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Lo scorso 4 giugno, la Fondazione Magna Carta un convegno in occasione del centenario dello storico appello di don Luigi Sturzo. Quello dedicato ai “Liberi e Forti”. Di seguito, pubblichiamo l’intervento della Prof.ssa Vera Capperucci che ha approfondito le due diverse letture, quella degsperiana e quella dossettiana, del ruolo dei cattolici in politica.

 

 

Rispetto al tema di questo incontro, dunque ad una ricostruzione di lungo periodo della partecipazione dei cattolici alla vita politica nella storia repubblicana alla luce dell’esperienza sturziana e dell’Appello agli uomini liberi e forti, il confronto tra De Gasperi e Dossetti assume un certo significato per almeno tre ordini di ragioni che, per questioni di tempo, mi limiterò a richiamare brevemente e che, rispetto ad un tema ovviamente complesso, costituiscono anche gli ambiti intorno ai quali proverò a sviluppare la comparazione. 

1. Il primo aspetto per il cui il confronto è rilevante riguarda il fatto che esso investe appieno la generale questione del rapporto tra fede e politica, tra Chiesa e società politica, traducendosi in interpretazioni diametralmente opposte. De Gasperi e Dossetti rappresentano, cioè, prima ancora che due declinazioni del cattolicesimo politico, due diverse tradizioni culturali del cattolicesimo italiano. Vale a dire due diverse letture del rapporto tra confessionalità e aconfessionalità, tra pluralismo e unità, tra cristianizzazione e laicità che solo in un secondo momento si sarebbero tradotte in due diverse “teologie della politica”.

2. Il secondo aspetto che rende il confronto significativo è determinato dalla peculiarità del contesto “storico” nel quale esso si sarebbe sviluppato. Rispetto alla stagione del popolarismo sturziano, cioè, il passaggio al secondo dopoguerra avrebbe segnato una profonda discontinuità nella vicenda del cattolicesimo italiano tanto sul piano culturale, quanto su quello politico. Sul primo aspetto avrebbe inciso la soluzione della questione romana che avrebbe posto le premesse per una nuova declinazione del rapporto tra Chiesa e politica; sul secondo aspetto avrebbe inciso, invece, il ruolo che i cattolici avrebbero svolto nella successione al regime fascista. All’interno di un quadro profondamente modificato, dunque, il confronto tra De Gasperi e Dossetti diventa emblematico non soltanto di sensibilità culturali diverse, ma delle conseguenze che quelle premesse culturali avrebbero generano sul terreno politico, evidenziano delle fratture profonde. Mi limiterò a richiamare soltanto alcuni esempi per esplicitare questo passaggio: il tema del partito, della sua organizzazione, della sua funzione e del suo rapporto con l’istituzione ecclesiastica; il rapporto con il fascismo, con l’antifascismo e con la resistenza; la questione della continuità o discontinuità dello Stato. Temi centrali a partire dai quali, all’interno della Democrazia cristiana, Dossetti avrebbe rappresentato l’unica reale alternativa alla leadership degasperiana

3. Il terzo aspetto riguarda, infine, il ruolo centrale dei cattolici nel sistema politico che avrebbe un ulteriore elemento di discontinuità nella storia del cattolicesimo italiano. Il confronto tra De Gasperi e Dossetti, infatti, si sarebbe sviluppato all’interno di un partito con il quale i cattolici non soltanto uscivano da una lunga storia di opposizione politica ma divenivano forza di maggioranza e di governo. Rispetto all’esperienza del popolarismo, la Democrazia cristiana si trovava ad essere politicamente fondata non soltanto sulla rappresentanza politica dei cattolici quale strumento di mediazione tra Chiesa e politica, ma anche sulla gestione dello Stato. Il che, se fosse necessario, contribuisce a rendere il confronto tra De Gasperi e Dossetti ancora più articolato poiché avrebbe finito per investire, oltre alle questioni già sollevate, anche temi più “istituzionali”, legati proprio alla funzione centrale del partito nel sistema. Anche in questo caso, brevi accenni sono sufficienti a dare contezza di un dibattito complesso: il rapporto tra lo Stato e il partito, le diverse soluzioni al problema della governabilità, la definizione dell’indirizzo politico nelle scelte del governo; la costruzione delle alleanze, le scelte di politica interna e di politica estera. 

