Lo scorso 4 giugno, la Fondazione Magna Carta un convegno in occasione del centenario dello storico appello di don Luigi Sturzo. Quello dedicato ai “Liberi e Forti”. Di seguito, pubblichiamo l’intervento del noto vaticanista Sandro Magister, che si è soffermato sulla differenza che intercorre tra la visione di Benedetto XVI e quella di Papa Francesco
Di politica Joseph Ratzinger ha scritto e detto molto, da teologo, da vescovo, da papa. Ma per cogliere la sua visione d’insieme basta ripercorrere il discorso che tenne il 22 settembre 2011 al Bundestag di Berlino, nell’ultimo dei suoi viaggi in Germania.
Esordì citando la preghiera del giovane re Salomone nel giorno della sua salita al trono, quando non chiese a Dio successo o ricchezza ma “un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1 Re 3, 9). Una richiesta che è “la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi”.
Poi Benedetto XVI riassunse così, nella storia, il ruolo svolto dal cristianesimo in tale questione:
“Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei diritti umani”.
Ma oggi, proseguì, tale costruzione è andata in frantumi:
“Nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione”, di cui Hans Kelsen è stato grande teorizzatore. Si è imposta una “concezione positivista di natura”, da cui “non può derivare alcuna indicazione che sia di carattere etico” e in cui “le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco”. Col risultato che ci si ritrova a vivere come in “edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio”.
A questo esito non ci si deve però rassegnare: “Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto”. Con un cammino di ricostruzione che Benedetto XVI descrisse così, con un rimando a sorpresa all’ecologia:
“Direi che la comparsa del movimento ecologico a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare perché vi si intravede troppa irrazionalità. […] Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – viene trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.
Da qui la domanda finale: “È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un ‘Creator Spiritus’?”.
Difficile, se non impossibile, ritrovare anche solo qualche spunto della visione di Ratzinger nell’idea di politica che è propria di papa Francesco, nata piuttosto dalla sua esperienza di vita, a partire dal ’68 argentino:
A Buenos Aires i moti studenteschi e operai scoppiarono un po’ dopo che a Parigi o Los Angeles, nel 1969, l’anno in cui Jorge Mario Bergoglio celebrò la sua prima messa, e subito entrarono in campo le formazioni armate, i Montoneros, che nel 1970, quando egli prese i voti, sequestrarono e giustiziarono l’ex presidente Pedro Aramburu.
Precocemente nominato maestro dei novizi, l’allora trentaquattrenne Bergoglio sposò in pieno la causa del ritorno in patria di Juan Domingo Perón, in quegli anni in esilio a Madrid. Divenne la guida spirituale dei giovani peronisti della Guardia de Hierro, presenti in gran forza nell’università gesuita del Salvador. E proseguì tale militanza anche dopo che nel 1973 fu sorprendentemente nominato superiore provinciale dei gesuiti d’Argentina, nello stesso anno del ritorno in patria di Perón e della sua rielezione trionfale.
Bergoglio fu tra gli scrittori del “Modelo nacional”, il testamento politico che Perón volle lasciare dopo la sua morte. E per tutto questo si attirò l’ostilità feroce di una buona metà dei gesuiti argentini, più a sinistra di lui, specie dopo che egli cedette l’università del Salvador, messa in vendita per sanare i bilanci della Compagnia di Gesù, proprio ai suoi seguaci della Guardia de Hierro.
Fu in quegli anni che il futuro papa maturò il “mito” del popolo come protagonista della storia. Un popolo per sua natura innocente e portatore d’innocenza, un popolo con il diritto innato ad avere “tierra, techo, trabajo” e che egli vede coincidere con il “santo pueblo fiel de Dios”.
Ma oltre che dalla sua esperienza di vita, la visione politica di Bergoglio ha preso forma anche grazie all’insegnamento di un maestro, come egli ha confidato al sociologo francese Dominique Wolton nel un libro-intervista da questi curato, dal titolo “Politique et societé”, uscito nel 2017:
“C’è un pensatore che lei dovrebbe leggere: Rodolfo Kusch, un tedesco che viveva nel nordovest dell’Argentina, un bravissimo filosofo e antropologo. Lui ha fatto capire una cosa: che la parola ‘popolo’ non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta ‘del popolo’. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica”.
