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Per gentile concessione dell’autore, Giuseppe De Lucia Lumeno, pubblichiamo stralci del volume “In virus veritas”. Una riflessione economico finanziaria della crisi, delle storture del sistema europeo e delle possibili conseguenze.

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Non siamo abituati a trattare fenomeni di tale ampiezza, molte aziende sono paralizzate dalla pandemia e dalla conseguente crisi finanziaria, che può essere risolta solo attraverso l’iniezione nell’economia di liquidità il cui ammontare supera decisamente i mezzi a loro disposizione.

La crisi attuale è stata preceduta da altre crisi, meno importanti, ma che attestano, in egual misura, la fragilità del sistema finanziario.

Sul piano sociale, il fatto più rilevante è costituito dall’aumento delle disuguaglianze, in particolare negli Stati Uniti, e soprattutto al reddito dei grandi dirigenti. È stata necessaria la forte iniziativa degli Stati Uniti di oltre 1200 miliardi di dollari di liquidità iniettati nelle grandi banche e nelle grandi aziende. Del resto, la politica di immissione di liquidità è stata fatta propria anche dalla Banca Centrale Europea con un massiccio programma di “Quantitative Easing” finalizzato a rilanciare l’economia dell’eurozona tuttora in una lunga fase di recessione.

Questa grave crisi segna la fine, il colpo di coda dell’era neoliberista che si era sostituita, a iniziare dalla metà degli anni Settanta, all’economia amministrata, nata dopo la guerra, in un’epoca in cui solo gli Stati disponevano dei mezzi necessari al rilancio dei vecchi Paesi industriali e al decollo dell’economia dei Paesi decolonizzati.

La crisi scatenata dalla pandemia non interessa solo la gestione e la governance del mondo economico; essa interviene pienamente nella trasformazione della cultura dei suoi valori, contrassegnata da un interesse più limitato per il lavoro, il desiderio affermato, soprattutto tra i giovani, di vivere esperienze personali più che partecipare ad attività collettive troppo spesso depersonalizzate, e la diffusione di nuovi modi di consumo più propri di un’era digitale.

Soprattutto, nel momento in cui entriamo in un nuovo tipo di società ed economia, ci rendiamo conto che ci avviciniamo rapidamente a limiti che non sappiamo superare senza esporre al pericolo dell’estinzione la nostra stessa esistenza sul pianeta Terra. La rottura tra l’economia finanziaria e l’economia reale, che organizza la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi che rispondono alla domanda, non è certo un fatto nuovo. Le crisi nate da una tale rottura hanno marcato a più riprese lo sviluppo della produzione e della produttività in diversi tipi di economie.[…]

La crisi, in quanto tale […] genera sempre un aumento delle disuguaglianze, come è recentemente avvenuto negli Stati Uniti, il che rende più urgente e più difficile interventi a scopi sociali e politici. A tal riguardo, occorre sapere che la ricostruzione della società grazie all’intervento dello Stato e alla condivisione dell’idea di vita sociale da parte degli attori in conflitto è il miglior mezzo per contrastare le crisi compresa, il particolare quella attuale, generata da una pandemia come quella del Covid-19.

Ciò che dovrebbe caratterizzare la società attuale è che gli interventi decisi dagli Stati dovrebbero permettere una rapida ricostruzione dei profitti delle banche, mentre l’aumento della disoccupazione comincerà a diminuire ben dopo il riavvio dell’economia. L’intervento degli Stati dovrebbe in questo modo evitare, all’indomani della pandemia da Covid-19, una catastrofe, ma forse non riuscirà a ricomporre il sistema socioeconomico.

[…] L’incontro tra due movimenti, l’uno indirizzato verso il dominio dell’economia finanziaria e l’altro verso il cambiamento del modello di produzione, com- porta una perdita di importanza dei problemi interni delle aziende rispetto alla crisi finanziaria e alla disoccupazione ad essa collegata, e delle trasformazioni dell’economia mondiale. A livello più elevato, siamo oggi innanzitutto preoccupati dalla minaccia che un’economia incontrollata fa pesare sulla nostra capacità di sopravvivenza.

Siamo passati da una crescita tecnica alla coscienza di un rischio mortale indotto dall’accelerazione dell’effetto serra, dall’emanazione nell’atmosfera di una quantità sempre maggiore di CO2, dall’inondazione di vaste regioni costiere dovuta allo scioglimento dei ghiacciai (anche se questa si è dimostrata essere più lenta del previsto), più generalmente dall’aumento della temperatura e, quindi, dallo spostamento delle zone climatiche fino all’attuale devastante pande-mia da Covid-19. Il che ci ha portato a interrogarci sulla necessità di rinunciare ad un modo di produzione e gestione dei beni che era stato identificato con il progresso.

