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Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore un testo già apparso in “Nuova Rivista Storica”, CII/3 (2018), pp. 993-1018.

 

Giovanni Minnucci

 

«Bella religionis causa mouenda non sunt».

La libertas religionis nel pensiero di Alberico Gentili*.

 

  1. All’inizio del secolo scorso, poco meno di cinquant’anni prima che il diritto alla libertà di religione venisse formalmente inserito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo[1], a chiusura della Prefazione alla notissima e classica monografia su La libertà religiosa, Francesco Ruffini annotava: «Alla mia non poca fatica fu già di grande compenso il poter dimostrare, come io credo di aver fatto, che la libertà religiosa moderna trae la sua prima e più feconda sorgente dal movimento iniziato dopo la Riforma presso varie nazioni straniere dagli Italiani, che vi erano riparati per motivo di religione, cioè dai Sociniani. Ma una soddisfazione anche maggiore avrò, se mi riuscirà ancora di persuadere alla gente colta del mio paese, che l’occuparsi e il discorrere di libertà religiosa non è, come pensava quel dotto uomo di cui racconta il Mariano nel suo studio filosofico sulla libertà di coscienza[2] e come con lui troppi altri pensano, “la più strana cosa del mondo e quasi addirittura un vaneggiamento”» [3].

Il Ruffini, inoltre, aveva inteso sottolineare che il suo intento non era rappresentato dalla necessità di soffermarsi sugli aspetti negativi, quali quelli costituiti dalle persecuzioni, dai roghi, dall’Inquisizione e dall’Indice dei libri proibiti, ma di dedicare il suo lavoro agli elementi positivi, delineando «il sorgere fin nella più remota antichità, lo svilupparsi nell’evo moderno e il trionfare definitivo nel nostro secolo di questa idea: che non si debba perseguitare nessuno né privarlo della piena capacità giuridica per motivi di religione»[4].

Nella fondamentale opera del giurista piemontese alla quale, anche se molto risalente, occorre sempre ricorrere allorquando si voglia inquadrare storicamente il problema della libertà religiosa, pur in presenza di ampi rinvii alla letteratura cinque-secentesca, non si rinviene traccia alcuna del pensiero di Alberico Gentili. Esule in Inghilterra per motivi di religione ancorché – pur professando le idee della Riforma – non avesse inizialmente aderito ad alcuna specifica Confessione, ed annoverato dalla letteratura contemporanea fra i padri fondatori del diritto internazionale moderno, il giurista italiano dedicò alla religio, e alla libertas che la dovrebbe caratterizzare, alcuni passaggi di non secondaria importanza[5]: idee che meritano di essere esaminate ed approfondite perché attestano, ancora oggi, un elevatissimo grado di modernità. Non saranno superflui, inoltre, anche al fine di contestualizzare storicamente le opere gentiliane, alcuni riferimenti alla sua vicenda umana ed alle complesse relazioni che egli intrattenne con gli ambienti teologici d’Oltremanica: rapporti conflittuali spesso derivanti dai suoi convincimenti circa le competenze del giurista e del teologo, destinati a influenzare e a delineare il suo pensiero anche in tema di libertas religionis.

 

  1. Trascorsa la parte iniziale della vita nella natìa San Ginesio dove riceve i primi insegnamenti dal padre Matteo, Alberico Gentili si immatricola presso l’Università di Perugia nel 1569: qui si laurea in diritto civile il 23 settembre 1572. Diviene successivamente giudice della cause civili ad Ascoli e poi avvocato del Comune di San Ginesio dal quale riceve l’incarico di riformare lo Statuto comunale: un compito che porta a termine nell’ottobre 1577. Costretto a fuggire nel 1579 insieme al padre e al fratello Scipione, a causa della sua adesione alle dottrine riformate, ripara dapprima a Lubiana, per poi passare in Germania[6] e giungere, infine, a Londra nel 1580[7]. Anni sicuramente complessi e difficili sui quali, forse, è possibile gettare qualche ulteriore squarcio di luce.

Malgrado la solida preparazione giuridica ed i legami costruiti nei primi anni di permanenza sul suolo inglese, il giurista italiano era stato profondamente avversato da più parti[8]. Gli furono marcatamente ostili gli ambienti umanistici inglesi ed in particolare Jean Hotman[9] che, pur essendogli stato inizialmente amico, non aveva condiviso le posizioni assunte nella sua prima opera (i Dialogi pubblicati nel settembre 1582); in epoca di pochissimi anni successiva, lo furono i teologi puritani ed in particolare John Rainolds. Lo attesta lo stesso Alberico in una lettera inviata a quest’ultimo l’8 febbraio 1594: epistola nella quale ricorda le accuse di italica levitas[10] formulate nei suoi confronti proprio allorquando, intorno alla metà degli anni Ottanta, si stava prefigurando la possibilità che fosse chiamato a ricoprire la cattedra di Regius professor di Civil Law; il suo essere straniero e la sua levitas, che si sarebbe concretizzata nell’uso di espressioni vanagloriose ed adulatorie nella dedicatoria della Legalium Comitiorum Oxoniensium Actio (1585) sarebbero state le argomentazioni per contrastare la sua nomina[11]. Non è da escludere, però, anche alla luce di quanto il giurista di San Ginesio avrà modo di affermare circa dieci anni dopo[12], che a queste ragioni possano esserne state aggiunte altre: e cioè l’apprezzamento per il pensiero di Niccolò Machiavelli[13] e i suoi convincimenti in relazione ai rapporti fra diritto, teologia e religione. Temi e problemi presenti nei De legationibus libri tres[14]: opera che vede la luce proprio a metà degli anni Ottanta del XVI secolo, epoca a cui risale l’esplicita avversità nei suoi confronti da parte del Rainolds e degli ambienti puritani.

Non v’è dubbio che il De legationibus abbia avuto minore fortuna rispetto al De iure belli: testo pubblicato, com’è noto, ben tredici anni dopo la stesura del contributo gentiliano sugli ambasciatori; nondimeno alcuni passaggi relativi al nostro tema meritano di essere sottolineati perché dimostrano l’esistenza di un filo logico, e di una unità di pensiero che caratterizzerà a lungo la produzione scientifica di Gentili sul rapporto fra diritto, teologia e religione.

Sotto il titolo «De legationibus criminosorum» (II.XI) il giurista italiano in esilio si domanda, infatti, se coloro i quali risultano rei di crimini contro la religione possano legittimamente svolgere la funzione di ambasciatori, giungendo alla conclusione che la «causa religionis» non può condizionare in alcun modo i loro diritti[15]: non debbono esserci quindi barriere diplomatiche dettate dalle differenze religiose. Non v’è dubbio – come lo stesso Gentili ricorda – che la prassi, ormai instauratasi, di ambascerie fra Sovrani di religioni diverse sia un fatto consolidato[16], ma vi sono anche ragioni più profonde che sorreggono i suoi convincimenti.

Uno degli argomenti che il Nostro giurista utilizza a sostegno del suo punto di vista, e che esporrà pochi anni dopo anche nella De iure belli Commentatio prima, è costituito dalla convinzione che il diritto religioso disciplini esclusivamente i rapporti fra gli uomini e Dio, un diritto che, pertanto, non può interferire nelle relazioni umane[17]:

 

[…] Secundum argumentum, quo ego in istam definitionem inclino, illud est: quia religionis ius hominibus cum hominibus non est, sed cum Deo. Cum Deo enim communio nobis religione intercedit: nam haec est inter homines, et Deum. ratio: quia est religio scientia diuini cultus, et habitus obseruantiae eius, quo habitu nos cum Deo deuincimur et religamur  […].

 

La religione, infatti, riguarda unicamente il culto divino e l’osservanza di quei precetti che a ciò ineriscono direttamente, talché i rapporti umani all’interno della comunità sotto il profilo religioso vengono disciplinati solo in ragione dei vincoli instaurati dalla stessa con Dio. Né la communio fra gli uomini e Dio potrebbe essere regolata dal diritto naturale che, alla luce della definizione che si rinviene nelle fonti (Dig. 1.1.1.3) – fonti che peraltro Gentili esplicitamente non cita[18] –  è ciò che la natura insegna a tutti gli esseri animati non esclusi, ovviamente, gli animali: fra questi ultimi e gli uomini non vi è, infatti, alcuna communio. Il diritto religioso, in conclusione, se regola i rapporti umani, non contempera le relazioni fra gli uomini, ma quelle fra loro e Dio[19]. Ne consegue che risultano del tutto illecite le guerre mosse per causa di religione («Bella religionis causa mouenda non sunt»)[20]: concetti appena accennati, che Alberico avrà modo di approfondire nel decennio successivo[21], sui quali pertanto si potrà tornare nuovamente a riflettere.

Le prime opere gentiliane (Dialogi e De legationibus) edite fra il 1582 e il 1585, che pure avranno avuto consenso ed apprezzamento da parte di più di un esponente del mondo accademico e politico d’Oltremanica, avevano generato, come abbiamo visto, anche forti e rimarchevoli dissensi. E forse sta proprio qui la causa dei primi problemi che Alberico Gentili dovette affrontare in relazione allo sviluppo della sua carriera accademica ed al raggiungimento delle sue legittime aspirazioni: le sue speranze di succedere al Griffin Lloyd nella cattedra di civil law, stavano per essere deluse. È molto probabile, pertanto, che proprio queste siano le ragioni per le quali, nella primavera del 1586, l’esule marchigiano lascia l’Inghilterra per la Germania, al seguito di Orazio Pallavicino, con l’intenzione di non farvi più ritorno[22]. Le cose, però, come sappiamo, andranno in maniera diversa da quanto auspicato dai suoi avversari: l’8 giugno 1587, grazie agli appoggi del Walsingham e del Leicester col quale, fra l’altro, i rapporti erano restati sempre ottimi, e di alcuni membri della gerarchia anglicana, Alberico viene nominato Regius Professor di Civil Law a Oxford.

 

  1. I dissensi del Gentili con gli ambienti teologici risalenti alla metà degli anni Ottanta, apparentemente sopiti, erano destinati di lì a poco a riemergere in tutta la loro complessità. Pur non essendo direttamente riferibili al tema della libertas religionis, essi debbono essere necessariamente ricordati perché il cuore della polemica, che si genererà negli anni 1593-1594, sulla quale fra poco ci si soffermerà, non potrà non avere, almeno indirettamente, uno specifico impatto sul tema del quale ci stiamo occupando.

