di Claude Victor Offray IV, studente della Scuola di Alta Formazione Politica della Fondazione Magna Carta
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Introduzione
Le elezioni presidenziali del 2016 hanno confermato questa affermazione: l’ascesa di Trump alla Casa Bianca, nel bene e nel male, ha cambiato la politica degli Stati Uniti. Le conseguenze apocalittiche annunciate nel 2016 da allarmisti, esperti e commentatori politici non si sono materializzate. L’intento di questo articolo non è quello di giudicare i meriti della critica di Trump o di fornire una valutazione analitica della sua presidenza, tanto meno delle sue caratteristiche poco ortodosse. Lo scopo di questo articolo è quello di fornire un quadro generale delle elezioni presidenziali del 2020 e di evidenziare ciò che le stesse possono significare per l’Europa.
Quadro teorico
Secondo una prospettiva realistica, gli Stati Uniti hanno risorse limitate, capacità politica e volontà di perseguire politiche ambiziose in patria e/o all’estero altrettanto limitate e un deficit nazionale instabile di oltre 20 mila miliardi di dollari. Questo architrave di vincoli influenzerà la manovrabilità, gli impegni e la capacità del paese di affrontare le nuove sfide o minacce del XXI secolo. Progressivamente, gli Stati Uniti dovranno essere più selettivi o adottare un calcolo costi-benefici commisurati ai propri obiettivi politici. Tuttavia, ciò non significa che la capacità diplomatica, militare ed economica degli Stati Uniti diminuirà drasticamente nel prossimo futuro: in tutti e tre questi ambiti, gli Stati Uniti rimangono senza pari. Anche se, gli Stati Uniti dovranno riconoscere che la loro preminenza non rimarrà incontestata a tempo indeterminato.
Gli eventi attuali, che indicano che il globo sta divenendo sempre più multipolare e che questo potrebbe alterare gli equilibri di potere esistenti, l’architettura di sicurezza e generare incertezze geopolitiche più profonde, possono essere compresi prendendo in considerazione i seguenti sviluppi. In primo luogo, la militarizzazione illegale e il controllo del territorio del Mar Cinese Meridionale da parte della Cina hanno aumentato le tensioni regionali tra gli Stati litoranei e rappresentano una minaccia per l’UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea). In secondo luogo, l’ambiziosa e strategica iniziativa Belt Road della Cina cerca di realizzare e dare corpo alle teorie di Mahan, Mackinder e Spykman, assicurando così la sua sfera d’influenza continentale, e, infine, il revanchismo della Russia.
Gli errati interventi stranieri, combinati con i devastanti effetti di lungo periodo della crisi economica del 2008, hanno provocato una complessiva rivalutazione del ruolo e dell’identità globale degli Stati Uniti. I critici di entrambi i campi hanno identificato nel neoliberismo, nel neoconservatorismo e nel capitalismo le cause della situazione del Paese. Ma ancor più, le irrisolte rimostranze economiche e politiche causate dalla crisi finanziaria del 2008, insieme ai cambiamenti culturali e demografici, hanno accentuato il risentimento esistente verso l’establishment politico durante le amministrazioni Bush e Obama. Questo risentimento non è mai stato veramente placato – è rimasto “dormiente”, pronto per essere scatenato.
Il desiderio di cambiamento da parte dell’elettorato è stato sfruttato e massimizzato da un politico non professionista – Donald Trump. Il successo di “America First” nel 2016 ha rivelato lo zeitgeist della politica americana: abbandonare schemi tipici del nation building, proteggere i confini, rafforzare l’economia americana, e ripristinare con toni muscolari il settore militare. Tuttavia, tali impulsi primordiali o isolazionisti, che storicamente sono tutt’altro che senza precedenti, sono stati alla fine temperati dal gruppo “globalista” all’interno del gabinetto di Trump durante il suo primo mandato. Una brusca interruzione degli impegni strategici globali avrebbe eroso irreversibilmente la posizione geopolitica e la stabilità globale del Paese. In ogni caso, “America First” è riuscito a ottenere una maggiore spesa per la difesa dai membri della NATO per il periodo 2016-2020, così come nell’intento di devolvere ai partner gli impegni di sicurezza assunti in Medio Oriente.
