte nostra un’accoglienza positiva anche quando quel processo rischiava di metterci in ombra. Oggi che quella conquista sembra essere andata dispersa, è ancora più importante che la maggioranza abbia una sua proposta, una sua visione complessiva e una capacità di narrazione.

Non possiamo considerare la riforma del Titolo V, quella del Senato e quella della legge elettorale come fossero tre capitoli diversi di tre libri a loro volta differenti. Dobbiamo ammettere che, per loro tramite, cambia anche la forma di governo e spiegare come, attraverso questo nuovo impianto complessivo, si possa riguadagnare uno spazio e un tempo all’iniziativa politica.

Affrontiamo poi senza paura il tema dei bilanciamenti che ogni impianto complessivo naturalmente porta con sé. Ciò servirebbe, tra l’altro, a non farsi inseguire dallo spettro della deriva plebiscitaria. Solo se si prende atto che le condizioni sociali e tecnologiche sono cambiate si “regola” il problema del crescente peso del carisma senza che esso debordi in “strapotere” personale. Lo comprese per primo, tanti anni fa, Max Weber. E quanto sta avvenendo con la “successione” tra Berlusconi e Renzi gli dà ancora una volta ragione.

Infine, last but not least, se riusciamo a recuperare questa capacità di visione sul terreno dello Stato, sforziamoci di trasferire qualcosa di essa nei partiti, ognuno all’interno della propria comunità di riferimento. Ne hanno un disperato bisogno.