Come attesta la documentazione conservata in Inghilterra, e come numerose ricerche hanno potuto dimostrare, risale ai primi anni Novanta la controversia sugli spettacoli teatrali fra William Gager e John Rainolds relativa alla legittimità, da parte degli attori, di ricoprire ruoli e di indossare vesti femminili (si ricordi che alle donne era proibito calcare le scene), in violazione delle disposizioni del Deuteronomio (Deut. 22.5)[23]. Una polemica che raggiungerà il suo culmine pubblico nel 1592, allorquando Elisabetta I visiterà l’Università di Oxford. Proprio per l’occasione il giurista aveva composto un Sonetto in italiano dedicato a colei che considerava la sua grande ed autorevolissima protettrice[24]. In occasione della visita, la Regina aveva assistito alle rappresentazioni delle opere di William Gager, con cui John Rainolds aveva polemizzato in relazione agli spettacoli tetrali; il 28 settembre, per questa ragione, la Regina, affermando con nettezza il suo ruolo di legislatrice e di Sovrana, si rivolgeva a quest’ultimo con fermissime parole di riprovazione: «Elizabeth schooled Dr John Rainolds for his obstinate preciseness, willing him to follow her laws, and not run before them»[25]:

 

[…] Moneo ego, ut non praeeatis leges; sequamini. Ne disputetis, non meliora possint praescribi; sed observetis, quae Lex Divina iubet, et nostra cogit […].

 

Malgrado ciò la polemica sul teatro, apparentemente sopita per alcuni mesi, riprenderà vigore nel 1593-1594, e vedrà contrapporsi al Rainolds proprio Alberico Gentili che, nel giugno 1593, aveva pubblicato la Commentatio ad legem III. Codicis de professoribus et medicis[26]. E chissà che il dono del Sonetto alla Regina, e la reprimenda pubblica subita dal Rainolds nove mesi prima da parte di Elisabetta I[27], non abbiano contribuito a far aumentare i sentimenti di avversione, ai quali si è già fatto cenno[28], che il teologo puritano nutriva già da tempo nei confronti del giurista di San Ginesio. Una pubblicazione, quella costituita dalla Commentatio ad l. III Codicis de professoribus et medicis, nella quale Alberico aveva affrontato, tra le altre, le problematiche che erano state al centro della polemica Gager-Rainolds. In essa egli non solo aveva implicitamente difeso la posizione del Gager, ma aveva messo in discussione la possibilità che i teologi potessero occuparsi legittimamente della questione oggetto di dibattito, giungendo fino al punto di sostenere che, mentre da un lato riconosceva senza dubbio l’influenza che l’elaborazione teologica avrebbe potuto esercitare sul suo pensiero in materia religiosa, una analoga importanza non avrebbe potuto attribuirgli in re morali et politica[29]. Ma anche nelle pubblicazioni precedenti, ad iniziare dal De legationibus (1585) per finire alla De iure belli Commentatio prima (1588), era apparso evidente che il Gentili distinguesse nettamente il ius religionis dal ius humanum individuando il discrimine fra i due diritti nei soggetti fra i quali si sarebbe instaurato il rapporto. Il ius religionis, dal suo punto di vista, avrebbe regolato unicamente le relazioni degli uomini con Dio e non quelle fra gli uomini per le quali ocorreva far ricorso al ius humanum[30]. Il fatto che Gentili esprimesse da lungo tempo il suo punto di vista sui rapporti fra diritto, teologia e religione non era passato inosservato agli occhi attentissimi del Rainolds il quale, peraltro, aveva ben presente la precedente produzione scientifica del giurista di San Ginesio perché anche ad essa, nel corso della polemica, farà più volte riferimento[31]. Il fuoco, che stava covando da tempo sotto la cenere, non aspettava che di essere nuovamente ravvivato, e la polemica fra Gager e Rainolds, cui si aggiungeva subito dopo Alberico Gentili, aveva contribuito, e non poco, a far sviluppare definitivamente l’incendio dando vita ad un vero e proprio scontro, condotto in punta di penna, fra il giurista italiano esule in Inghilterra e il teologo puritano, attraverso una corrispondenza privata (di cui sono ancor oggi conservate complessivamente otto lettere manoscritte), che prenderà avvio con un’epistola di Gentili a Rainolds del 7 luglio 1593, e che si chiuderà, almeno sotto il profilo delle relazioni epistolari, con una missiva del 12 marzo 1594 del teologo puritano al giurista italiano.

La controversia in forma epistolare fra Gentili e Rainolds, già oggetto di studio[32], pur prendendo le mosse da temi e problemi relativi alle rappresentazioni teatrali e dalla possibilità per gli attori di assumere vesti e ruoli femminili – temi ai quali si aggiunge quello dell’officiosum mendacium – verte, sostanzialmente, sul ruolo del teologo e del giurista e sulle rispettive competenze. Non sembra qui opportuno soffermarsi troppo a lungo sulla questione; ancorché meritevole di ulteriori approfondimenti, soprattutto alla luce delle epistole, ancora inedite, conservate presso il Corpus Christi College di Oxford[33], ad essa sono già state dedicate alcune pagine[34]. Basterà qui ricordare che Alberico Gentili riteneva che i teologi non fossero gli unici interpreti della Sacra Scrittura, e che la stessa – come affermava nella corrispondenza col teologo inglese risalente al luglio 1593 – potesse essere del tutto legittimamente fatta oggetto di studio anche da parte dei giuristi. I testi sacri, pertanto, dovevano essere ritenuti comuni ad entrambe le categorie di studiosi, con la precisazione che ai giuristi doveva essere riconosciuta una maggiore competenza in relazione ai precetti regolatori dei rapporti fra gli uomini[35]. Un punto di vista che il giurista di San Ginesio confermerà, restando pienamente convinto delle sue ragioni, attraverso nuove argomentazioni che illustrerà nel prosieguo della corrispondenza col Rainolds. Muovendo dalla bipartizione delle Tavole della Legge contenenti, la prima, i precetti divini relativi ai rapporti fra Dio e l’uomo (diritto divino) e, la seconda, quelli relativi ai rapporti fra gli uomini (diritto umano)[36], giungerà alla conclusione che ai teologi, sommi interpreti della Sacra Scrittura, deve essere riconosciuta la competenza a studiare ed interpretare i precetti divini regolatori dei rapporti fra l’uomo e Dio, mentre ai giuristi che, ratione subiecti (l’uomo e le sue azioni) e ratione finis (il diritto umano), sono ritenuti competenti ad interpretare le norme regolatrici delle relazioni umane[37], resterà il compito, anche alla luce dei precetti della Scrittura, di definire quelle stesse problematiche sotto il profilo del diritto.

Una posizione questa che il Rainolds, recisamente, non condivideva. Il teologo puritano, infatti, dopo aver accusato il giurista di San Ginesio di immodestia e di impietas – accusa quest’ultima rivolta anche a Niccolò Machiavelli e non condivisa da Gentili[38] – affermava che l’interpretazione delle Scritture doveva restare di esclusiva competenza della teologia, l’unica disciplina da considerare fidei et vitae magistra[39].

Fra i testi trasmessi dai Libri sacri era ovviamente annoverato il Decalogo, per il quale il Rainolds continuava a ritenere fondamentale l’elaborazione teologica: per volontà divina i teologi, praecipui interpretes, avrebbero avuto il compito di spiegare alla Chiesa e al Popolo, attraverso la loro funzione interpretativa, i precetti contenuti non solo nella prima, ma anche nella secunda tabula[40].

 

[…] Ac ego theologorum potius sententiae credendum esse confirmavi, quod hi sint praecipui secundae tabulae interpretes. Praecipui quippe sunt, quos Deus instituit, ut eam ecclesiae populoque suo publice explicarent […].

 

Due posizioni indiscutibilmente contrastanti e diametralmente opposte, che ben difficilmente sarebbe stato possibile comporre, e che denotavano, com’è evidente, non solo una diversa concezione del rapporto fra diritto e teologia, ma anche una diversissima opinione circa il ruolo, le funzioni e le competenze del teologo e del giurista[41].

 

  1. Nel 1598 Gentili, riprendendo e sviluppando i concetti già espressi nelle Commentationes De iure belli pubblica i De iure belli libri tres: opera nella quale, ampliando le sue riflessioni, conferma il suo punto di vista sui rapporti fra diritto, teologia e religione già espresso nelle opere precedenti (De legationibus, De iure belli Commentatio prima). Prima ancora di esaminare il pensiero gentiliano in relazione al tema che qui ci interessa, appare opportuno soffermarsi sull’idea di religione espressa nella sua opera dal giurista di San Ginesio [42]:

 

[…] Religio autem ab animo est, et voluntate; quae semper habet libertatem secum, ut est praeclare et a Philosophis et ab aliis, et a Bernardo explanatum in libro De libero arbitrio. Animusque noster, et quicquid est animi a principio, aut principe non mouetur externo. Et neque dominus est animae, nisi unus Deus; qui unus animam potest perdere. Scis? […].

 

Emerge, con indiscutibile chiarezza, la centralità della libertas religionis: una libertà che deriva dalla libera ed autonoma volontà dell’uomo il quale, in questa scelta, non può essere condizionato da alcuna potestà esterna, ad eccezione dell’unico Dio col quale si instaura il rapporto. Una relazione quella fra l’uomo e Dio che poco dopo viene paragonata, proprio sotto il profilo della libera volontà, al «coniugium carnis». Ed è proprio per questo che alla religione si è debitori della libertà[43]:

 

[…] At audi ad hunc unum. Libertas religioni debetur. Coniugium quoddam Dei et hominis est religio. Si igitur coniugio alteri carnis libertas defenditur obstinate, etiam huic coniugio spiritus tribuatur libertas […].

 

Ne deriva, in ragione della piena libertas che deve caratterizzare la scelta religiosa, e dei tentativi, da parte di chicchessia di limitarne l’esercizio, la illegittimità della guerra per causa di religione [44]:

 

[…] Sed hanc sententiam, de bello propter religionem non mouendo, probatam omnibus, nemine excepto, testatur doctissimus a Victoria. Et caussam istam non iustam fuisse Hispanis suis contra Indos. […].

 

Un principio affermato, oltre che da Francisco De Vitoria nelle sue Relectiones Theologicae[45], anche da un’ampia letteratura, alla quale Gentili fa espresso rinvio.

Nelle pagine seguenti, in aderenza al metodo della disputatio che spesso utilizza nelle sue opere, il giurista di San Ginesio si sofferma non solo su qualche opinione contraria, ma anche su episodi attestati dalla storia, nei quali la causa religionis è stata ritenuta legittima causa di guerra[46]. Al Gentili, pertanto, non resta che addentrarsi ancora più in profondità nella questione oggetto della sua riflessione, utilizzando quegli strumenti ermeneutici (le differenze fra ius religionis e ius humanum) ai quali aveva già fatto riferimento nel recente passato. Il convincimento, già espresso[47], che il ius religionis riguardi i rapporti fra l’uomo e Dio e non i rapporti fra gli uomini riemerge, infatti, nel Libro I, capitolo IX del De iure belli[48]:

 

[…] Nunc illa est, si vno religionis obtentu bellum inferri possit. Et hoc nego. Et addo rationem: quia religionis ius hominibus cum hominibus proprie non est: itaque nec ius lęditur hominum ob diuersam religionem: itaque nec bellum caussa religionis. Religio erga Deum est. Ius est diuinum, id est, inter Deum et hominem: non est ius humanum, id est, inter hominem et hominem. Nihil igitur quaeritat homo violatum sibi ob aliam religionem.  […].

