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Pubblichiamo, per gentile concessione del direttore Pia Luisa Bianco, la traduzione italiana dell’articolo di Gaetano Quagliariello nell’ultimo numero di “Longitude”, in diffusione da oggi.

L’ETERNO SECONDO.

Nella storia del ciclismo Raymond Poulidor è ricordato come “l’eterno secondo”: al Tour de France otto volte sul podio, tre volte per l’appunto “vice-primo”, mai un giorno in maglia gialla. Il combattivo Bernie Sanders rischia di passare come l’eterno secondo delle primarie americane: sempre in corsa gettando generosamente il cuore oltre l’ostacolo, sempre possibile vincente, quattro anni fa fu battuto da Hillary Clinton e ora si appresta a ripetere lo stesso risultato contrapposto all’ex vice-presidente di Obama Joe Biden. Il discorso si potrebbe chiudere qui. Ma per Poulidor non fu la stessa cosa prenderle da Gimondi che essere sconfitto da Merchx. E così, anche per Sanders le condizioni della corsa contano. Ed è per questo che attraverso un’analisi delle sue strategie, di quelle dei suoi avversari, degli ostacoli incontrati lungo il percorso, è possibile provare a comprendere come negli ultimi quattro anni siano cambiati i cleavages della politica americana e, forse, persino quelli della politica tout court.

LA FINE DELLO SCHEMA NOVECENTESCO.

Quattro anni fa le elezioni americane consacrarono la fine dello schema tardo-novecentesco: quello per il quale, in un sistema politico maturo, al centro non ci sono i partiti ma gli elettori da conquistare. E per il quale, dunque, la vittoria arride a chi riesce a prendere più voti in quell’elettorato pragmatico e tendenzialmente moderato che, proprio per questo, è disponibile a votare di qua o di là a seconda delle contingenze, dei programmi, della qualità dei candidati. Quattro anni fa il termine populismo imperversava già nei dibattiti, soprattutto continentali, ma non era ancora una categoria politica sedimentata e rigorosa e, quel che più conta, non era ancora la categoria politica riconosciuta come quella che avrebbe contrassegnato il nuovo secolo (P. Rosanvallon, Le siècle du populisme. Histoire, théorie, critique, Paris, 1920). Le elezioni americane rappresentarono allora un’incredibile accelerazione verso questa consacrazione. Perché se lo schema anglosassone-bipolare salta in Italia è un conto, se salta in America è un altro conto. E in America lo schema saltò non solo perché nelle primarie del Partito Democratico quel diavolo rosso di Sanders diede filo da torcere a Hillary. Saltò ancor di più perché la strategia “centrista” della vincitrice delle primarie, una volta trovatasi di fronte a Trump, si perse per strada parte dell’elettorato di colui il quale l’aveva sfidata all’interno del suo stesso partito. E questa dinamica, in alcuni Stati-chiave, le costò la presidenza consegnando la vittoria non pronosticata al tycoon newyorkese. Fu allora chiaro che il cleavage sul quale aveva scommesso Sanders, sollecitato dalla biografia, dalle sensibilità e dall’immagine della Clinton, era stato quello che oppone il popolo alle élites. E questa frattura risultò così profonda nell’elettorato democratico che per Hillary fu impossibile sanarla una volta che, sconfitto Sanders nelle primarie del partito, si trovò di fronte Trump nella competizione principale che sarebbe valsa la Presidenza. Lungo la trincea che vedeva opposti popolo ed élites, infatti, risultava assai più efficace il richiamo di Trump che riuscì nell’impresa di conquistare fasce di voti, forse marginali ma sicuramente decisivi, che nelle primarie democratiche erano andate a Sanders.

LA VIRATA SOCIALDEMOCRATICA DI SANDERS.