Prima di entrare sinteticamente nel merito dei singoli punti, è opportuna una precisazione di tipo metodologico: nel confronto tra De Gasperi e Dossetti si è scelto di non estendere il discorso a quello che viene definito il “dossettismo postdossettiano”. Questa scelta dipende essenzialmente da due ordini ragioni: la prima si ricava dalla testimonianza diretta dello stesso Dossetti, che avrebbe dichiarato più volte di considerare conclusa la sua stagione politica nel 1952; la seconda dalla convinzione, sulla quale una parte della storiografia concorda, che il post dossettismo sia cosa altra rispetto a Dossetti, tanto dal punto di vista culturale, quanto da quello politico. 

 Vengo, dunque, al merito dei singoli punti, prendendo le mosse da quelle radici culturali che segnano una distanza tra De Gasperi e Dossetti e dalle quali poi sarebbero derivate le diverse letture politiche del ruolo dei cattolici nel secondo dopoguerra. Per esigenze di tempo non è possibile ricostruire nel dettaglio i passaggi di due percorsi biografici ricchi di suggestioni e di esperienze non difficilmente sovrapponibili. Mi limiterò, dunque a portare l’attenzione soltanto su alcuni aspetti più significativi ai fini della comparazione. 

Dal punto di vista culturale tutta l’esperienza di De Gasperi sarebbe rimasta fortemente segnata dalla commistione di esperienze diverse: il legame profondo con il suo Trentino cattolico, l’impulso riformista del movimento democratico cristiano viennese e una forte sensibilità verso quella socialità cattolica che sembrava essere la migliore traduzione politica della Rerum Novarum; gli insegnamenti più conservatori del teologo Commer che gli avrebbero trasmesso l’importanza di mantenere sempre un legame solido con la tradizione; la contrapposizione tra cattolicesimo intransigente e cattolicesimo liberale che avrebbe segnato la storia del movimento cattolico fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. Una storia che De Gasperi avrebbe vissuto innanzitutto sul piano personale, come credente, e che avrebbe avuto modo di sperimentare molto presto, sul piano politico, prima come deputato del parlamento austriaco di Vienna poi, dopo la Prima guerra mondiale, come esponente di primo piano del Partito popolare sturziano. E se la prima esperienza politica avrebbe segnato profondamente soprattutto la sua visione del rapporto tra dimensione nazionale e dimensione sovranazionale, la seconda lo avrebbe avvicinato profondamente ai principi e ai metodi politici del costituzionalismo liberale. Su questo passaggio vale la pena fare una precisazione: De Gasperi non avrebbe mai amato essere definito “un cattolico liberale”: in effetti la sua formazione è molto più complessa e ricca di suggestioni e semmai appare all’origine più vicina alla corrente democratica del cattolicesimo, nella sua versione europea piuttosto che in quella italiana. Non a caso, in diverse circostanze, avrebbe  definito Murri un “misero apostata”. Proprio la guerra, e soprattutto l’emergere impellente della questione nazionale con la quale De Gasperi si era già confrontato da trentino negli anni viennesi, avrebbero maturato in lui la consapevolezza di quanto del liberalismo, soprattutto del costituzionalismo liberale, fosse indispensabile recepire ai fini dello svolgimento di una piena vita democratica. Forzando e semplificando i termini si potrebbe dire che diveniva chiaro come le battaglie del cattolicesimo democratico non potessero essere combattute che dentro gli schemi politici e istituzionali del costituzionalismo liberale. Liberale, dunque, in quell’essere divenuto politicamente umanista, come lui stesso avrebbe ricordato, e nel suo costante riferirsi all’esperienza del liberalismo del XIX secolo, ma anche democratico cristiano nel significato storico e dottrinale che il termine avrebbe assunto a partire dal pontificato di Leone XIII. Liberalismo, democrazia, cristianesimo finivano, così, per saldarsi, definendo la cornice nella quale il ruolo politico dei cattolici poteva essere pensato e organizzato, ispirando tutta la battaglia politica che De Gasperi avrebbe combattuto nel secondo dopoguerra. Una battaglia che molti avrebbero letto in continuità con la vicenda del popolarismo sturziano ma che, in realtà se ne recuperava alcuni tratti, al contempo ne prendeva profondamente le distanze. Per ragioni di tempo mi limiterò ad isolare soltanto alcuni degli ambiti nei quali la commistione di questi riferimenti sarebbe divenuta più evidente.