 

Ma non sono unicamente le precedenti opere gentiliane che qui vengono riutilizzate. Sembra, infatti, che Alberico abbia fatto tesoro anche della controversia con John Rainolds e dei concetti che aveva privatamente espresso nella corrispondenza fra loro intercorsa. Mentre nelle opere precedenti il giurista di San Ginesio, come si è già avuto modo di sottolineare[49], aveva fatto più volte riferimento al ius religionis che avrebbe regolato le relazioni fra l’uomo, singolarmente inteso, o la comunità degli uomini e Dio – per le quali riconosceva al teologo una indiscutibile auctoritas – distinguendo nettamente da queste le relazioni inter homines, nella corrispondenza con il Rainolds, soffermandosi sulle duae tabulae del Decalogo, aveva individuato una prevalenza dei giuristi nell’interpretazione della seconda Tavola, perché la stessa avrebbe regolato i rapporti fra gli uomini: il ius humanum, che appunto si sostanziava nei precetti in essa contenuti, sarebbe stato da considerare di esclusiva spettanza e competenza dei giureconsulti[50]. Ne consegue che, proprio in ragione di ciò, le cause di religione non possono essere poste a fondamento di dissensi tali da indurre alla guerra, tant’è che l’uomo che entra in relazione con soggetti di religione diversa, non può lamentare la violazione di un suo qualsivoglia diritto, per il solo fatto che altri professino convincimenti religiosi diversi dai suoi. La materia religiosa, in conclusione, riguarda i rapporti fra l’uomo o la comunità degli uomini e Dio, per illuminare i quali occorre l’intervento del teologo; i rapporti fra gli uomini, al contrario, che sono di competenza del giurista, non hanno nulla a che vedere con la religione. Ciò spiega la conclusione del giurista di San Ginesio apposta al capitolo XII del I Libro del De iure belli dove si esaminano le relazioni con i Turchi, un popolo che professa un’altra religione col quale si sono instaurati conflitti secolari[51]:

 

[…] Non est bellum propter religionem, non a natura cum aliis, et neque cum Turcis. Sed est cum Turcis bellum: quia illi ferunt se nobis hostes, et nobis insidiantur. Nobis imminent. Nostra rapiunt per omnem perfidiam, quum possunt, semper. Sic iusta semper caussa belli aduersus Turcas. Non eis frangenda fides est: non. Non inferendum bellum quiescentibus, pacem colentibus, in nos nihil molientibus: non. Sed quando sic agunt Turcae? Silete theologi in munere alieno […].

 

I Turchi, in realtà, come la storia aveva a suo avviso dimostrato, costituivano, secondo Gentili, un popolo che agli occhi degli europei era da considerare alla stregua di un vero e proprio nemico permanente. Essi, infatti, si sarebbero sempre comportati da nemici, avrebbero complottato e derubato ogni volta che ne fosse capitata l’occasione. Ma tutto ciò non aveva nulla a che vedere con le differenze di religione. Non era quindi la causa religionis, come pure alcuni pensatori avevano inteso, il fondamento delle avversità fra i Paesi europei e i Turchi, ma il fatto, indiscutibile che – a meno che non si fossero comportati pacificamente – questi ultimi sarebbero stati da considerare nemici in ragione delle proprie azioni, come qualsiasi altro popolo che si fosse comportato alla stessa maniera: il iustus hostis col quale la guerra sarebbe stata legittima.

La notissima conclusione del capitolo XII (Silete theologi in munere alieno) che, nel Libro I, chiude quasi come un sigillo i quattro capitoli dedicati ai rapporti fra guerra, diritto e religione[52], pur potendo essere del tutto legittimamente interpretata come rivolta esclusivamente a coloro che avevano individuato nella diversitas religionis una causa di guerra giusta, alla luce di quanto si è sin qui esposto, e per il fatto che Gentili la scrive al termine di una serie di capitoli dedicati al tema guerra-religione, credo abbia avuto come destinatari anche tutti i teologi che avessero voluto immergersi in questioni – come i rapporti fra gli uomini, fra i quali rientravano a pieno titolo le legittime cause di guerra – che a parere del Gentili ricadevano nel diritto umano: per la sua interpretazione, come nel caso del bellum iustum, la competenza doveva essere esclusivamente attribuita non al teologo ma al giurista o, per usare una sua espressione, all’interpres iuris. Temi e problemi, già ampiamente studiati e discussi nelle opere precedenti e nella corrispondenza col Rainolds, coi quali Alberico tornerà a confrontarsi nei Disputationum de nuptiis libri VII (1601).

 

  1. Nel redigere il I Libro della sua opera sul matrimonio – testo nel quale Alberico riutilizza, approfondendo il suo pensiero, quanto nel quindicennio precedente aveva più volte sostenuto nelle sue opere e nella corrispondenza con John Rainolds – il regius professor di civil law si esprime compiutamente anche intorno ai rapporti fra giuristi e teologi. Interloquendo nuovamente con il teologo puritano, senza peraltro mai citarne espressamente il nome[53], giunge ad affermare la competenza del legislatore laico e del giurista circa le fattispecie ricadenti nella secunda tabula del Decalogo[54]: testo che, com’è noto, contemplava fra i comportamenti riprovati un reato, come quello di adulterio, direttamente connesso all’istituto del matrimonio cui era specificamente dedicata la sua opera[55].

Vi sono però altre ed importanti ragioni che, secondo Alberico, contribuiscono a determinare la competenza del giurista sulla secunda tabula del Decalogo: lo si desume da una lunga argomentazione dialettica, relativa ai rapporti fra diritto e teologia ed ai rispettivi ambiti di intervento, esposta ancora una volta nel De nuptiis, sotto il titolo Distinguuntur ius diuinum et humanum (I.VIII). Si tratta di un’esposizione sulla quale occorre spendere qualche considerazione perché riemergono concetti già utilizzati nei primi mesi del 1594, nella corrispondenza col Rainolds, e che qui riprende ed approfondisce. Le sue idee, infatti, in ragione della pubblicazione parziale della corrispondenza intercorsa con il teologo puritano (si ricordi che, da parte di quest’ultimo, erano state pubblicate nel 1599 solo le prime quattro lettere, dal 7 luglio al 5 agosto 1593)[56], erano rimaste racchiuse nel segreto: occorreva pertanto renderle finalmente pubbliche.

Il giurista muove dal presupposto che diritto e teologia si distinguono ratione subiecti e ratione finis, indipendentemente dal fatto se debbano essere considerate scientiae o artes[57]:

 

[…] Quod si distinguuntur scientie per subiectum, et artes per finem: ut ita distingui docent viri doctissimi: duae utique istae, theologia, et iurisprudentia, siue scientiae, siue artes, per subiectum, aut per finem distinguuntur […].

 

Infatti, mentre per la teologia il soggetto è Dio ed il fine è rappresentato dal diritto divino, per la giurisprudenza il soggetto è individuabile nell’uomo e nelle sue azioni ed il fine non può che essere individuato nel diritto umano. Ordunque, poiché il diritto umano è racchiuso nella secunda tabula, spetterebbe al giureconsulto occuparsi del soggetto (l’uomo e le sue azioni) e del fine (ius humanum) che vi è compreso[58]. La premessa dalla quale Alberico aveva preso le mosse, e che abbiamo cercato qui brevemente di riassumere nei suoi contorni essenziali, potrebbe però risultare non del tutto vera. E proprio questo convincimento, evidentemente dettato da un metodo dialettico ormai acquisito, induce il Gentili ad ampliare le sue argomentazioni individuando le ragioni che potrebbero confutarne la validità. Si potrebbe ipoteticamente affermare, e contrario, anche sulla base del ragionamento sin qui svolto, che il giureconsulto ha una competenza esclusiva su ogni materia giuridica: ne conseguirebbe che oggetto delle sue indagini dovrebbe essere, oltre al ius humanum, anche il ius divinum che, pur essendo emanazione diretta di Dio, contiene comunque regole di condotta[59]:

 

[…] Quoniam ius aliquod iurisconsulto dare oportet: et itaque vel diuinum, vel humanum. Neque enim dicere siue Romanum, siue Anglicanum, siue aliud potest tale […].

 

La differenza fra diritto e teologia – due discipline che, secondo Alberico, devono continuare, comunque, ad esser tenute distinte – non va ricercata ratione subiecti e ratione finis, ma avendo riguardo alle causae efficientes et extrariae, vale a dire agli elementi produttori ed esterni determinanti ogni fenomeno. La competenza del giurista e del teologo va individuata tenendo presenti i soggetti fra i quali si instaura un rapporto[60]:

 

[…] Quoniam non per subiectum, et finem sic distingueretur disciplina iuris a theologica; sed per caussas efficientes quasdam, et extrarias. Atque si ius diuinum spectat ad theologum, humanum ad iurisconsultum: habemus etiam, ius esse diuinum in prima tabula, humanum in secunda. Ut ius a iure distinguitur respectu eorum, inter quos est […].

 

Se ne deduce che mentre per la prima parte del Decalogo, relativa ai rapporti fra Dio e l’uomo, è competente il teologo, la seconda, che inerisce alle relazioni fra gli uomini, non può che essere oggetto di intervento da parte del giurista. La chiusura del capitolo VIII del I Libro del De nuptiis è, a tal proposito, illuminante: «Sic itaque in coniunctionem hominis cum homine incumbit iurisconsultus, in coniunctionem hominis cum Deo theologus»[61].

Alla luce di questa affermazione, se ci si sposta su un altro piano, e cioè sulla dicotomia tra fòro della coscienza e fòro esterno – una separazione che, per il Gentili, assume contorni assai netti e marcati – possono essere meglio delimitati e precisati gli ambiti di intervento del teologo e del giurista. Lo si evince da una lunga argomentazione elaborata dal Gentili in dialogo col Covarruvias e con Giulio Claro[62]. Il giurista spagnolo, muovendo da una identificazione del fòro esterno con quello della coscienza o, meglio, di un vero e proprio assorbimento del secondo nel primo, aveva individuato nella lex civilis l’unico punto di riferimento certo: la previsione legislativa che avesse proibito un determinato comportamento lo avrebbe reso illecito anche sotto il profilo morale, così come l’aver consentito, sempre da parte del legislatore azioni moralmente illecite, avrebbe sollevato colui che le poneva in essere dall’imputazione del peccato. Il secondo, al contrario, pur avendo operato un tentativo di separare i due fòri non lo aveva fatto, a parere del giurista di San Ginesio, in maniera sufficientemente chiara. Per Gentili, infatti, fòro della coscienza e fòro esterno debbono tenuti nettamente distinti[63]:

 

[…] Ut humana dirigit lex scilicet ad actus externos, ac internos diuina. Ut iurisprudentia est manifesti vindex, theologia etiam occulti. Quae Alciatus noster. Lex nostra non scrutatur conscientiam. Conscientia interior non pertinet ad legem humanam temporalem, nec ad ecclesiasticam. Nemo enim de ea iudicat, nisi solus Deus. Quae Baldus noster […].