Infine, i media, analizzando il presidente Trump, dovrebbero distinguere, quello che Stephen Bannon ha definito il “segnale dal rumore.”. Dal 2016, la critica si è concentrata esclusivamente sullo stile “poco presidenziale” degli interventi e del comportamento del Presidente Trump. L’isteria contro Trump ha offuscato la capacità dei media di giudicare razionalmente le sue politiche. Il commento politico iper-sensazionalizzato, che oscura la vera amministrazione di Trump, hanno fomentato ulteriormente le divisioni politiche e demografiche lungo le linee del partito. Per qualsiasi democrazia, la mediazione e il dialogo franco sono fondamenti della vitalità e del successo di un sistema di governo.
Il partito democratico
Dalle elezioni presidenziali del 2016, il Partito Democratico si è presentato strutturalmente e politicamente frammentato. Tali fratture politiche sono plasticamente evidenziate, da un lato, dall’esistente spaccatura interna o discordia tra i gradi superiori del partito, emblematicamente rappresentati dal Presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, e dal “new wave” di membri della Camera stessa, come Ilhan Omar o Alexandria Ocasio-Cortez (AOC); mentre, dall’altro, dal ruolo del senatore Bernie Sanders – un socialista democratico auto-dichiarato in corsa per le prossime elezioni presidenziali 2020. Bernie Sanders e i parlamentari che hanno sostenuto la sua candidatura, come AOC, vogliono implementare il progressismo e il socialismo. Al contrario, i moderati, come l’ex Vicepresidente Joe Biden, sono molto meno inclini a soccombere ai dettami delle ideologie socialiste e progressiste. L’instabilità interna del partito democratico è stata dimostrata durante il primo mandato del presidente Trump in cui i moderati sono stati incapaci di mitigare o integrare le frange più radicali e passionali all’interno dei ranghi del partito. Se si trattasse di una scelta strategica per agitare l’elettorato e chiamare a raccolta l’opposizione a Trump, purtroppo, bisogna prendere atto di come abbia avuto un effetto contrario causando ancora maggiore confusione e divisione interna.
Nel campo della politica estera, le differenze all’interno del Partito Democratico oscillano dall’internazionalismo liberale al sostegno al ridimensionamento o disimpegno. In breve, i primi chiedono la continuità degli impegni del paese in materia di sicurezza estera, impiegando strumenti di soft e hard power per difendere il liberalismo e la democrazia ovunque minacciata; i secondi, al contrario, postulano una maggiore moderazione negli interventi o nelle crisi straniere e una maggiore concentrazione sui problemi interni o sulle minacce transnazionali, come il cambiamento climatico.
2020 Elezioni Presidenziali
Degli iniziali 24 candidati democratici alle elezioni presidenziali del 2020, finora soltanto Joe Biden, Bernie Sanders e Tulsi Gabbard sono rimasti in gara. Tuttavia, secondo gli ultimi risultati del “Super Tuesday”, quando 14 stati e un territorio (Alabama, Samoa americane, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont, e Virginia) hanno votato per le primarie, Joe Biden ha ottenuto il maggior numero di delegati. Inoltre, Biden si è garantito il supporto degli ex candidati presidenziali come Beto O’Rourke, Michael Bloomberg, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar, Cory Booker, Kamala Harris e Andrew Yang. Ciò può significare che il partito stia serrando i ranghi per sostenere il candidato più favorito e competitivo. In più Biden ha ottenuto ulteriori vittorie in Michigan, Mississippi and Missouri lo scorso 10 Marzo. Nel complesso ha raggiunto quota 867, contro 711 di Sanders, e ha ora bisogno di ottenere ulteriori 1991 delegati per garantirsi la nomination. Grazie alle sue ultime performances, due tra i più grandi Super PACS hanno deciso di sostenerlo: ecco perché è ragionevole supporre che Joe Biden sarà il candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali.