A partire dal rapporto tra fede e politica. Il riferimento al cristianesimo sarebbe rimasto sempre, in De Gasperi, un fatto morale e individuale, mentre la politica avrebbe rappresentato l’ambito nel quale l’autonomia del credente poteva e doveva determinarsi. Alla fede e all’obbedienza alla Chiesa, all’ideologia cristiana della quale essa era unica maestra e custode, De Gasperi avrebbe sempre contrapposto una visione laica della politica. Ne resta testimonianza nelle parole con cui De Gasperi avrebbe commentato il rifiuto di Pio XII di concedergli udienza in occasione della consacrazione di una delle figlie, quando avrebbe pronunciato la famosa frase «come cattolico obbedisco alla volontà del papa, ma non posso dimenticare di essere il leader di un partito e il capo di un governo: non posso espormi al rischio di cercare un incontro che non sia accetto». Ad un cattolicesimo rigoroso nell’animo, ma coerentemente laico in politica, De Gasperi avrebbe dunque ispirato tutta la sua concezione del ruolo dei cattolici in politica. A rendere conciliabili le due posizioni avrebbe certamente contribuito il superamento della questione romana che consentiva a De Gasperi di declinare in maniera diversa proprio il rapporto tra cristianesimo e politica. Questo aspetto costituisce uno degli elementi di maggiore discontinuità rispetto all’esperienza sturziana. A differenza di Sturzo, che aveva dovuto dichiarare apertamente il carattere aconfessionale del Ppi, come testimonia lo stesso Appello agli uomini liberi e forti, costruendo il consenso al partito intorno ad un programma, De Gasperi poteva considerare superata quella questione. Il nuovo partito dei cattolici poteva richiamarsi ideologicamente al cristianesimo, poteva scegliere come proprio interlocutore la Santa Sede senza che questa scelta comportasse questioni di lealtà politica verso lo Stato. Se, dunque, la proposta sturziana si era dovuta muovere nella direzione del partito fra cattolici, De Gasperi avrebbe potuto superare lo storico steccato e segnare il passaggio al partito dei cattolici. Un partito in cui il riferimento al programma diventava una realtà flessibile e adattabile alle contingenze; un partito che costruiva la propria identità sul richiamo al cristianesimo, e la sua unità sulla “disciplina cattolica”, ma fuori da qualsiasi schema di confessionalizzazione o cristianizzazione delle istituzioni e dello Stato. Ispirazione cristiana, ma azione laica, possono apparire contraddizioni se non fossero inquadrate all’interno della più generale concezione dello Stato e del rapporto tra partito e Stato che costituisce, forse, uno degli aspetti più distintivi della politica degasperiana. 

Vengo, dunque, al secondo punto: il rapporto tra Stato e partito. Solo lo Stato laico e liberale, come espressione giuridica formale, poteva riconoscere piena cittadinanza ai principi e ai valori del cristianesimo: solo lo Stato liberale, in altri termini, avrebbe consentito di collocare l’impegno politico dei cattolici all’interno di uno spazio pubblico in cui era possibile sviluppare una democrazia concretamente pluralista nella quale i cattolici avrebbero avuto un ruolo “paritario” rispetto alle altre culture politiche. Se, allora, il partito poteva restare al suo interno cristianamente ispirato, esso era chiamato ad operare nello Stato nel pieno rispetto della sua laicità, perché solo un’azione laica avrebbe consentito allo Stato di svolgere appieno quell’opera di mediazione e di sintesi che costituisce l’essenza della sua funzione pubblica.

Questa cornice definisce in maniera chiara la concezione degasperiana del rapporto tra partito e Stato, anzi, in qualche misura ne era il presupposto. Se il partito è il luogo della rappresentanza e della sintesi degli interessi del mondo cattolico, è allo Stato, ai suoi organi e ai suoi poteri che spetta il compito di rappresentare e armonizzare istanze sociali e partitiche diverse, traducendole attraverso la mediazione, in scelte politiche condivise. E in questa mediazione la laicità costituisce premessa indispensabile alla rappresentanza e al raggiungimento della sintesi.