 

Ed ecco che il giurista si addentra nell’esame delle fattispecie concrete per verificare criticamente la sostenibilità della sua elaborazione teorica. Un argomento sul quale si erano lungamente confrontate le speculazioni giuridiche e teologiche era sicuramente rappresentato dal reato di omicidio: come giustificare, dunque, il divieto perentorio contenuto nelle Tavole della Legge con la dichiarata liceità, in alcuni casi, da parte delle fonti normative civilistiche, dell’uccisione del proprio simile[64]? E qui il Gentili elabora una serie di considerazioni facendo particolare riferimento ad alcuni passi del Decreto di Graziano e della patristica sui quali poteva fondarsi la posizione che escludeva, per alcune fattispecie, l’applicabilità del diritto secolare. Papa Niccolò I aveva condannato la lex mundana che consentiva l’uccisione dell’adultera da parte del marito (C. XXXIII q. 2 c. 6 del Decreto di Graziano); Agostino e Ambrogio, avevano contraddetto la legislazione laica che consentiva l’uccisione dello stupratore da parte della vittima prima che il reato venisse commesso e quella del latro armato, mentre avevano ritenuto lecito l’omicidio allorquando fosse la conseguenza di un’azione determinata dall’auctoritas principis (come nel caso del miles o nell’esercizio di una pubblica funzione)[65]. Tutto ciò appare, ad Alberico, fortemente discutibile[66]:

 

[…] Quod autem, praeter haec, patri item et marito datum ius occidendi adulterum, et adulteram, reprehendat ad ius civile Nicolaus Papa: et Ambrosius, et Augustinus non patiantur, ut quis latronem occidat in se irruentem. Ego harum reprehensionum rationem non video. Siquidem omnis iuris defensio est, etiam cum offensione volentis offendere. Atque si auctoritas principis (quod ex ipsoque Augustino alibi ostendi) iubentis, militare et pugnare, a peccato excusat: auctoritas maior iuris gentium non excusabit defensionem istam? Ratio naturalis potentior est omni edicto principis. […].

 

Se da un lato, infatti, la posizione dei Padri è sorretta dal comportamento di Cristo che, come narra il passo del Vangelo di Matteo (Mt. 26,52), in occasione del suo arresto invitò Pietro a rinfoderare la spada, dall’altro non si può negare che, nelle fattispecie considerate (il tentativo di stupro violento[67] o quello di rapina a mano armata), la reazione della vittima deve esser considerata una vera e propria azione di legittima difesa («Siquidem omnis iuris defensio est, etiam cum offensione volentis offendere») il che, evidentemente, non solo solleva il soggetto da ogni imputazione di reato, ma conferma la validità della legislazione laica in relazione alla fattispecie considerata. Inoltre, se si riflette sulla posizione agostiniana che, sulla base dell’auctoritas principis, scusa dal peccato di omicidio coloro che lo hanno commesso perché belligeranti o nell’esercizio di una funzione pubblica, tanto più si dovrebbe essere assolti qualora, come nei casi di tentativo di stupro violento e di rapina a mano armata, si eserciti il diritto naturale di difendere la propria vita da una minaccia imminente e concreta? («Atque si auctoritas principis, quod ex ipsoque Augustino alibi ostendi, iubentis, militare et pugnare, a peccato excusat: auctoritas maior iuris gentium non excusabit defensionem istam?»). La conclusione di Alberico è recisa: «Ratio naturalis potentior est omni edicto principis»[68].

È il diritto naturale, quindi, inteso come complesso di regole di giustizia e di valori etico-sociali universali, fondati sulla natura razionale dell’uomo, che prevale sulla potestas principis, mettendo così in discussione il principio di autorità; è il diritto naturale, definito da Alberico come ius gentium – con un evidente rinvio[69], ancorché non esplicito, alla definizione gaiana di Dig.1.1.9 («…quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur») – che regola i comportamenti degli uomini, affrancandolo altresì dalla pretesa fondativa delle elaborazioni teologiche, idee che, com’è noto, caratterizzeranno il XVII secolo, soprattutto in quella parte dell’Europa che aveva ormai perduto l’unità politico-religiosa[70]: un mondo del quale, per le sue vicende di intellettuale esule per motivi di religione, Alberico Gentili faceva pienamente parte.

Alla luce dei convincimenti espressi nel I Libro del De nuptiis, e dell’Epistola Apologetica ad lectorem, stampata al termine del volume, il silete theologi in munere alieno del De iure belli (I.XII) non può essere inteso, quindi, come un’aprioristica ingiunzione ai teologi di non occuparsi dell’uomo e delle sue azioni, ma come un’espressione che tenta di definirne il ruolo comparandolo con quello dei giuristi i quali, peraltro, non possono ignorare quanto, da secoli, la teologia ha apportato alla storia della civiltà[71]:

 

[…] Sic theologica alia multa ad nos pertinent, et plurimi propterea sunt tractatus theologici in ciuilibus libris nostris: non ut ipsa statuamus, et doceamus nos, sed ut cognoscamus tamen, et suum cuique in iisdem adtribuamus. Sic et medica multa habemus: non sane ut aegrotis medicinam faciamus, verum ut intelligamus morbos tamen, et in ipsis quaestiones iustitiae, ac iuris explicemus […].

 

Ai teologi, sommi interpreti della Sacra Scrittura[72], il cui pensiero non può comunque essere ignorato ma col quale occorre criticamente confrontarsi, compete in ogni caso la comprensione dei precetti divini regolatori delle azioni dell’uomo col fine esclusivo di illuminarne la coscienza («[…] solus ipse Deus obligat. Et soluit conscientias […]. Ut iurisprudentia est manifesti vindex, theologia etiam occulti […]. Lex nostra non scrutatur conscientiam. Conscientia interior non pertinet ad legem humanam temporalem, nec ad ecclesiasticam. Nemo enim de ea iudicat, nisi solus Deus […]»)[73]. Ai giuristi resta il compito di «definire explicate quid in quaque quaestione est iuris»[74].

 

  1. Le pagine vergate dal giurista di San Ginesio dimostrano come, sin dai primi anni della sua vicenda inglese, egli avesse individuato nella libertas religionis la via maestra per la convivenza civile fra Confessioni diverse.

L’aver affermato, sin dall’epoca della redazione del De legationibus (1585), che il fenomeno religioso riguarda esclusivamente il rapporto fra l’uomo o la comunità degli uomini e Dio, non poteva non avere, come conseguenza immediata, la libera professione per chicchessia dei propri convincimenti religiosi. La posizione critica assunta negli anni seguenti dai teologi puritani, i quali avrebbero voluto proporsi come esclusivi interpreti della parola di Dio, non solo nel rapporto per così dire, verticale, che si instaura con la divinità, ma anche in linea orizzontale, vale a dire in quello che si concretizza nella regolazione pubblica dei rapporti fra gli uomini, avrebbe generato una loro competenza anche «in re politica». Se fosse prevalsa l’interpretazione del Rainolds – un’interpretazione che Gentili fermamente contrastava – i teologi avrebbero avuto il pienissimo diritto di occuparsi, anche da un punto di vista politico, delle relazioni umane.

La posizione gentiliana sul tema era finalizzata, al contrario, a preservare la libertà di professare la propria religione; una libertà che poteva essere garantita solo circoscrivendo la riflessione teologica al rapporto fra l’uomo e la divinità, negandole contestualmente il diritto di occuparsi delle relazioni umane da un punto di vista politico e legislativo: evento quest’ultimo che, sotto il profilo teorico, avrebbe potuto avere come conseguenza la potenziale confessionalizzazione dello Stato. Allo stesso tempo, in presenza di una convivenza sullo stesso territorio di religioni diverse, le elaborazioni teoriche delle differenziate dottrine teologiche in relazione ai rapporti umani, avrebbero potuto generare intolleranze ed, in ultima analisi, veri e propri conflitti religiosi. E Gentili, proprio su questo punto, aveva assunto una posizione piuttosto netta e chiara, che si esprimeva nell’auspicio che si potesse non solo liberamente professare la propria religione, ma che vi fosse anche la connessa possibilità di cambiarla[75]:

 

[…] Laudatur porro Constantini edictum, per quod poterat quisque vacare Deo secundum suam sectam. Etiam ut ad alteram religionem transire posset. Conuenisseque id temporum tranquillitati, ut potestas unicuique esset pro eo, atque vellet, colere diuinum numen. […].

 

Inoltre, la netta demarcazione tra foro esterno e foro interno e, di conseguenza, quella tra reato e peccato, cui Gentili giunge al termine della sua riflessione, consente al giurista di San Ginesio di non negare del tutto la competenza teologica ad intervenire sul tema delle relazioni umane, ma di limitarla al foro della coscienza, che in ogni caso trova il suo giudice unico in Dio; contestualmente viene riservato al giurista e, di conseguenza, al legislatore[76], il compito di regolare i rapporti fra gli uomini: relazioni alle quali deve essere sottratta la libertà religiosa intesa come connubio – in quanto tale pienamente libero – tra l’uomo e Dio[77].

Le relazioni umane, infatti, possono essere regolate anche dal diritto religioso che però può espletare la sua efficacia avendo ad oggetto il raggiungimento di una sola finalità: consentire a tutti la libertà di professare la propria religione, senza costringere gli altri ad aderire alla propria[78]:

 

[…] ita et ius religionis inter homines sit, non quod homines hominibus ea obstringat, verum quia omnes erga Deum religionem profitentur[…].

 

 

Tutto ciò conferma che anche per Gentili «la libertà religiosa» – e l’imprestito è ancora una volta dalle belle pagine del Ruffini –  «…non è, come il libero pensiero, un concetto o un principio filosofico, non è neppure, come la libertà ecclesiastica, un concetto o un principio teologico, ma è un concetto o un principio essenzialmente giuridico…»[79].

 

 

Prof. Giovanni Minnucci

Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali

Università di Siena.

 

 

Abstract

 

The author investigates Alberico Gentili’s thought about the relationship between law, theology and religion as well as the roles and competence of the theologian and the jurist respectively. Many of the Gentili’s works on these issues appeared between 1585 and 1593: De legationibus libri tres (1585), De iure belli Commentationes (1588-89), Commentatio ad legem III. Codicis de professoribus et medicis (1593). An epistolary controversy between Gentili and the puritan theologian John Rainolds over this topic occurred in the years 1593-1594. The correspondence, still preserved manuscript in the Corpus Christi College of Oxford, heralds the final Gentili’s position in the dispute, which will be completely expressed in the De iure belli (1598) and Book I of Disputationum de nuptiis libri VII (1601).  The reading of these works and the manuscript sources allows us to grasp Gentili’s elaboration of a continuous line of thought that, over the years, leads to the full recognition of libertas religionis and, for this reason, to the unlawfulness of moving war religionis causa.

 

Di seguito le note: 

 

* Per il rinvio alle fonti manoscritte si utilizzano le seguenti abbreviazioni: O.B.L.D. (Oxford, Bodleian Library, D’Orville), O.C.C.C. (Oxford, Corpus Christi College).

