Se le classi politiche e dirigenti dei paesi dell’Unione europea avessero voluto dare un segnale il più eloquente possibile della siderale distanza che ormai le separa dalle idee e dai sentimenti di gran parte della popolazione del continente, non avrebbero potuto fare scelta migliore della duplice votazione espressa ieri dal Parlamento europeo, sull’avvio del procedimento per le sanzioni contro l’Ungheria e sulla direttiva a proposito dell’applicazione del copyright alla circolazione dei contenuti sul web.
Da un lato, è stato infatti messo sul banco degli accusati un paese membro soltanto perché ha deciso di mettere con decisione al primo posto la sicurezza dei propri cittadini e di non seguire la maggioranza dell’Unione sull’irresponsabile linea di sottovalutazione, lassismo, arrendevolezza rispetto alla sempre più preoccupante deriva dell’immigrazione selvaggia, e rispetto al moralismo “politically correct” che, ormai lo si è visto chiaramente in più occasioni, mentre devasta l’identità delle società nasconde ben concreti interessi economici parassitari. Dall’altro, si cerca di soffocare (per motivi di interesse corporativo ma anche per smania di controllo) con limitazioni, aggravi fiscali, filtri, censure un mondo magmatico, come quello dell’informazione e della dialettica civile attraverso la rete e i social networks, che in nessun modo può essere uniformato al sistema dei media tradizionali senza essere irrimediabilmente azzoppato.
Se per il presidente della Commissione Junker l’Europa “non sarà mai una fortezza”, visti insieme nella loro “provvidenziale” contemporaneità, i due provvedimenti non fanno altro che rafforzare ulteriormente l’immagine della Ue come una enorme gabbia di costrizioni, di censure, di obblighi irrazionali, e contemporaneamente come un’oligarchia di politici e funzionari lontanissimi dalle autentiche preoccupazioni della gente comune: un’immagine già sedimentata in anni e decenni di regolamentazioni pletoriche ed astruse, di astratte dittature di finanza pubblica indifferenti a qualsiasi esigenza di crescita, di una politica estera comune (se così pietosamente si può chiamare) prona verso dittatori e tiranni di ogni risma ma incapace di grandi alleanze in nome della difesa dei princìpi liberaldemocratici e della sicurezza comune. Con decisioni del tenore di quelle viste in questa circostanza la credibilità e la rappresentatività delle istituzioni comunitarie toccano un fondo dal quale sarà difficile (anche se non impossibile, visti i precedenti avvilenti) continuare a scavare.
Ieri, nel Parlamento europeo, è stato simbolicamente guadato un Rubicone, dando inizio ad un conflitto di cui non è possibile prevedere né la conclusione né l’esito, ma che rischia ormai concretamente di condurre alla disgregazione l’intero processo di integrazione europea così come era stato concepito e pazientemente costruito dai leader democratici continentali nel secondo dopoguerra. Ora le élites europee si sono ufficialmente saldate in un fronte compatto, in gran parte trasversale ai gruppi politico-partitici e alle radici ideologiche, rinserrandosi in una fortezza a difesa di ciò che rimane dello status quo che per decenni ha costituito la base del loro potere, ed illudendosi di frenare così le richieste di cambiamento, di ridiscussione dei fondamenti dell’Unione, che vengono ormai da ogni parte.
Ma sia la conformazione degli schieramenti formatisi in aula che i prevedibili echi delle votazioni nelle opinioni pubbliche continentali lasciano intendere che questo tentativo di arroccamento potrebbe rivelarsi ben presto un boomerang. La polarizzazione emersa nel Parlamento europeo contribuisce infatti a prefigurare ormai sempre più nitidamente un quadro politico che tra non molto (attraverso la tappa fondamentale delle elezioni europee del 2019) potrebbe ridisegnarsi secondo forme nuove: da un lato una innaturale coalizione tra socialisti, liberali e una parte dei popolari europei intorno ad un anacronistico progetto di ulteriore accentramento elitario del potere dell’Unione; dall’altra una convergenza tra i popolari moderati, i conservatori, i sovranisti e altri gruppi “populisti” in favore di un autentico nuovo processo costituente, ispirato ad una chiara opzione confederalista, con netta distinzione tra gli ambiti delle sovranità nazionali e quelli affidati ad organismi comunitari, ed in grado di liberare finalmente – si spera – le tante energie politiche, sociali, economiche attualmente compresse dalla camicia di forza di un potere sempre più obsoleto e decadente.