La democrazia rappresentativa è in crisi. Non è la prima volta e non è la prima volta che viene data per spacciata. E’ già successo agli esordi dello scorso secolo, quando i Parlamenti hanno dovuto affrontare la sfida proveniente dalla nascita di partiti organizzati sul territorio e, per questo, “extra-parlamentari”; è accaduto dopo la Grande Guerra, quando l’assolutismo pareva essere l’unica soluzione in grado di domare il conflitto sociale e assicurare modernità; è accaduto dopo il secondo conflittomondiale, di fronte alla vampata di assemblearismo che pareva influenzare le istituzionidi molti Paesi dell’Occidente.
Ogni volta, però, le istituzioni rappresentative hanno saputo adattarsi, modificarsi e sopravanzare la crisi. Fino ad oggi hanno sempre vinto coloro i quali hanno inteso riformare la rappresentanza per adeguarla ai tempi e non coloro che hanno pensato di ucciderla per superarla.
La crisi attuale a me pare più profonda di quelle passate, per due ragioni che attentano adaltrettanti pilastri sui quali si fonda la rappresentanza.
Il primo ha a che fare con i tempi della politica. La rappresentanza non può prescindere da un tempo di sedimentazione del giudizio politico. Nella teoria rappresentativa, infatti, l’elezione è essenzialmente una designazione di capacità, che non implica in capo al prescelto l’obbligo di seguire obbligatoriamente e meccanicamente le opinioni di quanti hanno operato la designazione. Di qui il divieto di mandato imperativo. Di qui il tempo necessario, tra un’elezione e l’altra, per far sedimentare un giudizio sulle scelte effettuate dall’eletto e quindi confermargli il mandato ovvero revocarglielo negandogli il voto.
La disponibilità di questo tempo di sedimentazione appariva scontata al tempo della nascita del parlamentarismo. Si è progressivamente ristretta per il ruolo svolto da mezzi di comunicazione di massa sempre più interattivi che hanno progressivamente ridotto la distanza tra “rappresentati” e “rappresentanti”. Si è pressoché annullata a causa dei sondaggi, degli strumenti per diffonderli in presa quasi diretta. Oggi poi, con la rete e i social network, il giudizio viene espresso praticamente in tempo reale.
La seconda ragione della crisi riguarda la possibilità di apprezzare la competenza altrui. La democrazia rappresentativa presuppone l’auto-contenimento: si designa una capacità solo se non ci si considera onniscienti; se si ritiene che, in determinate materie, c’è chi ne sa più di te e, soprattutto, che ci sia bisogno di chi abbia tempo per studiare e approfondire. Se su ogni argomento – dai vaccini alla politica estera – “uno vale uno” perché tutti sanno tutto e ogni opinione vale quanto un’altra, che bisogno c’è di qualcuno che mi rappresenti perché più capace e perché gli si conferisce l’incarico di scavare in argomenti ostici e non scontati?
Quella che Giovanni Orsina ha efficacemente denominato “la democrazia del narcisismo” non prevede, però, auto-contenimento. Sempre di più tutti ritengono di sapere tutto di ogni cosa e, attraverso la rete, di poter esprimere il proprio parere, contarsi e consentire che la volontà generale si manifesti, senza bisogno né di rappresentanti né di rappresentanza.
Di fronte a questa deriva ci sono solo due atteggiamenti razionali: arrendersi o tentare di governare il fenomeno evitando che esso porti ad esiti totalitari. Si può, insomma, ritenere che la “volontà generale” di roussoviana memoria abbia vinto ovvero ritenere che, poiché essa risulta intrinsecamente illiberale, sia necessario trovare i modi per rendere più forte, immediata, pregnante la “sovranità popolare” che, a differenza della “volontà generale”, sfugge alla presunzione fatale; non avanza pretese totalizzanti e anche per questo prevede una maggioranza e una minoranza; implica delle regole che si esplicano nel perimetro della democrazia rappresentativa e non solo sopporta ma addirittura reclama dei contrappesi.
Se ci si arrende, si accetterà il referendum propositivo senza batter ciglio e senza chiedersi quale correlazione la sua approvazione possa avere con i vigenti strumenti della democrazia parlamentare; se si proverà a governare il fenomeno bisognerà partire da un quesito: a quali condizioni il referendum propositivo è compatibile o, addirittura, utile a integrare la democrazia rappresentativa?
Per tentare di dare una risposta avanziamo subito una considerazione che concerne tutti gli istituti di partecipazione popolare: essi sono senz’altro opportuni e, in questa fase storica, persino necessari al fine di rafforzare il collegamento tra la società civile e le istituzioni politiche. A condizione però che la democrazia diretta resti un utile correttivo della democrazia indiretta, senza proporsi di surrogarla. Se così non fosse, si riterrebbe superfluo che vi sia chi venga delegato ad acquisireconoscenze e competenze non scontate e, soprattutto, che vi siano regole che consentano, su innumerevoli questioni, di bilanciare e mediare tra diversi principi e differenti interessi in gioco.