[1] Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, art. 18: «Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti». Alla Dichiarazione del 1948 seguiranno: l’art. 18 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966; l’art. 9 della Convenzione Europea dei diritti umani; l’art. 12 della Convenzione Americana del 1969; l’art. 8 della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; la United Nations Declaration of the Elimination of All Forms of Intolerance and of Discrimination Based on Religion and Belief in A.G. 36/55 del 25 novembre 1981 in http://www.un.org/documents/ga/res/36/a36r055.htm

[1] Il riferimento è a Raffaele Mariano e al suo studio su la libertà di coscienza in: La lotta pel diritto per Rodolfo von Jhering (traduzione dal tedesco) e la Libertà di coscienza per Raffaele Mariano, Milano – Napoli – Pisa, U. Hoepli, 1875, p. 47.

[1] F. Ruffini, La libertà religiosa. I. Storia dell’idea, Torino 1901. Ho consultato l’ed. Feltrinelli, con una Introduzione di Arturo Carlo Jemolo, apparsa nella «Collana SC/10», Milano 1967, p. 3.

[1] F. Ruffini, La libertà religiosa, cit., p. 7.

[1] Alcuni dei temi qui esaminati sono stati inizialmente e solo in parte affrontati in: G. Minnucci, La nuova metodologia di Alberico Gentili nel I Libro del De nuptiis (1601), in Atti del Convegno. Undicesima Giornata Gentiliana  (S. Ginesio, 17-18 settembre 2004), Milano, Giuffrè, 2006 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), pp. 399-431, e in Studi di Storia del diritto medioevale e moderno, 2, a cura di F. Liotta, Bologna, Monduzzi editore, 2007, pp. 211-235. Successivamente le indagini sono state notevolmente ampliate fino a giungere alla redazione di un recente testo monografico: G. Minnucci, «Silete theologi in munere alieno». Alberico Gentili tra diritto, teologia e religione, Milano, Monduzzi editoriale, 2016: testo al quale si rinvia. Su queste tematiche si veda inoltre: D. Panizza, «Libertas religionis» e «Silete theologi in munere alieno». Politica e religione nell’opera di Alberico Gentili, in  Alberico Gentili (San Ginesio 1552 – Londra 1608). Atti dei Convegni nel Quarto centenario della morte (San Ginesio 11-12-13 settembre 2008; Oxford e Londra, 5-6 giugno 2008; Napoli L’Orientale, 6 novembre 2007), II, Milano, Giuffrè, 2010 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), pp. 641-656 e, da ultimo, D. Suin, Religious Pluralism and the International Community: Alberico Gentili’s Contribution, in Monisms and Pluralisms in the History of Political Thought, edided by A. Catanzaro – S. Lagi, Epoké, Novi Ligure, 2016, pp. 39-55. Il tema della libertà religiosa viene toccato da Alberico Gentili anche nel De papatu Romano Antichristo: un work in progress ancora inedito (conservato manoscritto in O.B.L.D. 607, fol. 1r-95v), redatto inizialmente fra il 1580 e il 1585, che Gentili continuò a rivedere, integrare e modificare fino al 1591: opera alla quale andrebbe dedicato sul punto uno studio specifico, che tenga in gran conto sia le parti attribuibili alla redazione originaria, sia le annotazioni successive. Su quest’opera cfr., da ultimo, G. Minnucci – D. Quaglioni, Il De papatu Romano Antichristo di Alberico Gentili (1580/1585-1591): primi appunti per l’edizione critica, in «Il Pensiero Politico», 47/2 (2014), pp. 145-155; Iid., Per l’edizione critica del De papatu Romano Antichristo di Alberico Gentili (1580/1585-1591), in Alberico Gentili. Giustizia, Guerra, Impero. Atti del Convegno. Quattordicesima Giornata Gentiliana (24-25 settembre 2010), Milano, Giuffrè, 2014 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), pp. 331-345; G. Minnucci, Le probabili ragioni della mancata pubblicazione del De papatu Romano Antichristo di Alberico Gentili, in«Interpretatio prudentium», I/2 (2016), pp. 119-168, tutti con ampie indicazioni bibliografiche.

[1] La richiesta formulata da Matteo e Alberico di poter restare ad insegnare a Tubinga non ebbe esito positivo. Al contrario, essi vennero invitati ad andare altrove con l’assegnazione, pro viatico, della somma di 50 fiorini (cfr. G. Minnucci, Jean Hotman, Alberico Gentili, e i circoli umanistici inglesi alla fine del XVI secolo, in Studi di Storia del diritto medioevale e moderno, 3, a cura di F. Liotta, Milano, Monduzzi editoriale, 2014, pp. 207-209, e la bibliografia ivi indicata). Lo conferma l‘epistola dedicatoria a Giacomo I, anteposta nel 1604 da Scipione Gentili al De donationibus, ove l’esplicito riferimento, non solo all’esilio per causa di religione, ma anche all’accoglienza, non propriamente positiva («Germaniaque vexatus»), ricevuta dal padre Matteo in Germania: «[…]Pater meus, Matthaeus Gentilis, patria ob геligionem exul, maximisque ob eam caussam саlаmitatibus et periculis in Italia, Germaniaque vexatus, tandem in regnum tuum confugiens, sedem in eo quietissimam exilii sui, commodissimamque habuit: XXII. et amplius annos Londini vixit, summa cum omnium et tuorum, et exterorum beneuolentia, singularique laude pietatis, innocentiae, atque industriae […] Norimberga, Kalendis Februar. 1604». (Scipionis Gentilis De donationibus inter virum et uxorem Libri IIII, Ad maximum Principem Iacobum, Angliae, Scotiae, Franciae Hiberniaeque Regem[…], Hanoviae, Typis Wechelianis, apud Claudium Marnium, et haeredes Iohannis Aubrii, MDIIII, ca. fi. epistolae).

[1] G. Minnucci, Gentili, Alberico, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M. N. Miletti, I, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 967-969 e la bibliografia ivi citata, cui occorre aggiungere A. Gause, Gentili, Alberico (1552-1608), jurist, in The Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, University Press, 2004; S. Colavecchia, Gentili, Alberico, in Encyclopedia of Renaissance Philosophy, Springer, 2017, editor M. Sgarbi. Per una voce più ampia: A. De Benedictis, Gentili, Alberico, in Dizionario Biografico degli Italiani, 53, Roma, Treccani, 1999, pp. 245-251.Sulle vicende della famiglia Gentili e sulle persecuzioni da parte dell’Inquisizione, cfr. V. Lavenia, Alberico Gentili: i processi, le fedi, la guerra, in «Ius Gentium Ius Communicationis Ius Belli». Alberico Gentili e gli orizzonti della modernità. Atti del Convegno di Macerata in occasione delle celebrazioni del quarto centenario della morte di Alberico Gentili (1552-1608), (Macerata, 6-7 dicembre 2007), a cura di L. Lacchè, Milano, Giuffrè, 2009 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), pp. 178-180;  Id., Giudici, eretici, infedeli. Per una storia dell’Inquisizione nella Marca nella prima Età moderna, in www.giornaledistoria.net, 6 (2011), pp. 1-14.

[1] Per l’edizione moderna cfr. A. Gentilis De iuris interpretibus dialogi sex. Ad exemplar prioris editionis edidit prolegomenis notisque instruxit G. Astuti, praefatus est S. Riccobono, Torino 1937. Su quest’opera si veda G. Astuti, Mos italicus e mos gallicus nei dialoghi «De iuris interpretibus» di Alberico Gentili, Bologna, Zanichelli, 1937 (Biblioteca della «Rivista di storia del diritto italiano», 16) = in «Rivista di Storia del diritto italiano», 10 (1937), pp. 149-207, 229-347.

[1] Sui primi anni di permanenza di Gentili in Inghilterra e sulle avversità da parte degli ambienti umanistici cfr., da ultimo, G. Minnucci, Jean Hotman, Alberico Gentili, e i circoli umanistici inglesi, cit., pp. 203-242, e la letteratura ivi indicata.

[1] Cfr. D. Panizza, Alberico Gentili, giurista ideologo nell’Inghilterra elisabettiana, Padova, “La Garangola”, 1981, pp. 51 nota 74, 73 nota 38. Per la documentazione autografa cfr. O.C.C.C. ms. 352, pp. 277-278 (8 febbraio 1594): «… Et ego abs te, tuo more uicissim quaero, an ignores, haec mihi uerba obiecta olim loco criminis grauissimi ne fierem regius apud uos professor? An igitur homini nunc te adiungis? Esto igitur et tibi responsum, fecisse illa omnia Oxonienses, et publico, et signato testimonio, quod mihi res carissimam adseruo: sed blanditos mihi fuisse, et tum profitebar, et nunc profiteor. Scripsi nescio quam (sottolineato nel ms.), quod est, falsam, et nullius momenti ut uos instruere grammatici potuerunt. Quid potui de me tenuius scribere? Et Jtalica tamen, Jtalica leuitate tantum peccaui isthic, ut indignissimus fuerim hoc loco, quem apud uos teneo, imo quem apud uos occupo, ut tu clarius uis semper. Et tu de illis fuisti, qui humanissimæ genti uestræ | labem illam aspersam uoluerunt inhumanitatis, dum, extero homini patere locum apud uos, indignum uociferabantur…». Sul Rainolds si veda, da ultimo, M. Feingold, John Rainolds, in The Oxford Dictionary of National Biography, Oxford, University Press, 2004; S. Colavecchia, Rainolds, John, in Encyclopedia of Renaissance Philosophy,  Springer, 2017, editor M. Sgarbi.

 

[1] Sul punto cfr. Panizza, Alberico Gentili, giurista ideologo, cit., p. 51. Su John Rainolds, sul suo drastico rifiuto della cultura italiana, sui suoi durissimi giudizi nei confronti delle opere di Pomponazzi,  Machiavelli e Cardano, e sui suoi dissensi con Giordano Bruno, oltre al contributo del Feingold citato supra, nota 10, cfr. M. Ciliberto, Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999 (Storia e Letteratura. Raccolta di Studi e Testi, 202), p. 255 e passim; una sintesi della carriera del Rainolds ibid.,  p. 249 nota 39; si veda, inoltre, p. 248 note 36, 37. Ulteriori cenni sui rapporti fra Rainolds, Bruno e Gentili in D. Pirillo, Filosofia ed eresia nell’Inghilterra del tardo Cinquecento. Bruno, Sidney e i dissidenti religiosi italiani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010 (Studi e Testi del Rinascimento Europeo, 38), ad ind.

[1] Cfr. G. Minnucci, Un discorso inedito di Alberico Gentili in difesa della iurisprudentia, in «Quaderni fiorentini», XLIV/1 (2015), pp. 234-241.

