Dall’Huffington Post
A giudicare dalla diffusa indifferenza che ha accolto il pronunciamento della Corte Costituzionale sull’eutanasia, passato come una meteora e subito scomparso dal dibattito pubblico, l’impressione è che non se ne sia compresa la reale portata. E forse l’obbiettivo era proprio questo. La Consulta, infatti, ha accompagnato il deposito della decisione con un comunicato lungo, verboso e di difficile decifrazione, quando invece per sintetizzare la clamorosa ordinanza sarebbero bastate poche righe di tutt’altro tenore.
A dire come stanno le cose, liberi dalla costrizione di un linguaggio felpato e leguleio, ci proviamo dunque noi. In sostanza, brutalizzando, la Corte Costituzionale ha detto al Parlamento: “Già con la legge sul testamento biologico approvata nella scorsa legislatura, che consente la sospensione di alimentazione e idratazione ai malati e ai disabili considerandole alla stregua di terapie, avete di fatto introdotto l’eutanasia passiva nell’ordinamento. Poiché però si deve anche poter scegliere una strada più immediata, fate entro un anno una legge che legalizzi l’eutanasia attiva, ovvero la somministrazione diretta, da parte di una terza persona, di una sostanza letale che sopprima chi ne faccia richiesta ma a causa delle sue condizioni fisiche non sia in grado di provvedere da solo. Pensateci voi, altrimenti scaduto il termine troviamo il modo di occuparcene noi”.
Nel merito, dico subito come la penso. Trovo che si tratti di qualcosa di sconcertante. Mai avrei immaginato di dover leggere un giorno un’ordinanza della Corte Costituzionale che sostanzialmente dà un ultimatum al legislatore affinché sia consentito in Italia sopprimere un altro essere umano, ancorché consenziente. Avevamo detto che la pessima legge sul testamento biologico varata sul finire della scorsa legislatura avrebbe aperto un varco per l’eutanasia nel nostro Paese, ed è di assai poca consolazione constatare, per bocca della Consulta, di aver avuto ragione.
Ciò che penso è che si debba avere il massimo rispetto per la sofferenza e per la libertà delle persone. Ma, da liberale, ritengo che l’eutanasia rappresenti in radice la negazione della libertà propria e degli altri. Quando poi si pretende che tale negazione di libertà si trasformi in diritto positivo, imboccando una strada che conduce dritta dritta all’obbligo in capo allo Stato di somministrare attivamente la morte, magari negando persino il diritto all’obiezione di coscienza come avvenuto con la legge sul biotestamento, l’arretramento sul fronte della nostra civiltà si fa drammatico.
Ciò su cui vorrei qui soffermarmi, tuttavia, non è la mia opinione sull’eutanasia. C’è infatti una deriva più generale, che si va affermando come un fiume carsico, che entra strisciando dall’ingresso laterale, che penetra nelle nostre vite e nella nostra società seguendo percorsi tortuosi sottratti alla diretta percezione. Personalmente l’ho definita la via ipocrito-giudiziaria al mutamento della nostra civiltà.
Cosa sta accadendo? E’ presto detto, e qualche esempio ci aiuterà a capirlo.
Sul piano del dibattito legislativo, l’utero in affitto è ufficialmente un tabù. Nonostante i tentativi di legittimarlo per vie traverse, nonostante l’ipocrisia di chi parla di “genitori omosessuali” ma poi non spiega come questa genitorialità dovrebbe materialmente realizzarsi, nonostante le reazioni isteriche e censorie rispetto a campagne di comunicazione sul tema, difficilmente si troverà qualche politico che dica apertamente “ok, consentiamo per legge di scegliere gli ovuli da un catalogo, affittare l’utero di una donna povera e generare bambini scientemente privati di una mamma e della conoscenza delle proprie origini”. Apertamente non lo si dice, però si infila nella legge Cirinnà un comma – il famigerato comma 20 – che incoraggia sentenze creative che di fatto avallano questa barbarie se compiuta al di fuori dei nostri confini e lontano dai nostri occhi.
E ancora. Al di là di pochi militanti ai quali quantomeno va riconosciuto il pregio della chiarezza, difficilmente si troveranno legislatori disponibili a schierarsi apertis verbis per l’eutanasia attiva. Poi però si approva una legge che consente di sospendere la somministrazione di acqua e cibo come se si trattasse di rinunciare a una terapia, ben sapendo che si tratta di eutanasia passiva (come la Corte Costituzionale ha di fatto riconosciuto) e che dall’eutanasia passiva all’avvelenamento di Stato il passo è breve.
Vi sono stati, in stagioni diverse della storia del nostro Paese, altri passaggi che hanno segnato una cesura nell’idea di persona, di libertà e di responsabilità. Basti pensare a quanto dirompente sia stata la legge sull’aborto, e prima ancora quale lacerante cambio di paradigma si sia determinato al tempo della legge sul divorzio, o più recentemente quale intenso dibattito pubblico abbia suscitato la normativa sulla procreazione assistita. Ma, al di là dei diversi esiti, si è trattato di passaggi vissuti a viso aperto, consapevolmente, da una parte e dall’altra della “barricata”.
Oggi sta accadendo qualcosa di più preoccupante. Si stanno modificando alla radice i fondamenti della nostra civiltà – l’origine, la genitorialità, la vita, la libertà, la responsabilità – senza neppure prendersi il disturbo di chiamare le cose con il loro nome.
Il tema va anche al di là del merito delle singole questioni. A me pare qualcosa di intrinsecamente sbagliato in quanto contrario alla natura dell’uomo e al fondamento della propria e altrui libertà, ma so benissimo che ad altre persone la pianificazione del fine vita o la genitorialità “liquida” possono apparire qualcosa di normale e addirittura di desiderabile. Quel che a tutti dovrebbe sembrare sconcertante è che simili deformazioni del nostro tessuto antropologico possano consumarsi per oscure e oblique vie giudiziarie, senza una diffusa consapevolezza e senza neanche assumersene l’aperta responsabilità.
Rischiamo, insomma, di trovarci un giorno l’eutanasia e l’utero in affitto senza neanche la possibilità di rendercene conto, senza sapere come e perché. Per chi pensa che sia un male, sarebbe un nuovo trionfo della sua banalità.