Autore sia di saggi di antropologia che di opere teatrali, Rodolfo Kusch (1922-1979) si ispirò alla filosofia di Heidegger per distinguere tra “essere” e “stare”, qualificando con la prima categoria la visione razionalista e dominatrice dell’uomo occidentale e con la seconda la visione dei popoli indigeni latinoamericani, in pace con la natura che li circonda e animati, appunto, da un “mito”.
Per Kusch la prima delle due visioni, quella eurocentrica, è intollerante e incapace di capire la seconda, che invece lui voleva valorizzare e alla quale dedicò i suoi studi più importanti. Anche per questo si ritrovò ai margini della cultura delle élite dominanti e trovò invece in Bergoglio un ammiratore.
Dunque, secondo Bergoglio, ”ci vuole un mito per capire il popolo”. E lui questo mito l’ha raccontato, da papa, soprattutto quando ha convocato attorno a sé i “movimenti popolari”, definizione sua. L’ha fatto finora tre volte: la prima a Roma nel 2014, la seconda in Bolivia a Santa Cruz de la Sierra nel 2015, la terza il 5 novembre 2016 di nuovo a Roma. Ogni volta infiammando l’uditorio con discorsi fiume, di una trentina di pagine ciascuno, che messi insieme formano il manifesto politico di questo papa.
I movimenti che Francesco chiama a sé non li ha creati lui, gli preesistono. Non hanno nulla di visibilmente cattolico. Sono in parte eredi delle memorabili adunate anticapitaliste e no-global di Seattle e Porto Alegre. Il papa li identifica con la moltitudine dei reietti da cui il papa vede prorompere “quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino del pianeta”.
È per questi “scartati dalla società” che Francesco preconizza un futuro fatto di terra, di casa, di lavoro per tutti. Grazie a un processo di loro ascesa al potere che “trascende i procedimenti logici della democrazia formale” (proprio così: parole testuali). Ai “movimenti popolari” il papa ha detto che è giunto il tempo di fare un salto nella politica, “per rivitalizzare e rifondare le democrazie, che stanno attraversando una vera crisi”, insomma, per rovesciare i potenti dai troni.
Le potenze contro le quali si ribella il popolo degli esclusi sono, nella visione del papa, “i sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra e così sanano i bilanci delle economie”, sono “l’economia che uccide”. È questa la sua chiave di spiegazione anche della “guerra mondiale a pezzi” e dello stesso terrorismo islamico.
Si può aggiungere che al primo incontro di Roma e a quello di Santa Cruz de la Sierra era presente, in qualità di attivista “cocalero”, il presidente della Bolivia Evo Morales, campione della sinistra populista latinoamericana.
Il quale è stato un’altra volta invitato a Roma, nell’aprile del 2016, come oratore al convegno promosso dalla pontificia accademia delle scienze nel venticinquesimo anniversario dell’enciclica sociale di Giovanni Paolo II “Centesimus annus”, assieme all’altro leader populista Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, all’economista neomalthusiano Jeffrey Sachs e al candidato democratico di estrema sinistra alle presidenziali americane Bernie Sanders.
In quella occasione papa Francesco ebbe in omaggio da Morales una lettera da parte di imprecisati esponenti dei “movimenti popolari” e tre libri sulle virtù salutari della coca, di cui lo stesso presidente boliviano è stato coltivatore. E il saluto tra i due – hanno riferito le agenzie – è stato “molto affettuoso”, tutto al contrario dell’opposizione che da anni gli fanno in patria i vescovi della Bolivia, i quali sono arrivati ad accusarlo apertamente di “far penetrare il narcotraffico nella struttura stessa dello Stato”. Col risultato che, di ritorno in Bolivia, Morales ha consigliato sprezzantemente ai vescovi di “fare apertamente un partito pro capitalista e pro imperialista”, esibendo lui invece di avere dalla sua parte il papa, che “è contento di quello che abbiamo fatto e mi ha detto: Stai sempre con il popolo”.