[1] L’accusa che viene rivolta a Gentili di macchiauelicus ha origine, molto probabilmente, dalla lettura del De legationibus, III. IX (ma una citazione, in margine, anche in III. VIII), dove il giurista di San Ginesio loda i Discorsi del pensatore fiorentino, che costituiscono il modello per trattare le questioni etiche e politiche sotto il profilo metodologico (cfr. A. Gentilis, De legationibus libri tres, Londini, excudebat Thomas Vautrollerius, 1585, pp. 107-111). Su questo tema cfr. G.H.J. Van der Molen, Alberico Gentili and the Development of International Law. His Life Work and Times, 2nd revised edition, Leyden,  A. W. Sijthoff,  1968, p. 239, ma soprattutto p. 317 nota 223. Da ultimo, D. Pirillo, «Repubblicanesimo» e tirannicidio: osservazioni su Alberico Gentili e Giordano Bruno, in Alberico Gentili. La salvaguardia dei beni culturali nel diritto internazionale. Atti del Convegno. Dodicesima Giornata Gentiliana, San Ginesio (22-23 settembre 2006), Milano, Giuffrè 2008, (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), pp. 280-285, e la bibliografia ivi citata e, infine, P. Carta, Dalle guerre d’Italia del Guicciardini al diritto di guerra di Gentili, in Justice et armes au XVIe siècle, in «Laboratoire italien», sous la direction de D. Quaglioni et J.-C. Zancarini, 10 (2010), pp. 85-102; Id., Il Guicciardini di Alberico Gentili, in Silete theologi in munere alieno. Alberico Gentili e la seconda Scolastica. Atti del Convegno Internazionale, Padova, 20-22 novembre 2008, a cura di M. Ferronato e L. Bianchin, Padova, Cedam, 2011 («Biblioteca di Lex Naturalis»), pp. 149-162; Id., Gentili, Alberico, in Enciclopedia Machiavelliana, Roma, Treccani, 2014, pp. 599-601, con ulteriori indicazioni bibliografiche; D. Suin, Repubblicanesimo e realismo politico nel De legationibus di Alberico Gentili, in «Il Pensiero politico», XLVIII/3 (2015), pp. 431-448.

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit. Su quest’opera cfr., da ultimo, R. Langhorne, Alberico Gentili sulla diplomazia, in Alberico Gentili (San Ginesio 1552 – Londra 1608). Atti dei Convegni nel Quarto centenario della morte, cit., II, pp. 453-454; F. Cantù, Alberico Gentili e lo ius legationis, in De l’ambassadeur. Les écrits relatifs à l’ambassadeur et à l’art de négocier du Moyen Âge au début du XIXe siècle, Études réunies par S. Andretta, S. Péquignot, J.-C Waquet, Roma 2015, (Collection de l’École française de Rome, 504) http://books.openedition.org/efr/2914?lang=it; D. Suin, Repubblicanesimo e realismo politico, cit., pp. 431-448. Per uno studio recente sul De legationibus, e per una più precisa analisi della sua genesi, cfr. M. Feingold, What’s in a Date? Alberico Gentili and the Genesis of De legationibus libri tres, in «Notes& Queries», 64/2 (2017), pp. 312-318.

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit., II. XI, pp. 62-63: «Finis huius tractatus, quo causas explicamus, propter quas legatis iura non tribuuntur legationum, duas dabit mihi residuas quaestiones. Atque una de excommunicatis est: altera de eo homine, qui in principem aliquid ante commisit, quam ad illum legationem susceperit […] Et ita sane iudico, ne propter religionis disiidia debeant iura legationum conturbari[…]».

[1] A. Gentilis, De legationibus libri tres, cit., II. XI, p. 63: «Equidem scimus, Venetorum legationes ab aliis Christiani nominis principibus eodem illo tempore admissas, nunc a Pontificiis admitti, quae a Protestantibus proficiscuntur: et contra. Est et cum Maumethistis commercium legationum. Et ita sane iudico, ne propter religionis disiidia debeant iura legationum conturbari. Primum quia et nunc apud omnes sic agitur, et olim quoque actum est semper. Dixi de iis, qui se Christianos profitentur. Res explorata est, quod habent ius legationis apud Turcam Persae, qui haeretici apud Turcam sunt. De Iudaeis, qui alios, et Israelitas legationes admiserint, quid narrem, quod ignorat nemo? […] ». Una traduzione italiana di questo passaggio si legge in Langhorne, Alberico Gentili sulla diplomazia, cit., pp. 453-454.

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit., II. XI, p. 63. Identici concetti Alberico esprimerà tre anni dopo allorquando scriverà la De iure belli Commentatio prima (A. Gentilis De iure belli Commentationes duae, Lugduni Batavorum 1589, Commentatio prima, apud Iohannem de la Croy [cioè London, John Wolfe], pp. E2 – D3, «Caussa religionis») dove riproduce, facendovi espresso rinvio, lo stesso passaggio che si rinviene nel De legationibus: «Iuuat porro repetere rationem hic ex vndecimo capite libri secundi de legationibus, quod religionis ius hominibus cum hominibus non est. Itaque nec ius læditur hominum ob diuersam religionem. Itaque nec bellum mouendum caussa religionis est»).

[1] Vi farà ancora riferimento nel 1594 nell’epistolario col Rainolds, nel De nuptiis  e le allegherà nel De iure belli (cfr. infra, note 19, 21). Il testo di Dig. 1.1.1.3 così corre: «Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est…»; nonché Inst. 1.2.

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit., II. XI, pp. 63-64: «[…] At istam communionem, et ius istud inter homines non est: nisi tu communionem, sic accipis ut in iure naturali dicitur, quod non hominum modo est sed et brutorum omnium animalium: ut enim illud non est, quia ipso inter bruta et homines iudicetur, sed quoniam in ipsum tum homines, tum bruta mouentur: ita et ius religionis inter homines sit, non quod homines hominibus ea obstringat, verum quia omnes erga Deum religionem profitentur. Quid haesitamus? Patet rem ita esse: nam religio ex hominibus non est: neque nisi ad Deos Ethnici retulerunt. Itaque non est iuris gentium communio. Haec enim naturali ratione est. Et si haec ita sunt, qui ex religionis dissidio iura gentium violantur? Qui pereunt legationes? […]». Si veda, per l’esposizione di analoghi concetti, il I Libro di Disputationum de nuptiis libri VII, I. VII, Hanoviae, apud Guilielmum Antonium, 1601, p. 38: «[…] Quia ius non sit, ubi communio non est. Et nobis cum brutis nulla communio est. Et erit igitur ius humanum, quod inter homines est. Ius autem diuinum, quod est, non dico inter Deos, ut olim ex parte aliqua dixissent ethnici[…].  Sed quod est inter personas Trinitatis sanctissime, et quod inter Deum, et hominem est[…]».

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit., II. XI, p. 64.

[1] Cfr., ad esempio, l’epistola di Gentili al Rainolds, dell’8 febbraio 1594: «[…] Et sic ingeniosissimus Hotomanus, dum non uidet, brutis et hominibus, inter bruta et homines ius esse, aut legem ullam, disputat contra illam definitionem iuris naturalis, jus naturale est, quod natura omnia animalia docuit (Dig. 1.1.1.3, Inst. 1.2): quia ius non sit, ubi communio non est: et nobis cum brutis nulla communio est: nullum igitur nobis cum brutis ius: nullum igitur ius naturale[…]» (O.C.C.C., ms. 352, p. 284); nonché A. Gentilis De iure belli libri III, Hanoviae, Excudebat Guilielmus Antonius, 1598, I. XXV, p. 202: «Sic est non modo ciuile ius sponsio, et vinculum inter ciues, et ius gentium inter gentes, sed et naturale hominum inter homines. Et nostri legum conditores non fuerunt reprehendendi: qui ius definierint naturale, quod natura omnia animalia docuit. Etsi non sit tamen ius, id est communio, homines inter et animalia…». in marg.: «l. i. de legi. (Dig. 1.3.1); l. i. de iust. (Dig. 1.1.1); Inst. de iu. na. (Inst. 1.2.); ubi Hot. (F. Hotmanni Commentarius renovatus in Institutiones Iustiniani, I, 2, in Opera, II, coll. 19ab, 22b, 24a)». Per lo scioglimento delle allegazioni cfr. A. Gentili, Il diritto di guerra (De iure belli libri III, 1598). Introduzione di D. Quaglioni; traduzione di P. Nencini; Apparato critico a cura di G. Marchetto e C. Zendri, Milano, Giuffrè, 2008 (Centro Internazionale di Studi Gentiliani), p. 179 nota 28.

[1] Sul punto cfr., da ultimo, L. Bianchin, Aspetti della ‘fortuna’ di Alberico Gentili nella Germania del secolo XVII, in Alberico Gentili (San Ginesio 1552 – Londra 1608). Atti dei Convegni nel Quarto centenario della morte, cit., II., p. 415, e la letteratura citata. Proprio al Pallavicino, Alberico Gentili aveva dedicato il Lectionum et epistolarum quae ad ius ciuile pertinent liber III, Londini, Excudebat Ioannes Wolfius, 1584.

[1] Su tutto il punto, anche per i riferimenti bibliografici, cfr. J. W. Binns, Women or Transvestites on the Elizabethan Stage? An Oxford Controversy, in «Sixteenth Century Journal», 5/2 (1974), pp. 95-120.

[1] G. Minnucci, Una lettera inedita su questioni teologiche di Alberico Gentili al padre Matteo con un Sonetto inedito dedicato alla Regina Elisabetta I d’Inghilterra (18 settembre [1592?], in «Historia et Ius», 8 (2015), paper 11, pp. 10-11, 17 e nota 35.

http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/minnucci_8.pdf

[1] Cfr. F.S. Boas, University Drama in the Tudor Age, Oxford, Clarendon Press, 1914, pp. 266-267. Il discorso pronunciato dalla Regina Elisabetta si legge in C. Plummer, Elizabethan Oxford. Reprints of Rare Tracts, Oxford, Clarendon Press, 1887, pp. 271-273 ed è parzialmente riprodotto in Minnucci, Una lettera inedita, cit., p. 5 nota 13, e in Id., «Silete theologi in munere alieno». Alberico Gentili, cit., p. 117 nota 90.

[1] Edizione critica e traduzione in lingua inglese in: J.W. Binns, Alberico Gentili in Defense of Poetry and Acting, in «Studies in the Renaissance», 19 (1972), pp. 224-272.

[1] Cfr. supra, nota 25.

[1] Per i dissensi risalenti alla metà degli anni Ottanta cfr. supra, § 2.

[1] «Nam qui histrioniam omnem sublatam esse volunt, hi auctoritate theologorum magis moventur. Ego vero ut theologorum auctoritate in re religionis valde moveor, ita in re morali, aut politica non valde[…]» (cfr. A. Gentilis Commentatio ad l. III Codicis de professoribus, cit., in J.W. Binns, Alberico Gentili in Defense, cit.,  p. 247, e la corrispondente traduzione in lingua inglese, p. 269).

[1] Per il passo tratto dal De legationibus, richiamato da Gentili nella De iure belli Commentatio prima cfr. supra, nota 17.

[1] Cfr., ad es., Latin Correspondence by Alberico Gentili and John Rainolds on Academic Drama, Translated with an Introduction by L. Markowicz (Institut für Englische Sprache und Literatur, Universität Salzburg 1977), pp. 26 nota 18, 28 nota 21.

