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Caro Direttore,
poche righe per alcune precisazioni fattuali e un’affermazione di principio in merito al sempreverde tema delle fondazioni facenti capo a personaggi politici e della trasparenza relativa ai loro finanziamenti (e non solo).

Iniziamo dalle precisazioni.

Uno: la fondazione Magna Carta che ho l’onore di presiedere, a differenza di altre e come correttamente riportato dall’articolo di Paolo Biondani e Lorenzo Bagnoli, pubblica i suoi bilanci e risponde positivamente a ogni richiesta di consultazione degli stessi avanzata sia direttamente che tramite gli uffici della Prefettura dove la documentazione prevista dalla legge è regolarmente depositata. Ogni ulteriore informazione la cui divulgazione sia consentita dalla normativa sulla privacy (alla quale Magna Carta, come tutti, è suo malgrado assoggettata) è ed è sempre stata a disposizione di chiunque ne abbia fatto richiesta: articoli giornalistici, ricerche e pubblicazioni di varia natura sono lì a dimostrarlo.

Due: non è affatto vero che “i politici non ci hanno messo un soldo”. In un Paese nel quale l’autofinanziamento fatica a diventare di moda, oltre a prestare il proprio impegno in molte iniziative, i “politici” sostengono l’attività di Magna Carta con erogazioni nell’ordine di decine di migliaia di euro l’anno. In questo caso, se i nomi dei finanziatori non vengono sbandierati è per non trasformare una donazione in un atto di esibizionismo.
Tre: non abbiamo sede in un “prestigioso palazzo” di piazza San Lorenzo in Lucina ma in un seminterrato di via Simeto, quartiere Salario. I giornalisti dell’Espresso sono i benvenuti se desidereranno venire a constatare di persona cosa si fa a Magna Carta e come vengono impiegate le erogazioni liberali di chi, nonostante la crisi e le campagne contrarie, continua eroicamente a contribuire alle attività di una fondazione culturale.
Veniamo ora all’affermazione di principio, che è un po’ uno sfogo e anche una notizia.

Magna Carta sta lavorando a una proposta di legge che prescriva meccanismi di controllo e trasparenza, approdi all’istituzione di un registro delle fondazioni e introduca finalmente quella linea di demarcazione dalla cui assenza derivano le parole di Raffaele Cantone e la perenne attualità delle inchieste giornalistiche sui cosiddetti “pensatoi” e su chi li finanzia: la linea di demarcazione tra le fondazioni che lavorano, che producono ricerca, che realizzano cultura, e le scatole vuote che servono solo a drenare finanziamenti a beneficio (nel migliore dei casi!) dell’attività politica dei loro “dominus”. Perché se il discredito finisce per investire anche le prime, è a queste ultime che va attribuita la responsabilità.

Accanto a una trasparenza che per primi riteniamo doverosa, questo vorrei che si chiedesse a Magna Carta: cosa fate dei (pochi) soldi che annualmente confluiscono nelle vostre casse? Saremmo ben lieti di mostrare la biblioteca che abbiamo costruito, di illustrare le centinaia di pubblicazioni scientifiche che abbiamo prodotto, di raccontare l’esperienza ormai decennale delle scuole di formazione per i giovani, degli incontri tra credenti e non credenti, dei tavoli transatlantici, dei seminari accademici, degli incontri di studio e divulgazione, di una fervente attività che anche chi non la pensa come noi ci riconosce e che ha reso negli anni Magna Carta un marchio di qualità.

Potrà dunque comprendere, caro Direttore, che siamo noi i primi a invocare rigore e a indignarci di fronte al proliferare di sigle dietro le quali c’è solo un conto corrente attraverso cui raccogliere denaro. In un panorama del genere, c’è da stupirsi che vi sia ancora chi ha voglia di investire tempo, risorse ed energia nelle attività di una fondazione culturale. A nessuno come a Magna Carta sta a cuore una legge che faccia pulizia delle scatole vuote affinché il contributo alla crescita culturale del nostro Paese, che passa anche dalle fondazioni (quelle vere), torni a essere un motivo di vanto e non atto clandestino da dover nascondere per non finire, a torto o a ragione, travolti dall’ignominia.

 

Gaetano Quagliariello

 

 

 

L’articolo pubblicato su L’Espresso