L’ecologia politica, ma ancor più ora la salute pubblica, acquisiscono, in questo contesto, un’importanza pari a quella dell’economia politica. Si evidenzia come l’esigenza di un tale mutamento si può operare solo prendendo decisioni a livello globale, e con una riconfigurazione dei consumi – sia nei Paesi ricchi sia in quelli emergenti, in particolare in Cina – che sia compatibile con l’aumento delle risorse dei Paesi più poveri.

L’abitudine di cercare nelle innovazioni tecniche le cause principali dei cambiamenti sociali e anche politici, e nel contempo la soluzione al sottosviluppo e al blocco dello sviluppo, deve essere abbandonata.

Le contraddizioni si accumulano man mano che ci si allontana dalle politiche decise a livello nazionale, poiché i problemi sono sempre più globalizzati. Il che non vuol dire che siano di più facile soluzione, come dimostrano i ripetuti fallimenti delle recenti conferenze internazionali sul clima. Dobbiamo ormai governare la produzione e il consumo mettendo in conto i bisogni e le possibilità di tutte le categorie degli abitanti del pianeta.

[…] Esistono legami tra la dipendenza dell’azienda rispetto ai mercati finanziari, e la dipendenza degli individui ridotti a consumatori dominati dall’offerta del mercato. Il trionfo dell’economia finanziaria ha così effetti in tutti i campi della vita personale e collettiva. La dipendenza dalle pubblicità e dalla politica dei prezzi è avvertita sempre più dolorosamente dalla maggioranza, che si sente attirata e al contempo schiacciata da queste campagne.

[…] Ciò che percepiamo, difatti, è che il management espone in misura crescente lavoratori disarmati agli attacchi dei mercati, e che la politica delle aziende consiste sempre più nel proteggersi dalle tempeste esponendo alla loro violenza i lavoratori di prima linea, qualunque sia il loro livello gerarchico. Le aziende hanno coscienza della propria debole capacità di agire sui cambiamenti che le interessano più direttamente. E, se le grandi aziende mostrano talvolta un chiaro ottimismo, avendo la sensazione di essere protette dallo Stato, le piccole e medie vivono la loro impotenza in maniera acuta. Si sforzano di “serrare i ranghi”, cioè di controllare strettamente tutti gli aspetti del loro funzionamento. Il discorso “umanista”, che era di moda nell’immediato dopoguerra è, di conseguenza, quasi scomparso, le dichiarazioni generose non hanno ormai più nessuna influenza sulle decisioni prese e sui problemi da risolvere.

Ciò rafforza l’ipotesi qui già proposta, che consiste nel sostenere come l’aspetto più importante della crisi è costituito, oltre che dal crac, da un muta mento più completo rispetto a quello dovuto alle crisi che abbiamo conosciuto in passato e delle nuove che stiamo conoscendo a un prezzo altissimo di vittime. Non si tratta solo di cambiamenti tecnologici, ma ancor più di nuovi rapporti sociali che espongono, sempre più direttamente, i lavoratori allo stress che provoca la pressione diretta del succedersi di queste crisi. L’aspetto essenziale non consiste quindi più nella “buona gestione” dell’azienda, dato che in ogni caso essa deve sottostare ai bisogni del mercato.

Parallelamente, la vecchia idea del determinismo tecnologico è scomparsa. Le ricerche indirizzate all’aumento della produttività mantengono, certo, la loro importanza, ma sono diventate secondarie. Più importante è la capacità di un’azienda di mobilitarsi in un mercato imprevedibile. L’azienda che consisteva, innanzitutto, in un insieme di macchine e in un bilancio è, invece oggi, divenuta un sistema esposto a pericoli multiformi, la cui dimensione finanziaria è dominante.

Questa messa in discussione della società industriale centrata sull’azienda e il suo volontarismo è stata superata da un’altra. Un gran numero di libri e di dichiarazioni proclamano difatti che il lavoro è una nozione superata, che le nostre società sono ormai società di ricerca e di comunicazione.

Non bisogna, però, all’opposto, fare proprie le ideologie che considerano il lavoro l’attività più nobile e capace di formare gli essere umani di grande qualità. Un tale discorso non ha come scopo la riabilitazione della visione ottimista del capitalismo occidentale. La caduta dell’Unione Sovietica e delle democrazie popolari incoraggia la celebrazione dei Paesi occidentali che, ben prima di altri, hanno saputo aumentare la loro produzione e la loro produttività, ed hanno così migliorato le condizioni di vita dei salariati. È però evidente che se il lavoro non è divenuto secondario nella nostra vita, il futuro delle nostre società, in un avvenire immediato, è più direttamente minacciato dalle crisi del sistema finanziario che dalle condizioni dei salariati. Questi ultimi sono innanzitutto vittime, e non si può immaginare che la soluzione alla crisi sia trovata in un ritorno all’operaismo, all’elogio permanente del lavoro e dei lavoratori.