Se la condizione vale per tutti gli strumenti di democrazia diretta, farla rispettare dal referendum propositivo è particolarmente arduo e non scontato. Marco Pannella, che di referendum se ne intendeva e che nel corso della sua vita politica ne ha fatto uso e abuso, in una intervista rilasciata allo scadere del passato millennio coglie perfettamente il punto, evidenziando perché il referendum abrogativo sia enormemente più compatibile non solo con i precetti della rappresentanza ma anche con l’assetto di poteri disegnato dalla nostra Carta Costituzionale: “(…) il costituente ha una visione profetica: questa intuizione di dare al popolo italiano due schede, una per eleggere il proprio rappresentante e una per annullare le leggi che non vanno (tenendo presente che le leggi sono espressione dei poteri legali ma anche dei “poteri forti”), avrebbe potuto determinare una nuova formula di democrazia partecipativa che innova i tradizionali canoni della rappresentanza”. Mentre, sempre per il leader radicale, “il referendum deliberativo, propositivo, nel mondo della comunicazione che cominciava a nascere esponeva al rischio del potere plebiscitario e diveniva forza aggiunta per chi ha il potere. Cioè il referendum classico da arma della gente contro il potere può trasformarsi in uno strumento di chi ha il potere per superare un blocco o una ostruzione del potere legislativo”.
Nonostante queste criticità, se è vero quanto affermato all’inizio sulla profondità e la natura strutturale della crisi che ha colpito gli istituti della rappresentanza, per risalire la china è necessario correre dei rischi. E tra le altre riforme che possono rigenerare la politica e il Parlamento – non certo al primo posto e avulso da ogni contesto – oggi c’è anche il referendum propositivo. Per questo, la Commissione degli espertiche ebbi l’onore di presiedere in qualità di Ministro delle Riforme, prese in considerazione questo istitutoe lo contemplò nel testo della relazione finale. Fissando però dei paletti, senza i quali il referendum propositivo inevitabilmente tracima, sommergendo il Parlamento e producendo il divorzio tra liberalismo e democrazia. E, la storia ce lo ha insegnato, senza il controllo che le istituzioni forgiate dal pensiero liberale permettono, la democrazia si esaspera producendo esiti totalitari.
Ma quali sono questi paletti che il referendum propositivo non può travalicare se vuol essere linfa e stimolo del sistema istituzionale immaginato dalla Costituzione e non ne intenda scardinare i presupposti? Ne propongo, di seguito, un ordinato elenco.
1) Occorre, in primo luogo, fissare precisi limiti di materia. La legge di modifica dell’articolo 71 della Costituzione approvata dalla Camera dei Deputati, a tal proposito, prevede solamente che “il referendum non è ammissibile se la proposta non rispetta la Costituzione”: un argine certamente necessario ma assolutamente insufficiente se costruito con espressioni come questa, oltretutto ben poco adatte a un testo costituzionale. Si pensi che, in tal modo, non sono neppure previsti i imiti di materia vigenti per il referendum abrogativo (che, lo si ricorda per inciso, non può essere ammesso per “le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”).E questa assenza potrebbe produrre un paradosso costituzionale in quanto un’iniziativa legislativa ai sensi del nuovo articolo 71 Cost. che fosse meramente abrogativa di norme, sfocerebbe in un referendum nominalmente proposito (ma di fatto abrogativo) su materie per le quali l’articolo 75 della Costituzione non lo consente! Sarebbe opportuno che la riforma non incoraggi alcun paradosso e che, per questo, non si consenta al 71 ciò che è interdetto al 75. Bisognerebbe, inoltre, che l’inammissibilitàvalga anche per le iniziative che riguardino norme relative alla legislazione penale e di procedura penale e i diritti delle minoranze (diritti, questi ultimi, evidentemente non sottoponibili ad una scelta maggioritaria neppure se compiuta direttamente dal popolo!).
2) Per la sua rilevanza, il tema del divieto da opporre a proposte di legge di spesa che non rispettano i limiti di finanza pubblica, merita una sottolineatura autonoma. Al di là di ogni considerazione di principio, la situazione del nostro debito pubblico impedisce che ci si possa accontentare della formula adottata nel testo approvato alla Camera dei Deputati, che stabilisce che il referendum non sia ammissibile se la proposta “non provvede ai mezzi per far fronte ai nuovi e maggiori oneri che essa importi”, perché con tale formulazione sarebbero ammissibili anche referendum volti a riscrivere in modo surrettizio la legge di bilancio, la cui approvazione spetta al Parlamento e il cui potere di iniziativa – va sottolineato – è riservato, per Costituzione, solo al Governo. Al riguardo, potrebbe essere adottata la formula proposta dalla Relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali istituita dal governo Letta per la quale l’iniziativa popolare “potrebbe svolgersi nei limiti entro i quali è ammesso il referendum abrogativo e sempre che non incida né sulle spese né sulle entrate pubbliche”. Il che non significa “zero spese” ma che le proposte non siano volte, primariamente, a recare oneri finanziari significativi o, come detto, a realizzare scelte alternative rispetto alle decisioni assunte dal Parlamento al momento dell’approvazione della legge di bilancio.