[1] Circa questa corrispondenza, pubblicata solo in parte dal Rainolds nel 1599 (si tratta delle epistole dal 7 luglio al 5 agosto 1593; cfr. infra, nota 56), e criticamente edita nel secolo scorso (cfr. Latin Correspondence, cit., pp. 16-135), cui si aggiungono le epistole ancora inedite conservate in O.C.C.C., ms. 352 (dal novembre 1593 al 12 marzo 1594), cfr. la bibliografia indicata in G. Minnucci, Una lettera inedita, cit., pp. 11-12 e nota 35.

[1] O.C.C.C., ms. 352, pp. 213-307.

[1] Cfr. D. Panizza, Alberico Gentili, giurista ideologo, cit., pp. 55-87; J.W. Binns, Women or Transvestites, cit., pp. 95-120; John Rainolds’s Oxford Lectures on Aristotle’s Rhetoric, Edited and Translated with Commentary by L. D. Green, Newark University of Delaware Press, 1986, pp. 36-37, 78-82 e, da ultimo, G. Minnucci, «Silete theologi in munere alieno». Alberico Gentili, cit., pp. 83, 87, 130-172, tutti con ampi riferimenti bibliografici.

[1] «[…] at moralia, et politica sacrorum librorum aut nostra existimavi, aut certe communia nobis, et theologis[…];Communes sunt sacri libri; et in his, quae spectant ad secundam tabulam, nostri magis, quam vestri[…]» (Latin Correspondence, cit., pp. 18, 38).

[1] O.C.C.C. ms. 352, pp. 283-284, epistola di Gentili a Rainolds dell’8 febbraio 1594: «[…] Si | secunda tabula est ius humanum: ergo secundam tabulam sic tractant iurisconsulti, non theologi. Atque assumptionem ita confirmabam, quod est ius inter hominem et hominem, humanum est: sed secunda tabula hoc ius est inter hominem et hominem, ergo secunda tabula ius humanum est[…]». Una posizione analoga era stata assunta dai giuristi luterani all’inizio della Riforma: cfr. J. Witte jr., Diritto e protestantesimo. La dottrina giuridica della Riforma luterana, Macerata, Liberilibri, 2012, (Oche del Campidoglio 108), pp. 26-27.

[1] Ibid., p. 284: «[…] Si ars, uel scientia theologorum distinguitur ab arte iurisconsultorum, fine distinguitur, subiecto distinguitur. Sed hoc iurisconsultorum est ius humanum, diuinum theologorum: finis iurisconsultorum homini hominem, finis theologorum deo hominem coniungere. ergo extra subiectum, et finem uestrum, et in nostris miscetis uos si in iure humano miscetis[…]»; analoghi concetti esprimerà nel De nuptiis, cit., I.VII, pp. 37, 41 (cfr. infra, nota 58).

[1] Per la letteratura sul punto cfr. la bibliografia indicata supra, nota 13.

[1] Cfr. Latin Correspondence, cit., p. 26: «Nam theologia, ut fidei, sic vitae est magistra» (epistola del Rainolds a Gentili del 10 luglio 1593).

[1] O.C.C.C. ms. 352, p. 304, epistola di Rainolds a Gentili del 12 marzo 1594.

[1] La corrispondenza fra Gentili e Rainolds, però, non era rimasta racchiusa in un semplice scambio epistolare: gli accademici di Oxford ne erano venuti a conoscenza. Lo si può dedurre dalla conclusione dell’ultima epistola che Gentili aveva indirizzato al Rainolds (8 febbraio 1594) nella quale il giurista aveva contestato al teologo di aver reso parzialmente noto il loro rapporto epistolare, mostrando in pubblico il testo delle lettere che quest’ultimo gli aveva inviato. Ad Alberico, pertanto, per far conoscere le sue idee, non restava che assumere una pubblica presa di posizione in sua difesa, delle buone ragioni della iurisprudentia e di coloro che la professavano. La conclusione della polemica verrà affidata da Gentili ad un Discorso in difesa della iurisprudentia redatto dopo il 12 marzo del 1594, conservato in O.B.L.D. 612, ff. 38v-40av+28r. Su tutto il punto cfr. G. Minnucci, Un discorso inedito di Alberico Gentili cit., pp. 211-251.

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. IX, p. 61. Su quest’opera la letteratura è amplissima. Mi limito ad indicare due “voci” recenti: G. Minnucci, De Jure Belli Libri Tres (Three Books on the Law of War) 1598, Alberico Gentili (Albericus Gentilis) (1552-1608), in The Formation and Transmission of Western Legal Culture, 150 Books that made the Law in the Age of Printing, edd. S. Dauchy, G. Martyn, A. Musson, H. Pihlajamäki, A. Wijffels (Studies in the History of Law and Justice, 7), Cham, Springer, 2016, pp. 149-152, nu. 42; A. A. Cassi, Alle origini del diritto internazionale: Alberico Gentili, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti. Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava Appendice. Diritto, Roma, Treccani, 2012, pp. 181-188.

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. IX, p. 61.

[1] Ibid., p. 61.

[1] Gentili allega: Vict. Relect. (= Francisci de Vitoria Relectiones theologicae I, 5, 2, 11 e 15, pp. 199-200). Per lo sciogimento dell’allegazione cfr. A. Gentili, Il diritto di guerra, cit., p. 57 nota 13.

[1] Cfr. A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. IX, pp. 61-64.

[1] Sul punto cfr. supra, nota 17.

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. IX, pp. 64-65. Vale qui la pena di sottolineare che, molto probabilmente, l’espressione «Religio erga Deum est», potrebbe derivare dalla lettura del De civitate Dei di S. Agostino (PL XLI, X.I.3) e da Dig. 1.1.2: «Veluti erga Deum religio: ut parentibus et patriae pareamus».

[1] «Ego vero ut theologorum auctoritate in re religionis valde moveor, ita in re morali, aut politica non valde. Et loquuntur hi maxime, quum daemonibus ludi exhiberentur[…]» (il passo è tratto da A. Gentilis Commentatio ad l. III C. de professoribus et medicis, Hanoviae, apud Guilielmum Antonium, 1614, p.111; per l’ed. moderna cfr. supra, nota 29). Per i passi sul tema estratti dal De legationibus, e dalla De iure belli Commentatio prima,  cfr. supra, nota 17.

[1] «Supradictæ quæstiones, ut dixi, traxerunt alias, et illam grauissimam, si secunda tabula legum diuinarum ad nos iurisconsultos pertineant magis, quam ad uos theologos. Aio ego, Negas tu. et quaestio est non de simplici, et catechistica interpretatione, instructione, inculcatione; sed de grauiori, subtiliori, difficiliori, excellentiori. Et licet tu meum paradoxon absurdum dicas, meo tamen non dum respondes argumento: quod hoc fuit, Humanum ius tractant sic iurisconsulti, non theologi: Si | secunda tabula est ius humanum: ergo secundam tabulam sic tractant iurisconsulti, non theologi. Atque assumptionem ita confirmabam, quod est ius inter hominem et hominem, humanum est: sed secunda tabula hoc ius est inter hominem et hominem: ergo secunda tabula ius humanum est. Enunciatum uero hic, si ius distinguitur a iure respectu eorum inter quos est, ius humanum est, quod inter homines est: sed eo modo ius a iure distinguitur».  (O.C.C.C., ms. 352, pp. 283 ca. fi.-284, epistola di Gentili a Rainolds dell’8 febbraio 1594).

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. XII, p. 92.

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., pp. 59-92: I. IX: «An bellum iustum sit pro religione»; I. X: «Si Princeps religionem bello apud suos iuste tuetur»; I. XI: «An subditi bellent contra principem ex caussa religionis»; I. XII: «Vtrum sint caussæ naturales belli faciendi».

[1] Indico alcuni passaggi del I Libro del De nuptiis, nei quali Alberico fa riferimento a dispute avute con un teologo: «Theologus aliquando nec apte disputabat contra me hic[…]» (A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. V, p. 21); «[…] Qui mecum aliquando contendebat theologus, is contra me asserebat[…]» (ibid., I. XVI, p. 91). Malgrado non lo nomini mai, è indiscutibilmente certo, proprio in ragione dei temi trattati, che alluda a John Rainolds.

[1] Secondo Alberico, infatti, «Theologia sermo de Deo est, qui sermo in secunda tabula non est, sed in prima. Est quidem theologia sermoque, quem enuntiat Deus. Sed sermo de se Deo ex usu, et proprie magis dictus semper est theologia. Nam et multa loquitur Deus, quae non pertinent ad theologiam. Quod ipsi te theologi docent. Est theologia sapientia (rectissime neque scientiae, neque artis nomine definitur) rerum diuinarum: hoc est de diuinitate sermo, et oratio: et de rebus quae ad Deum ordinatae sunt. Ut cuius proprium, et simpliciter obiectum, materiave sit Deus: qui per theologiam nobis se spectandum, et sapiendum exhibet […]» (A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. IX, pp. 41-42). Sul punto si veda anche Latin Correspondence, cit., p. 9: «Gentili attacks the Puritan’s area of professional competence, arguing that the sacred books are common to all and those of the second table the prerogative of the lawyer».

[1] A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. V,  p. 21: «Theologus aliquando nec apte disputabat contra me hic, quod professor iuris ciuilis non possit recte isthaec exponere, quae sunt secundae tabulae legum Mosaycarum: quia ciuile ius concubinatum permittat, et libidines alias. Sic et contendebat ille mecum, secundam illam tabulam ad studiosos iuris non spectare. Contra quam (sic!) ego opinabar, et opinor etiamnum, pertinere tabulam ad nos magis, quam ad theologos[…]». In questa parte della Disputatio, soffermandosi sulle duae tabulae, Gentili riprende e sviluppa le argomentazioni già utilizzate nell’epistolario avuto col Rainolds, con particolare riferimento alla lettera dell’8 febbraio 1594 (sulla quale cfr. supra, note 36, 50).

[1] J. Rainolds, Th’ overthrow of Stage-Playes, By the way of controversie betwixt D. Gager and D. Rainoldes, wherein all the reasons that can be made for them are notably 11refutedWhereunto are added […]  certaine latine Letters betwixt the saed Maister Rainoldes and Doct. Gentiles […]  concerning the same matter, Middleburg 1599 (2 ed. Oxford 1629), pp. 164-190.  Ora si leggono in Latin Correspondence, cit.

[1]A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. VIII, p. 37.

[1] Ibid., I. VIII, p. 37 : «Atque quod erit subiectum, aut finis unius, id non erit subiectum, aut finis alterius. Sed theologiae subiectum Deus est: finis ius diuinum. Iurisprudentie subiectum homo, siue actiones humanae: finis ius humanum. Et ius hoc humanum in secunda tabula continetur. Ergo est iurisprudentis secunda tabula. Eius scilicet est secunda tabula, cuius est subiectum, et finis secundae tabulae. Subiectum autem, et finis eius tabulae spectare dicetur ad iurisconsultum». Si noti la somiglianza fra questo passaggio e il testo dell’epistola di Gentili al Rainolds dell’8 febbraio 1594 (supra, note 37, 50).

[1] Ibid., I. VIII, p. 37.