Quattro anni dopo la storia si ripete con qualche non insignificante variante. Il messaggio di Sanders, questa volta contrapposto a Biden, si è ideologizzato. Ha assunto una torsione più apertamente socialista di marca continentale, con tesi che occhieggiano apertamente a un modello novecentesco, di stampo prevalentemente europeo, soprattutto per quel che riguarda il welfare. Il tutto potrebbe spiegarsi in termini tattici: il terreno dello scontro popolo/élites oggi é meglio presidiato di ieri e crea meno contraddizioni in casa repubblicana. Così come, su quella frontiera, Hillary offriva un vantaggio competitivo irripetibile perché per storia, stile, modo di comunicare nessuno meglio di lei era in grado di essere bersaglio di una campagna anti-élitaria. Oltre la tattica, però, c’è l’immenso territorio della strategia. E qui le cose si complicano. La ideologizzazione del messaggio di Sanders, in quest’ambito, può essere assunta solo come un punto di partenza per comprendere i cleavages che solcano oggi lo scontro politico in America: alcuni di essi sono molto antichi ma si collegano per percorsi non difficili da individuare ad altri assai moderni o addirittura post-moderni. E solo provando a ricostruire quest’intreccio sarà possibile comprendere se a Biden toccherà la stessa sorte della sua illustre predecessora e soprattutto se e a quali condizioni essa potrà essere evitata.

AL DI LA’ DELLE APPARENZE.

Se il problema si pone esclusivamente in termini di posizionamento politico, all’interno dei democratici la faglia ricalca quella di quattro anni fa: da un lato un candidato dell’establishment del partito che interpreta una posizione liberal che tende verso il centro, dall’altro uno sfidante che guarda a un elettorato più estremo e ideologicamente definito. Nello scontro tra Biden e Sanders, insomma, non sembrano esserci differenze sostanziali rispetto alla competizione che si svolse tra Clinton e Sanders. Se però si considera il mutamento del messaggio politico di Sanders, ecco venire a galla altri elementi.

In primo luogo si ripropone all’attenzione dell’osservatore un’antica linea di demarcazione, bene individuata poco più di centro anni fa, da Oswald Spengler nel suo Der Untergang des Abedlandes (Il tramonto dell’Occidente): quella tra città e campagna, in cui nella prima la Civilizzation – come l’avrebbe definita Thomas Mann nelle sue Betrachtungen eines Unpolitischen (Considerazioni di un impolitico) – si piega ai venti della storia e del progresso, mentre nella seconda la Kultur – sempre per usare la terminologia dello scrittore tedesco – fa più le viste alla tradizione, al racconto dell’origine, al di fuori degli influssi del mondialismo: è disposta, insomma, a concedere tutti i suoi diritti a quello spazio politico che si apre là dove la storia si ferma.

Traduciamo questa contrapposizione in termini tocquevilliani: Sanders interpreterebbe l’America profonda, legata alla sostanza delle cose; il suo sfidante quei cittadini impegnati in reti sociali sovrapposte (nella versione contemporanea le ong, le associazioni di volontariato, i gruppi di interesse) le quali tendono a sviluppare identità che tagliano le divisioni sociali dando vita a una sorta di populismo di sinistra che s’incontra e si contamina con un razionalismo, di natura obamiana (Biden, come si è detto, fu il vice di Obama alla Casa Bianca), freddo e al contempo equilibrato. Queste considerazioni di derivazione classica trovano una sorprendente conferma in analisi politologiche contemporanee. Esse, a ben vedere, si sovrappongono a quelle che il politologo americano Jonathan Rodden sviluppa nel suo libro Why Cities Lose. The Deep Roots of the Urban-Rural Political Divide (2019). Sostiene Rodden, infatti, che negli Stati Uniti e in Europa il sostegno al populismo illiberale (l’utilizzo dell’aggettivo, da parte nostra, non ha alcuna accezione valutativa), ha come varabile dipendente la densità di popolazione: le aree meno popolate sarebbero quelle più «illiberali»; al contrario in quelle più popolate, dove il mainstream culturale è politico, esso trova meno terreno fertile.