In questa declinazione del rapporto tra partito e Stato, De Gasperi recuperava tutta la sua precedente esperienza politica e finiva per avvicinarsi nuovamente a Sturzo: i partiti, strumenti utili nel funzionamento delle democrazie, avrebbero dovuto operare in funzione dello Stato e non viceversa. Il suo apprezzamento per il funzionamento delle democrazie di stampo liberale lo avrebbero indotto a maturare una concezione dell’assetto istituzionale basata sul modello del governo di gabinetto: prima il governo, poi il parlamento, infine i partiti. Difesa della centralità e delle prerogative istituzionali del Parlamento, dunque, non dei partiti; necessità che il Governo, e con esso il suo Presidente, dovesse essere messo nelle condizioni di svolgere appieno il ruolo previsto dalla Costituzione.

A questa visione dell’assetto politico-istituzionale De Gasperi avrebbe sempre ispirato il suo impegno e il suo disegno politico: lo avrebbe fatto nel momento in cui, nel gennaio del 1946, dopo la sua nomina a Presidente del Consiglio, avrebbe scelto di rinunciare al ruolo di segretario politico della Dc, ritenendo le due cariche incompatibili; ma lo avrebbe soprattutto fatto nella sua azione di governo. Pur nel quadro di un assetto costituzionale che avrebbe lasciato piuttosto inattuato il riferimento all’ordine del giorno Perassi, De Gasperi avrebbe guidato il governo nel pieno rispetto del carattere coalizionale delle sue maggioranze, ma esercitando una sorta di premierato di fatto. A questo proposito di potrebbero richiamare diversi esempi: in più di qualche occasione, soprattutto legata alla formazione o alla crisi dei governi da lui presieduti, Togliatti lo avrebbe accusato nel dibattito in aula, di essere un dittatore, di operare come un cancelliere, di voler esercitare un potere personale. In una delle numerose repliche alle accuse rivoltegli dal segretario del Pci, De Gasperi avrebbe ribadito la propria interpretazione del dettato costituzionale, accentuando il principio della monocraticità, denunciando i rischi dell’antiparlamentarismo e, soprattutto, ricordando che l’articolo 49 non doveva indurre ad un riconoscimento costituzionale dei partiti. Anche l’ultima battaglia per la modifica del sistema elettorale in senso maggioritario sarebbe andata nella stessa direzione: l’esigenza di governi forti e stabili sarebbe passata attraverso una “necessaria” attenuazione del ruolo dei partiti nelle istituzioni. La sua sconfitta “politica” avrebbe aperto le porte ad una nuova fase della storia politica italiana, emblematicamente rappresentata proprio da un radicale rovesciamento del rapporto tra partito e Stato, tra partito e istituzioni, che modificava gli stessi presupposti su cui De Gasperi aveva letto e declinato il ruolo politico dei cattolici.

Presupposti che, non a caso, avevano rappresentato il motivo della distanza e della forte contrapposizione con la proposta politica dossettiana.  

Una proposta che, anche nel caso di Dossetti, affondava le radici nella elaborazione di un disegno politico che appariva il riflesso di un preciso percorso culturale. Un percorso di formazione e di riflessione prima di tutto sulle ragioni della crisi religiosa della contemporaneità, fortemente influenzato dal cattolicesimo francese, tanto nella versione del personalismo cristiano di Mounier, quanto in quella dell’umanesimo integrale di Maritain. Costante ricerca di una risposta alla crisi di civiltà, dunque, che si sarebbe tradotta innanzitutto nell’aspirazione ad un radicale rinnovamento della Chiesa, finalizzato a cogliere le grandi trasformazioni in atto e dare loro un ordine nuovo secondo nuove forme di civiltà, al fine di comprenderne e guidare l’evoluzione. Ma ricerca che avrebbe orientato anche tutta la sua esperienza politica. Nel caso di Dossetti, molto più che in quello di De Gasperi, il piano teorico e filosofico sarebbe risultato sempre prevalente rispetto a quello più concreto della politica, o almeno del realismo politico. D’altronde è il percorso stesso di avvicinamento di Dossetti alla vita politica a segnare alcune peculiarità rispetto a quello degasperiano. Se l’esperienza politica di De Gasperi era maturata attraverso un lungo percorso fortemente incardinato nella cornice del sistema liberaldemocratico, quella di Dossetti, esponente della seconda generazione, si sarebbe inserita nel clima segnato dal fascismo e dalla lotta di liberazione nazionale. La partecipazione alla resistenza, il rapporto con i partiti antifascisti, una certa lettura di lungo periodo della storia politica italiana dalla quale avrebbe derivato un’opposizione radicale nei confronti dello Stato liberale, lo avrebbero persuaso della necessità che i cattolici partecipassero alla vita politica, aspirando a conquistare un ruolo centrale nella fase storica che si sarebbe aperta alla fine della guerra. Metodi e obiettivi di questa partecipazione segnavano la profonda discontinuità valoriale e generazionale rispetto a De Gasperi. Anche in questo caso mi limiterò, per ragioni di tempo, ad elencare gli snodi più significativi di questo confronto. 

