Donald Trump diventa presidente degli Stati Uniti esattamente 25 anni dopo il crollo dell’Unione Sovietico e marca con la sua ascesa un netto cambio di paradigma – una nuova fase politica. Nel quarto di secolo precedente gli Stati Uniti sono l’unica potenza di raggio mondiale, ma la loro supremazia è lesa da una serie drammatica di errori strategici e insuccessi politici che ne scuote in profondità il corpo sociale. Trump è la reazione brusca e accelerata allo status calante e ai costi crescenti della potenza americana: il suo attacco ai pilastri dell’ordine mondiale nasce dalla volontà di ricostruire, nelle complesse condizioni presenti (boom tecnologico, economia del debito, globalità politica), una supremazia azzoppata.
Per capire l’attuale disordine strategico bisogna guardare il bilancio – economico e politico – delle tre presidenze a doppio mandato (due democratiche e una repubblicana ma guidata dall’idea, cara ai liberal, di esportare la democrazia) che hanno gestito la congiuntura unipolare sorta dopo il 1991.
Sul piano economico la globalizzazione, che esplode grazie a due straordinarie risorse made in Usa (la rivoluzione della tecnologia digitale e la creatività dell’iperfinanza), premia le potenze orientali in ascesa, i cui campioni industriali guadagnano spazio con una competizione spesso unfair, mentre polarizza le società occidentali dove gran parte della classe media vede degradarsi la propria condizione di vita (l’occupazione cala o si svilisce).
Sul piano politico la Cina, che entra a condizioni di favore nell’economia mondiale ed è associata dagli Stati Uniti come partner economico-finanziario, si trasforma con Xi, quasi senza contrasto, in un rivale che vuole scalzare il predominio americano. Gli Stati-chiave dell’Europa continentale, che basano il loro export di successo sulla sicurezza a basso costo fornita da Washington (free rider li chiama Obama), offrono agli Usa ghirigori di retorica ma su temi cruciali flirtano con Cina e Russia. La Corea del Nord acquista lo status di potenza atomica. Nel Vicino Oriente è una sfilata di disastri: Iraq e Afghanistan, dove migliaia di soldati muoiono per impiantare democrazie, finiscono in un caos che favorisce insorgenze terroriste (Isis) e guadagni d’influenza da parte di storici nemici (Iran e Taliban); le primavere arabe, che Obama voleva usare per sostituire tiranni con governi imperniati sui Fratelli musulmani, portano guerre (Siria), Stati falliti (Libia), dittature militari (Egitto); l’Iran, grazie anche all’accordo sul nucleare negoziato da Obama, si consolida come potenza regionale estesa fino al Mediterraneo; la Turchia, dopo un tentato golpe partito da una base Usa, insegue sogni di potenza islamica facendo sponda con la Russia.
Trump eredita un’enorme potenza – militare, economica – di cui si è fatto un cattivo uso, per di più molto dispendioso. La sua idea non è ritirarsi dal mondo, rinunciare alla supremazia: al contrario è ricostruire potenza in primo luogo contrastando la sfida – non vista dai suoi predecessori oppure rinviata – che arriva dalla Cina. E’ questo l’asse della politica che verrà, il tema centrale sui cui si decidono strategie e alleanze. I tempi contano: chi anticipa i passaggi dell’evoluzione in corso prende vantaggio (vedi Putin). L’Europa, invece, appesa alla retorica di un’alleanza in cui il senior partner fa un conto distratto dei propri interessi, non ha ancora metabolizzato il cambio americano (e britannico) e le implicazioni della sfida cinese.