[1] Ivi, I. VIII,  pp. 37-38.

[1] Ivi, I. VIII, p. 41. Si legga, inoltre, quanto il Gentili afferma in un altro passaggio del De nuptiis: «Hic concludo, secundam tabulam nostram esse: que non ius diuinum, non theologiam, non sanctitatem, non pietatem, non religionem docet, sed ius hominum». (ivi, I. IX, p. 49).

[1] La questione è esaminata da Gentili nei Disputationum de nuptiis, cit., pp. 9-10. Sul punto cfr. più ampiamente G. Minnucci, Foro della coscienza e foro esterno nel pensiero giuridico della prima Età moderna, in Gli inizi del diritto pubblico europeo, 3. Verso la costruzione della modernità. Die Anfänge des öffentlichen Rechts, 3. Auf dem Wege zur Etablierung des  öffentlichen  Rechts zwischen Mittelalter und Moderne (Trento 15-19 settembre 2009) a cura di/hrsg. von G. Dilcher – D. Quaglioni, Bologna/Berlin, Il Mulino/Duncker & Humblot, 2011,  (Annali dell’istituto storico italo-germanico in Trento, Contributi 25), pp. 55-86; Id., Alberico Gentili iuris interpres della prima Età moderna, Bologna, Monduzzi, 2011 (Archivio per la Storia del diritto medioevale e moderno; Studi e Testi, 16), pp. 40-50 ove i riferimenti espliciti alle opere del Covarruvias e del Claro.

[1] A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. XII,  p. 63.

[1] Come ritenere lecita, ad esempio, l’uccisione dei rei di adulterio e di furto, così come risulta previsto nelle norme del Corpus iuris civilis? Non sono questi eventi che, al contrario, proprio per il fatto di costituire peccato grave, dovrebbero essere regolati esclusivamente dalla legge divina e da quella canonica, rendendo pertanto assolutamente inapplicabili le leggi civili in materia?  (A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. I, p. 5: «Et igitur, quod ubi tractatur de peccato, standum sit iuri canonico in utroque foro. Et sic igitur reiiciendum videtur ius civile: quaerendum aut canonicum, aut aliud. Ius civile admittit caedesque adulterorum, item latronum. Quae et cum peccato sunt, et a pontificibus, et theologis condemnantur[…]»). Alberico allega in marg.: c. 6. 33. q. 2 (Decretum Gratiani, C. XXXIII q. II c. 6: «Inter hec uestra sanctitas addere studuit, si cuius uxor adulterium perpetrauerit, utrum marito illius liceat secundum mundanam legem eam interficere. Sed sancta Dei ecclesia numquam mundanis constringitur legibus; gladium non habet, nisi spiritualem; non occidit, sed uiuificat»); Aug. ep. 154 (Avrelii Avgvstini Hipponensis Episcopi Opera omnia, PL XXXIII, Epist. 47 [alias 154], col. 186: «De occidendis hominibus ne ab eis quisque occidatur, non mihi placet consilium; nisi forte sit miles, aut publica functione teneatur, ut non pro se hoc faciat, sed pro aliis, vel pro civitate, ubi etiam ipse est, accepta legitima potestate, si ejus congruit personae»); et lib. i. de lib. ar. (Avrelii Avgvstini Hipponensis Episcopi De libero arbitrio, in CCSL, XXIX, Turnhout 1970, p. 217 nu. 33: «Non ergo lex iusta est, quae dat potestatem uel uiatori, ut latronem, ne ab eo ipse occidatur, occidat, uel cuipiam uiro aut feminae, ut uiolenter sibi stupratorem irruentem ante inlatum stuprum, si possit, interimat. Nam militi etiam iubetur lege, ut hostem necet, a qua caede si temperauerit, ab imperatore poenas luit. Num istas leges iniustas uel potius nulla dicere audebimus?»); Ambr. 3. de off. 4. (S. Ambrosii Mediolanensis De officiis [III. IV. 24-28], in CCSL, XV, Turnhout 2000, pp. 161-163: «27. […] utpote qui, etiam si latronem armatum incidat, ferientem referire non possit ne dum salutem defendit, pietatem contaminet. De quo in Euangelii libris [Mt. 26.52] aperta et euidens sententia est: Reconde gladium tuum: omnis enim qui gladio percusserit gladio ferietur. Qui latro detestabilior quam persecutor qui uenerat ut Christum occideret? Sed noluit se Christus persecutorem defendi uulnere qui uoluit suo uulnere omnes sanare»).

[1] Per la lettura dei passi di papa Niccolò I (C. XXXIII q. II c. 6), di Agostino ed Ambrogio cfr. supra, nota 64.

[1] A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. II, p. 8.

[1] La specificazione, da parte di Agostino, dell’elemento della violenza è particolarmente significativa («uiolenter sibi stupratorem irruentem») perché lo stuprum, di per sé, alla luce delle fonti, è la relazione carnale volontaria con una virgo, una vidua, un puer. Sul punto cfr. la letteratura citata dal Gentili in un’altra sua opera: A. Gentilis Ad titulum Codicis Ad legem Juliam de adulteriis Commentarius, in G. Minnucci, Alberico Gentili tra mos italicus e mos gallicus. L’inedito Commentario ad legem juliam de adulteriis, Bologna, Monduzzi, 2002 (Archivio per la Storia del diritto medioevale e moderno: Studi e Testi, 6), pp. 31-36, 177.

[1] Un’affermazione così recisa risolve il dubbio sollevato dal Wijffels circa la prevalenza del diritto naturale rispetto alla legislazione del principe nel pensiero gentiliano (cfr. A. Wijffels, Le disputazioni di Alberico Gentili sul diritto pubblico, in Alberico Gentili. La salvaguardia dei beni culturali nel diritto internazionale. Atti del Convegno, Dodicesima giornata gentiliana cit., p. 250: «Benché uno dei meriti delle disputazioni di Gentili fosse quello di elaborare un’argomentazione giuridica coerente del Re assolutista come “Dio in terra”, un sovrano che, proprio per l’essenza della sua posizione, non avrebbe potuto essere soggetto ad alcun diritto o giustizia umani, né quindi alla “rule of law” [tranne che alla legge divina e forse al diritto naturale], sarebbe stato futile confutare le eventuali limitazioni dei poteri del sovrano o giustificarne i poteri illimitati attraverso argomenti giuridici»).

[1] Si noti che Alberico utilizza le espressioni ius gentium e ratio naturalis che sono proprie del frammento di Gaio (Dig. 1.1.9): «Omnes populi, qui  legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur. Nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium civitatis est vocaturque ius civile, quasi ius proprium ipsius civitatis: quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur».

[1] Sul punto cfr., da ultimo, I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, (Il Diritto nella storia, 9), pp. 159-164.

[1] Epistola Apologetica ad lectorem, in A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., n.n.

[1] A. Gentilis Disputationum de nuptiis libri VII, cit., I. XVI, p. 89: «Do ego theologis ius magni testimonii de Scripturis sacris omnibus. Honorem quasi praecipuis earundem adseruatoribus defero. Supremos earum adsertores facile agnosco. Nam quis censeat, si locutus sit Deus, necne, melius his, qui penitius cum Deo sunt?».

[1] Ivi, I. II; I. XII, pp. 11, 63.

[1] Ivi, I. XI, p. 57. Per un esame più ampio della posizione gentiliana sul punto cfr. G. Minnucci Alberico Gentili iuris interpres, cit., pp.  19-60. A questo proposito, in relazione alla nascita della moderna scienza del diritto internazionale, avendo riferimento alle elaborazioni cinque-seicentesche, come separazione del diritto dalla teologia, si veda quanto sostiente il Quaglioni: «Inoltre non sarà male aggiungere che se di emancipazione si trattò, fu emancipazione da un sistema delle fonti in cui teologia e diritto si trovavano a coordinarsi e a compenetrarsi, fino a formare un solo complesso normativo-dottrinale dotato di una lunga e persistente forza ordinante, tale da costituire un retaggio le cui rovine emergono forse ancora, a tratti, dalle profondità della nostra civiltà giuridica» (D. Quaglioni, Guerra e diritto nel Cinquecento: i trattatisti del «ius militare», in Storia del diritto medioevale e moderno, a cura di F. Liotta, Bologna, Monduzzi, 2007, pp. 191-192).

[1] A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. X, p 73.

[1] Almeno da un punto di vista teorico sembra essere proprio questa la posizione pubblicamente espressa dalla regina Elisabetta I allorquando, in occasione della sua visita ad Oxford, così si era espressa, riprovandone le idee, nei confronti del Rainolds: «Moneo ego, ut non praeeatis leges; sequamini. Ne disputetis, non meliora possint praescribi; sed observetis, quae lex Divina iubet, et nostra cogit […]» (cfr. supra, nota 25).

[1] Gentili sa bene che per garantire l’esercizio della libertà religiosa occorre l’intervento della pubblica autorità. E pur essendo dimostrato dalla storia che i Principi preferiscono l’unicità della religione nel proprio Regno, talvolta difendendola con le armi aggiunge: «Mihi tamen placet disputatio Bodini, ut vi non sit utendum contra subditos, quia aliam amplexentur religionem. Sed semper sub hac exceptione sic dico, Nisi quid detrimenti illinc respublica capiat» (A. Gentilis De iure belli libri III, cit., I. X, p. 71). Seguono numerosi esempi (pp. 71-73)  che attestano come, nell’antichità, ma anche nall’Europa del suo tempo e nell’Impero Ottomano, convivessero religioni diverse. Circa l’espressione «Ne quid res publica detrimenti capiat» che Gentili estrapola da Cicerone (Cic. Cat. 1.4; cfr. l’ed. it., p. 64 nota 32),  si veda, ad esempio: F. Caldini, Livio e il Senatus consultum ultimum del 464 a. C., in «Prometheus», 28 (2002), pp. 71-86. Per il rinvio al pensiero di Bodin cfr., da ultimo, D. Quaglioni, The Italian “Readers” of Bodin, 17th-18th Centuries: The Italian “Readers” out of Italy – Alberico Gentili, in The Reception of Bodin, ed. by H. A. Lloyd, Brill, Leiden-Boston 2013, pp. 371-386, che si sofferma sul passaggio citato da Gentili alle pp. 378-379; A. Wijffels, From Perugia to Oxford: Past and Present of Political Paradigms, in Alberico Gentili la tradizione giuridica perugina e la fondazione del diritto internazionale, Atti dell’incontro di studio (Perugia, 10 ottobre 2008), a cura di F. Treggiari, Perugia, Iseg G. Scaduto, 2010, pp. 68-77.

[1] A. Gentilis De legationibus libri tres, cit., II. XI, p. 64. Cfr. supra, nota 19.

[1] F. Ruffini, La libertà religiosa, cit., p. 7. Sul Ruffini cfr. F. Margiotta Broglio, Ruffini, Francesco, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., II, pp. 1753-1755; D. Quaglioni, «A ciascuno il suo»: libertà religiosa e sovranità in Francesco Ruffini, in «Pòlemos», 2 (2007), pp. 33-43.