Si tratta di una spiegazione analoga, seppur da un opposto punto di vista, a quella che tenta Michael Carpenter – dal 2015 al 2017 vice assistente del segretario alla Difesa Usa su Russia, Ucraina e Eurasia -, che su Foreign Affairs afferma che l’isolamento sociale tende a far ripiegare su una singola identità (religiosa, etnica, sociale eccetera), la quale si scontra con quelle che non coincidono con essa. Dinamica, questa, che si rifletterebbe anche sull’uso dei social media che producono, tra le altre cose, lo stesso effetto “alienante” perché sono stati progettati per aggregare chi la pensa allo stesso modo e spingono a reagire, spesso con ostilità e intolleranza, alle opinioni contrarie (la cosiddetta confirmation bias). Uno schema dal quale Sanders – molto popolare tra i giovani, notoriamente grandi fruitori dei social – trae vantaggio per la radicalità delle sue proposte, diversamente da Biden, che come riferimento del suo elettorato ha un target di una popolazione più matura d’età e più benpensante.

La contrapposizione in casa democratica, dunque, si nutre anche di questo: l’impegno social virtuale prevalente tra i sostenitori di Sanders contrapposto a quello sociale reale privilegiato dall’elettorato di riferimento di Biden. E questa dinamica restringe i margini di un vero terreno di confronto conferendo alle identità dei segmenti elettorali dei due sfidanti distanza e rigidità. Per i democratici si tratta di un problema non di poco conto. Poiché si prospetta un confronto elettorale incentrato sull’economia (ma ora anche sulla sanità, visto l’avvento dell’epidemia da coronavirus), l’insicurezza economica, su cui Sanders sta insistendo al punto da tingere di socialista la sua campagna, potrebbe avere l’effetto di rendere ancora più “identitario” e non assimilabile il suo consenso. Lo si sospetta, ad esempio, leggendo Identity: The Demand for Dignity and the Politics of Resentment, nel quale Francis Fukuyama spiega come il disagio economico sia spesso vissuto più come perdita di identità che di risorse: come un sentirsi «lasciati indietro», soprattutto in termini di considerazione e di rispetto sociale. Sappiamo che questo sentimento ha in passato alimentato il voto per Trump che dunque, per molti aspetti, resta l’alter ego di Sanders a dispetto della “svolta” socialista di quest’ultimo. I due elettorati, infatti, non sono molto diversi. Sono gli esclusi, i “deplorables” di “hillaryclintoniana” memoria.

IL DIFFICILE COMPITO DI BIDEN.

Non va dimenticato, d’altra parte, che Trump e Sanders hanno qualcosa in comune anche sotto un altro aspetto. Se la mission rivoluzionaria di Sanders è quella di stravolgere l’establishment democratico portando in cambio al partito una nuova base di elettori che mai prima l’avrebbero votato, lo stesso, specularmente, ha fatto Trump quattro anni fa, mutando il partito repubblicano, a partire dai riferimenti alle dottrine economiche (chi si ricorda più dei Chicago boys, tanto per dirne una?). Mentre la base di consenso di Sanders, però, è insufficiente e non basta a dargli la maggioranza tra i democrats, quella del tycoon e attuale presidente è riuscita nel suo intento già quattro anni fa.

A questo punto entrano in scena i tormenti del non più giovane Biden. Conquistata la nomination, per vincere gli servirebbe una strategia unificante, che aggiunga la nuova base radicale a quella tradizionale e moderata, non limitandosi alla cooptazione dei dirigenti. Su questo terreno Biden ha già fatto il suo. Nelle ultime settimane ha incassato endorsement decisivi, da figure prominenti in chiave locale a ex candidati alla nomination, come Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Beto O’Rourke. Dovrebbe, però, riflettere su una circostanza: i fans di Sanders hanno reagito con sdegno alla sua opera di rassemblement. Per loro è la prova che il gioco sia truccato. Biden in questa fase non poteva fare altro. Il compito del candidato alla nomination è esattamente quello di convincere altri politici a sostenerlo, come d’altro canto quattro anni fa fece Trump, conquistando a sé anche repubblicani riluttanti. Subito dopo per lui inizierà però un’altra partita, la più difficile. Convogliare su di sé il voto dei “sandersiani”, infatti, non è né facile né probabile. E se questo non accadrà andrà a finire come quattro anni fa. Sanders sarà secondo alle primarie; il candidato democratico secondo alle presidenziali.

Ringrazio il Professor Vito De Luca per i suggerimenti fornitimi e per aver riletto con me l’articolo.