Il primo può essere riassunto nell’idea della “rivoluzione”: mentre per De Gasperi la democrazia rappresentava il terreno dell’antirivoluzione, per Dossetti la costruzione di un nuovo ordine democratico passava attraverso un radicale rovesciamento del metodo e dei contenuti. In primo luogo, sul piano ecclesiale: la rivoluzione doveva essere, innanzitutto, rivoluzione della Chiesa: una rivoluzione culturale che avrebbe dovuto investire appieno la sfera religiosa; in secondo luogo, una rivoluzione politica come traduzione sul piano storico concreto della prima. Dunque, rivoluzione dello Stato: nessuna ipotesi di restaurazione dello Stato liberale, né nelle sue forme giuridiche né in quelle politiche, ma costruzione di uno Stato nuovo, capace di affrontare i problemi della nuova fase storica attraverso la riforma profonda delle proprie strutture politiche ed economiche. Uno Stato espressione della “perfettibilità” dell’ordine sociale, distante dai modelli liberali, viziati da un agnosticismo totalizzante, e capace di ancorare la libertà alla responsabilità sociale. Uno Stato, dunque, in cui la libertà non fosse il principale motivo ispiratore, ma che riconoscere il primato della giustizia sociale ed economica. Uno Stato democratico, arricchito dal riferimento alla centralità della persona umana, dall’interventismo, dalla pianificazione economica, dal pacifismo. Uno Stato fondato sulla partecipazione popolare che definiva il ruolo che Dossetti assegnava ai cattolici e alla loro organizzazione politica.

Vengo così al secondo nodo. Dossetti avrebbe visto nel partito un attore centrale del sistema politico. Questa centralità, che rovesciava il modello degasperiano nel rapporto tra i poteri, derivava dalla missione storica che esso era chiamato a svolgere: strumento di educazione e di formazione, il partito avrebbe dovuto guidare il processo di inserimento delle masse cattoliche nello Stato, contribuendo all’affermazione di un modello di democrazia sostanziale e dettando, in qualche misura l’indirizzo del cambiamento. Il partito era, dunque, strumento della rivoluzione. Questa azione di guida non poteva prescindere, anzi trovava fondamento, nella rivendicazione di una precisa identità culturale che Dossetti ricavava tanto dal pensiero di Maritain quanto da un adattamento alla contemporaneità dello schema eusebiano. Se da Maritan derivava l’urgenza del profondo rinnovamento della Chiesa, dallo schema eusebiano derivava l’obiettivo dell’azione politica del partito: la costruzione di uno Stato cristiano come realizzatore della dimensione ecclesiale nella storia. Così, l’opera di riforma cui la Chiesa era chiamata per rispondere sul piano dottrinale alle sfide dei tempi nuovi, trovava un suo corrispettivo nella specificità dell’azione del partito, tutta declinata sul piano politico. Alla Dc spettava, allora, il compito di agire come tribuna politica di una Chiesa riformata per condurre i cattolici verso un’opera di cristianizzazione delle istituzioni e della società. I due piani procedevano paralleli senza sovrapporsi. Al di là di conclusioni affrettate, il disegno di Dossetti non avrebbe mai lasciato spazio né al confessionalismo, né soprattutto al coinvolgimento diretto della Chiesa nella sfera politica. Rispendendo la distinzione di Maritain tra azione del cristiano in quanto tale e azione del cristiano da cristiano, Dossetti rifiutava di sovrapporre il piano politico, terreno della divisione, al piano pastorale, terreno della testimonianza e della conversione. Da questo punto di vista, se vogliamo, il rapporto tra Chiesa e politica trovava in De Gasperi maggiori aperture di quelle che gli avrebbe concesso Dossetti: basti ricordare il dibattito che sarebbe nato intorno alla formulazione prima, all’approvazione poi dell’articolo 5 poi 7 della Costituzione. Presupposto per garantire al partito di realizzare la sua missione storica era, dunque, la totale laicità dell’azione politica. Senza l’indipendenza dalle gerarchie, il partito non sarebbe mai riuscito a trasfondere i valori del cristianesimo nella laicità formale: proprio la laicità costituiva la garanzia per l’indipendenza dell’azione del partito, mentre la cristianizzazione della società politica sarebbe dovuta avvenire per mezzo del partito e non della Chiesa. In realtà, proprio questa separazione, orientata a dare al partito margini di manovra più ampi rispetto alla Chiesa, finiva per colorare il progetto Dossettiano di toni ancora più integralisti. 