Politicamente, l’ex vicepresidente Joe Biden ha espresso una piattaforma politica moderata. Ne ha fornito una descrizione completa della sua agenda politica nella sua ultima pubblicazione sulla rivista Foreign Affairs. Nel complesso, Biden promette di invertire le politiche di Trump per ripristinare la leadership del Paese e il rispetto nella comunità internazionale, nonchè per proteggere gli interessi economici e nazionali degli Stati Uniti. Dall’altro lato, invece, il senatore Bernie Sanders promette assistenza sanitaria universale, grande governo e tasse più alte. Senza ambiguità il senatore Sanders si è mostrato anche un ferreo sostenitore del multiculturalismo, delle “frontiere aperte”, sostiene l’aborto a lungo termine e vuole attuare politiche costose come il Green New Deal e l’istruzione gratuita.
L’unica comunanza tra i due principali candidati democratici è il loro disprezzo per il Presidente Trump. In fin dei conti, Biden è più pragmatico e meno ideologico rispetto a Sanders.
Come possono i risultati delle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti influenzare le relazioni transatlantiche?
Sono due i possibili scenari.
Se il Presidente Trump si assicura un nuovo mandato, egli consoliderà e fortificherà la sua amministrazione. In particolare ciò comporterà che egli segnalerà alla comunità internazionale il ruolo critico e la natura degli stati-nazione, rafforzerà la determinazione di coloro che difendono la ricchezza della storia culturale della civiltà occidentale e, infine, sarà finalmente sfatato l’isteria penetrante anti-Trump. La vittoria di Trump stimolerebbe gli Stati europei a seguire il suo esempio nel difendere il concetto di stato-nazione, il patrimonio culturale e l’identità del continente.
Al contrario, la vittoria di Biden ripristinerebbe “l’establishment” e la presenza di internazionalisti liberali nelle stanze del potere. In sostanza, la presidenza di Biden potrebbe tradursi in una potenziale continuazione dell’amministrazione Obama in termini di rafforzamento e promozione della democrazia e del liberalismo all’estero. Anche se queste politiche possono apparire nobili e legittime, la controversia sulle modalità di attuazione appare evidente. Per esempio, l’Europa è oramai sufficientemente consapevole degli errori della politica estera proposta da Biden, come per esempio l’intervento libico, giustificato in premessa con la “responsabilità di proteggere” (R2P). Il risultato di questa iniziativa ha trasformato la Libia in uno Stato fallito e in un campo di battaglia tra fazioni rivali. Ancora più allarmante è il fatto che il tema della Libia non sia emerso, né nei dibattiti democratici, né nell’ultimo articolo di Biden su Foreign Affairs. Se Biden dovesse vincere, si presenterebbe davanti a lui una sfida difficile: quella di misurare la sua capacità di alleviare o disciplinare gli internazionalisti e/o le fazioni progressiste all’interno del Partito Democratico e di prendere in considerazione i pilastri della Dottrina Powell all’interno di un quadro R2P. Inoltre, la realizzazione del secondo scenario galvanizzerebbe la volontà delle forze politiche di plasmare il mondo secondo la propria visione riconfigurata di un nuovo ordine mondiale. In Europa, le entità sovranazionali potrebbero auspicare una maggiore centralizzazione e poteri legislativi ed esecutivi, circoscrivendo così ulteriormente la portata e i settori di sovranità degli Stati membri. Un esempio concreto che attesta questa evoluzione è il modo in cui l’UE ha istituito il Fondo Europeo per la difesa nel 2017, delineando i contorni di una struttura comune di difesa e sicurezza, e in modo più sfumato, la proposta di un esercito UE e, infine, di cambiare radicalmente e ridefinire l’economia del continente per il bene del cambiamento climatico o del riscaldamento globale. Insomma, l’eventualità della vittoria del partito democratico infonderebbe loro un senso di onnipotenza nell’attuare unilateralmente politiche in cui la prudenza verrebbe sacrificata per sull’altare del progressismo.