3) Altra questione dirimente: il limite numerico dei referendum propositivi che possono essere presentati nel corso di una legislatura. Non saràdifficile arguire, infatti, che se le proposte di iniziativa popolare fossero decine (o addirittura centinaia) esse egemonizzerebbero l’agenda dei lavori parlamentari. La proposta approvata prevede che sia una legge di attuazione della riforma costituzionale a disciplinare anche “il loro numero massimo”. A me pare che, per la sua rilevanza, questo aspetto debba essere inserito nel dettato costituzionale.
4) Veniamo così ad affrontare il nodo fondamentale della questione: il rapporto tra iniziativa popolare e la funzione legislativa delle Camere. Da come si dipana questo nodo, infatti, dipende il fatto che l’introduzione del referendum propositivo determini l’integrazione ovvero la contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa.
Nulla quaestio sul fatto che la proposta di iniziativa popolare debba essere sottoposta al corpo elettorale in caso di rigetto o di inerzia del legislatore parlamentare per un determinato periodo di tempo (nella proposta approvata si prevedono diciotto mesi).
Più complessa è la questione in caso di approvazione da parte delle Camere di una legge sulla stessa materia. La proposta di riforma costituzionale prevede che “se le Camere approvano [la proposta di iniziativa popolare] con modifiche non meramente formali il referendum è indetto sulla proposta presentata”. Se tale disposizione non cambierà, la funzione e il ruolo del Parlamento ne usciranno pesantemente compromessi. Per comprenderne le ragioni basterà riandare alla disciplina vigente per il referendum abrogativo, frutto della giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 68/1978 allorché la Corte riconobbe il Comitato promotore come potere dello Stato, abilitato a sollevare conflitti di attribuzione). La Corte stabilì allora che non sono sufficienti modifiche meramente formali o di dettaglio per non dare più corso al referendum abrogativo, ma che a tal fine è necessario che il Parlamento modifichi in modo sostanziale i principi ispiratori o i contenuti normativi essenziali della normativa soggetta a referendum abrogativo. Tale giurisprudenza è stata promossa proprio al fine di salvaguardare il necessario ruolo di mediazione del Parlamento e non si comprende per quali ragioni essa non dovrebbe valere anche per il referendum propositivo. Se s’intende evitare il rischio di manovre e aggiramenti dell’iniziativa popolare, basterebbe precisare che per evitare lo svolgimento del referendum propositivo la legge parlamentare deve avere comunanza di indirizzi rispetto alla proposta popolare (mentre per il referendum abrogativo la giurisprudenza della Corte prevede che la legge del Parlamento è idonea a superare il voto popolare se le modifiche seguono indirizzi sostanzialmente diversi rispetto alla normativa vigente ma, al limite, anche in direzione opposta rispetto a quelli dell’iniziativa popolare).
Nella problematica “rapporto tra iniziativa popolare e iniziativa parlamentare” s’inscrive un’altra questione fin qui sottaciuta: evitare che l’iniziativa popolare finisca per impedire al Parlamento di legiferare per diciotto mesi sulle materie oggetto dell’iniziativa popolare, se non approvando la proposta popolare. Come è facile intuire, senza questa assicurazione, coloro i quali si proponessero di paralizzare i lavori parlamentari godrebbero di armi efficaci.
La proposta di riforma costituzionale prevede, infatti, che la legge approvata dal Parlamento – se diversa dalla proposta popolare – non è promulgata se non dopo lo svolgimento con esito negativo del referendum. In presenza di tale disposizione, bisognerebbe quantomeno prevedere che alla proposta di legge di iniziativa popolare non venga collegato in sede parlamentare l’esame non solo delle leggi di conversione dei decreti legge che riguardano la stessa materia (le quali, dopo l’approvazione delle Camere, non possono certamente attendere la celebrazione del referendum per essere promulgate) ma anche l’esame delle altre proposte d’origine parlamentaree governativa, in modo che queste seguano il loro corso, senza essere vincolate dall’iter della proposta popolare. Anche in questo caso, per la rilevanza della problematica, a me non pare sufficiente lasciare che tale disciplina sia rimessa alla sola legge di attuazione e/o ai regolamenti parlamentari.Altrimenti, come esempio limite, in presenza di pochissime leggi di iniziativa popolare su materie fondamentali (come fisco, previdenza e pubblica amministrazione), la stessa manovra economico-finanziaria sarebbe costretta o a recepire le proposte popolari (salvo modifiche di mero dettaglio) oppure a rimanere di fatto congelata (in particolare per quanto riguarda i disegni di legge collegati attuativi della decisione di bilancio), in attesa che si celebrino i referendum propositivi ai quali sarebbe di fatto demandato se debba essere promulgata la manovra del popolo o quella approvata dalle Camere!