Dalla missione storica del partito, e dagli strumenti attraverso i quali avrebbe dovuto operare, si ricava l’ultimo degli elementi su cui mi soffermo. In diverse occasioni, sempre segnate da una profonda critica nei confronti di De Gasperi, Dossetti avrebbe rivendicato una continuità con un aspetto particolare dell’esperienza sturziana: la centralità del momento programmatico. La polemica più celebre resta, a questo proposito, l’articolo pubblicato sulle colonne di «Cronache sociali» ed emblematicamente intitolato Unità sì ma intorno a che cosa? Quel titolo, in qualche misura, racchiudeva l’essenza stessa della visione dossettiana della presenza politica dei cattolici. Se la concezione dossettiana del partito era finalizzata alla costruzione di una società nuova, cristianamente ispirata, la definizione di una piattaforma programmatica costituiva un presupposto imprescindibile che ne determinava metodi e contenuti. Alla costruzione degasperiana di un partito a contenuto programmatico troppo generico e differenziato, in cui l’adesione avveniva piuttosto sulla base di un impegno morale, Dossetti opponeva un partito programma e un partito progetto, fucina di idee, capace di assolvere alla propria funzione civilizzatrice. Lo spazio per la realizzazione di questo disegno avrebbe trovato, proprio nella leadership degasperiana, un limite invalicabile. Lo avrebbe riconosciuto lo stesso Dossetti in occasione degli incontri di Rossena nei quali avrebbe annunciato, ai suoi compagni di corrente, il suo ritiro dalla vita politica. Ma se De Gasperi aveva rappresentato il limite politico al pieno dispiegarsi del disegno Dossettiano, l’impedimento più forte era venuto dal piano culturale. Da quella incapacità, cioè, della Chiesa di perseguire la strada di un necessario e profondo rinnovamento, premessa indispensabile per qualsiasi rivoluzione politica dei cattolici. Quella dei cattolici, dunque, gli appariva prima di tutto una sconfitta culturale e, solo in seconda battuta, politica. 

Rispetto a quella fase della presenza politica dei cattolici nella storia repubblicana, De Gasperi avrebbe, dunque, vinto. Quella vittoria, tuttavia, sarebbe stata in parte superata già a partire dalla legislatura successiva: il ricambio della classe politica, la maggiore forza di alcune elaborazioni culturali che avrebbero marginalizzato quanto restava della cultura liberale e, dunque, di una certa declinazione del rapporto tra cristianesimo e politica, il mutare delle condizioni politiche interne ed esterne, avrebbero segnato l’inizio di una storia diversa. Forse, nel lungo periodo, si sarebbe tentati di pensare che poco sarebbe rimasto del degasperismo e molto più del dossettismo. Lascio questo come spunto di riflessione, mai dimenticando che una valutazione corretta delle “due eredità” non può non tenere conto di quella distinzione tra dossettismo e dossettismo post dossettiano che, non a caso, ho richiamato tra le premesse metodologiche di questo intervento.