Ai discorsi fiume ai “movimenti popolari” si possono aggiungere quello tenuto il 27 novembre 2015 da papa Francesco ai giovani della periferia di Nairobi, anche lì con l’esaltazione della nativa “saggezza dei quartieri popolari”, come pure, nella stessa visuale, gli incessanti suoi gesti, viaggi e discorsi riguardanti i migranti.
Ma nella stessa linea va ricompreso anche il discorso rivolto da Bergoglio al summit di magistrati latinoamericani convocato in Vaticano ai primi di giugno del 2019 – un anno dopo un analogo summit tenuto a Buenos Aires – sul tema dei diritti sociali e della “dottrina francescana” (con riferimento non a san Francesco d’Assisi ma al papa che porta il suo nome).
È stato anche questo un lungo discorso, con ampi rimandi al secondo dei tre rivolti ai “movimenti popolari”, quello pronunciato in Bolivia, e palesemente scritto da mano non sua anche se pienamente consonante, forse da uno dei magistrati argentini presenti, Raúl Eugenio Zaffaroni, figura di spicco, membro della corte interamericana dei diritti umani e sostenitore di una “teoria critica” della criminologia che fa risalire la genesi del crimine e la natura della giustizia alla struttura delle classi sociali e alle disuguaglianze.
“Non c’è democrazia con la fame, non c’è sviluppo con la povertà, non c’è giustizia nella disuguaglianza”: così Francesco ha sintetizzato la sua visione, tra fragorosi applausi.
A questo punto, come valutare la visione politica di Francesco? Tra le voci critiche più convincenti basti qui citare quella di Sergio Belardinelli, docente di sociologia dei processi culturali all’università di Bologna e già protagonista di quel “Progetto culturale” che impegnò la Chiesa italiana negli anni di leadership del cardinale Camillo Ruini.
Dice Belardinelli, nel libro scritto assieme al collega sociologo Angelo Panebianco “All’alba di un nuovo mondo”, edito dal Mulino alla vigilia delle elezioni europee del 2019:
“Ammettiamo pure che il magistero dei pontefici precedenti a papa Francesco sia stato troppo concentrato sui temi cosiddetti ‘non negoziabili’, come vita e famiglia. Ma siamo sicuri che il fatto di privilegiare ora altri temi, come l’ambientalismo, la critica del mercato capitalistico o il terzomondismo, sia da considerarsi un passo avanti? […] Ho l’impressione che la denuncia delle cause di questi mali che viene oggi dalla Chiesa sia troppo ‘umana’. È un po’ come se, additando il mercato e il liberismo come i principali responsabili – imputazioni peraltro assai opinabili –, venga edulcorata la tremenda, tragica, serietà del male che viene denunciato. Con la conseguenza che lo slancio profetico della denuncia si indebolisce proprio per il fatto di apparire troppo legato alle logiche del mondo, troppo politico e troppo poco escatologico”.
E più avanti, nel solco di Niklas Luhmann secondo cui in una società secolarizzata è necessario che “religione, politica, scienza, economia, in una parola, tutti i sistemi sociali, si specializzino sempre di più nella propria funzione”, Belardinelli scrive:
“La società secolare, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, ha urgente bisogno che da qualche parte ci sia qualcuno che parli di Dio con una lingua che non sia troppo mondana. […] Ma di quale Dio si deve parlare? Con Pascal è senz’altro opportuno uscire dalla prospettiva ingiusta del ‘Dio dei filosofi’ ed entrare in quella del ‘Dio di Abramo e di Gesù Cristo’. Tuttavia non mi sembra ragionevole che questo Dio che è amore e misericordia venga concepito addirittura in contrasto con ‘l’essere perfettissimo, creatore e signore del cielo e della terra’, come si recitava nel catechismo. […] Un Dio che non sia onnipotente e non abbia creato il mondo non può essere Dio. Come hanno ben compreso Leo Strauss e Joseph Ratzinger, tanto per fare due nomi significativi, il mondo ha senso soltanto perché è stato creato da Dio. […] Ma affinché questo Dio torni a essere un concetto generativo di forme di vita ecclesiali e sociali, c’è bisogno soprattutto di fede”.
La citazione di Ratzinger non è qui casuale. Si rilegga il suo discorso al Bundestag è si capirà perché.