5)Un problema solo apparentemente minore si pone anche per quel che concerne la formulazione del quesito referendario e la scheda di votazione. Come si è detto, nel caso in cui le Camere approvino la proposta di iniziativa popolare con modifiche non meramente formali, si prevede che “il referendum è indetto sulla proposta presentata” e che la proposta approvata dalle Camere sia congelata, “sottoposta alla promulgazione se quella soggetta a referendum non è approvata”. Si arguisce dunque, come d’altro canto è ovvio, che alla fine una sola tra le due proposte venga approvata (quella popolare se il referendum ha esito positivo, quella parlamentare in caso contrario). Sulla scheda elettorale, però, l’elettore troverà la sola proposta popolare, mentre quella parlamentare viene chiusa in un cassetto, formalmente sottratta alla scelta degli elettori. Ci si chiede: se si stabilisce una “competizione di fatto” tra le due proposte, perché non riportarle entrambe sulla scheda e consentire all’elettore di scegliere la più convincente? Solo in questo caso si stabilirebbe una effettiva par condicio tra iniziativa parlamentare e iniziativa popolare, quando queste vengano a divergere.
6) Per quel che concerne il quorum, ne è stato previsto uno di approvazione (non di partecipazione), per il quale la proposta sottoposta a referendum è approvata se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi, purché superiore a un quarto degli aventi diritto al voto (cioè circa 12,5 milioni di elettori). In tal modo coloro che intendono opporsi devono prevalere nel voto, senza poter sommare all’astensionismo c.d. fisiologico quello frutto di una scelta deliberata, al fine di invalidare il referendum, come spesso avvenuto per i referendum abrogativi. Questa soluzione appare soddisfacente, anche perché la proposta di riforma costituzionale introduce lo stesso quorum di approvazione anche per i referendum abrogativi. In alternativa, si potrebbe optare per un quorum di partecipazione più basso dell’attuale, cioè pari alla metà dei votanti nelle elezioni per la Camera dei deputati immediatamente precedenti la data dello svolgimento del referendum stesso, come proposto dalla già citata Relazione finale della Commissione per le riforme istituita dal governo Letta.
7) Infine, la questione del numero di firme necessarie per attivare l’iniziativa popolare e il referendum propositivo, questione connessa con quella dell’eventuale utilizzazione della tecnologia digitale per la raccolta delle firme e con quella dei limiti numerici dei referendum proponibili. Il numero di 500mila sottoscrizioni appare risibile ai fini dell’attivazione di un istituto dall’impatto così dirompente come quello che potrebbe produrre il referendum propositivo. Si tenga conto, a tal proposito, che il numero di 500mila sottoscrizioni per il referendum abrogativo fu fissato in un’epoca nella quale le possibilità di far conoscere la proposta e, soprattutto, quelle di raccogliere materialmente le sottoscrizioni risultavano enormemente minori rispetto ai giorni d’oggi. E’ perciò ragionevole che il numero di firme necessarie venga di molto elevato.
Fin qui le questioni di merito, al netto di ulteriori problemi che ancor più incidono sull’equilibrio costituzionale (come il ruolo della Consulta e i poteri del Presidente della Repubblica, considerati sia autonomamente che in correlazione tra loro) e che, per la evidente rilevanza, meritano una trattazione a parte.
Va dato atto alla maggioranza di non aver avuto finora un atteggiamento intransigente e ostile alle proposte di miglioramento, anche se quelle per il momento accolte non appaiono risolutive dei nodi evidenziati. E’ anche per questo che l’analisi qui prodotta rappresenta innanzi tutto un tentativo di dialogo nel merito.
Questo atteggiamento, d’altro canto, non intende celare come il vero dilemma si ponga a valle di ogni tentativo di miglioramento della riforma: con essa vi è la volontà d’integrare e rendere più efficace la democrazia rappresentativa ovvero proporne un’alternativa sostanziale, rendendo il Parlamento un simulacro svuotato di gran parte dei suoi poteri?
Se questo dilemma non viene chiarito, appare evidente che anche il formale accoglimento di qualche modifica rappresenterà solo un’apparente apertura alle ragioni dell’opposizione, che proverà a nascondere sotto un velo d’ipocrisia gli effettivi intendimenti della riforma.