“Un occhio elettronico che misuri la distanza tra le persone, le avverta se si avvicinano troppo e calcoli il rischio nel riaprire determinati spazi e ambienti dopo il lockdown da Covid-19”. Ecco uno dei nuovi progetti made in Italy presentati da esperti di informatica durante un live streaming dal titolo Risorgimento Digitale.
Il quotidiano La Repubblica del 25 aprile 2020 (ironicamente, il giorno della Liberazione…), entusiasta, riporta i commenti di un esperto che afferma come “…ormai riusciamo a vedere perfettamente le distanze tra le persone, ma anche la distanza tra le facce o se queste stanno parlando, si muovono o altro. Possiamo poi usare questi dati per mandare un bip se le persone si avvicinano troppo oppure per verificare dal punto di vista statistico se sia conveniente ad esempio aprire un parco, fare un concerto o tornare al lavoro”.
L’emergenza Covid-19 ha violentemente immerso tutta la società nel mondo digitale, tramite lo smart working, l’e-learning, le video-call, l’e-commerce e le app di tracciamento come quella sopra descritta. L’utilità di questi strumenti, nell’anomalo periodo di emergenza, è sotto gli occhi di tutti. Allo stesso tempo, tuttavia, problemi quali l’alienazione del lavoratore “agile”, l’appiattimento della formazione scolastica e universitaria a distanza, la uberizzazione delle attività commerciali e i gravi problemi di privacy individuale dovrebbero stimolare una riflessione profonda sull’impatto di queste nuove tecnologie sulla nostra esistenza.
A fronte dei generalizzati peana osannanti la bellezza e i vantaggi del cosiddetto Risorgimento Digitale, ritengo sarebbe importante una valutazione profonda delle trasformazioni in atto per poter definirne la vera natura di questi mezzi e arrivare in tempo a controllarne la pervasività nelle nostre vite tramite meccanismi di sana regolazione e autolimitazione.
Una lettura alternativa della rivoluzione in atto nei paesi occidentali fornisce infatti la visione distopica di un futuro nel quale l’economia dei “prodotti” verrà smantellata del tutto e sostituita da un brave new world, quello dei cosiddetti “processi”. I segnali di questo smantellamento sono molteplici e, come al solito, i giovani rappresentano un accurato termometro per misurare il cambiamento. Si può osservare, ad esempio, come nelle scuole di ingegneria i corsi maggiormente affollati siano quelli di ingegneria informatica, gestionale ed ingegneria dei processi. I corsi orientati a quello che si può definire un “prodotto”, l’ingegneria civile, meccanica ed elettronica, soffrono, da qualche anno ormai, di un netto calo di vocazioni. Così, con l’obiettivo di aumentare il proprio appeal, confusamente queste aree vocate alla concretezza produttiva si affannano per mutuare e inglobare contenuti gestionali e logistici che spesso finiscono per snaturare e ibridare la propria offerta formativa.
Naturalmente, nelle società occidentali, questa trasformazione dell’attività economica si è innegabilmente prodotta molti anni or sono giustificandola con i presunti vantaggi della sostenibilità ambientale, della delocalizzazione produttiva e dell’innovazione tecnologica. La politica di Margaret Thatcher nell’Inghilterra degli anni ’80 fu l’emblema di questa rivoluzione, rivolta alla sostanziale soppressione delle attività industriali nei campi minerario, siderurgico e navale a favore di un modello liberal puramente basato sui servizi, rispetto al quale la Brexit ci appare oggi una reazione tardiva e incerta. Il declino industriale italiano, invece, non riconducibile a emulazioni del modello thatcheriano, bensì alla mancanza decennale di una politica industriale nazionale, è stato spesso spiegato con l’intrinseca fragilità della struttura produttiva caratterizzata da piccole imprese poco capitalizzate, scarsamente innovative, poco internazionali e concentrate in settori produttivi tradizionali.
Tuttavia, a ben guardare, le motivazioni storiche e ufficiali che ci sono state somministrate sullo smantellamento dell’industria dei prodotti risultano incomplete e insoddisfacenti. Le spinte attuali che governano questo presunto “risorgimento digitale” sono, a mio parere, ben altre.
La prima spinta va ricercata nel ruolo dominante della burocrazia, oggi non più identificabile nel Leviatano di Hobbes (1651) e nemmeno nell’organizzazione positiva teorizzata da Max Weber (Economia e Società, 1922), capace di organizzare e mantenere ordine nei sistemi complessi quale la società, assicurando coerenza, affidabilità, pari opportunità ed imparzialità. Durante il ‘900 la burocrazia ha progressivamente guadagnato importanza su larghe fette del potere (pubblica amministrazione, banche, sanità, educazione, ecc…) senza tuttavia riuscire ad inserirsi nel cuore della produzione industriale, rimasto per fortuna in mano ad imprenditori, specialisti e tecnici. Oggi, tramite la gestione dei processi, la burocrazia rappresenta una ingegnosa costruzione attraverso la quale l’individuo si separa convenientemente dalle conseguenze delle proprie azioni (M.N. Taleb, Skin in the Game, 2018). Tale trasferimento di responsabilità, evidentemente, risulta ben più complicato in un’economia di prodotto.
La seconda spinta verso la prevalenza dei processi sui prodotti è rappresentata dalle predicazioni delle business schools internazionali, strumenti del potere finanziario globale, il cui ruolo di indirizzo economico è diventato in molti casi manipolatorio. Le business schools, lungi dal mantenere un’autonomia di pensiero e morale, si sono organizzate e appiattite nella generale giustificazione autocelebrativa del modello consumistico di mercato “a risorse infinite”, dominato dalla finanza, del quale soltanto negli ultimi anni paiono pentite.
La terza e più formidabile spinta verso il trionfo dell’economia digitale è riconducibile alla nascita di un nuovo soggetto inquadrabile, più o meno distintamente, in quella organizzazione costituita dal milieu progressista americano (con i suoi ascari europei), dai giganti tech della Silicon Valley e dai liquid media al loro servizio. Le lucide analisi di Riccardo Ruggeri su questa sovrastruttura svelano molto chiaramente il senso subdolo del loro potere e della loro pervasività a livello internazionale (America, un romanzo gotico, 2017). Il fondamento di questo progressismo risiede nell’assunto secondo il quale tutto sarebbe condizionato e forgiato dall’epoca e dai tempi, ossia non vi sarebbero princìpi, sistemi e norme che possano dirsi indipendenti dal periodo stesso. Il potere di questa sovrastruttura mondiale non viene certamente esercitato nelle forme primarie ed esplicite del potere ben descritte da M. Naim (The End of Power, 2014), ossia quelle “della forza” o “delle regole”. La sua azione si dispiega altresì attraverso forme di potere implicite, ossia quelle “della persuasione” e “della ricompensa”, sfruttando le note inclinazioni antropologiche dell’homo sapiens ovvero la ricerca della sicurezza e del benessere tramite la minimizzazione di sforzi, rischi e responsabilità.
I pericoli e le controindicazioni del passaggio agnostico ad un mondo digitale e basato sui processi appaiono evidenti. Tralasciando i noti danni devastanti provocati dalla globalizzazione e dalla uberizzazione di molte attività economiche, questo presunto risorgimento sta producendo alcuni effetti già ben visibili; per esempio la spersonalizzazione e automatizzazione della formazione e della valutazione degli studenti di ogni età e livello, umiliando e impoverendo il meraviglioso concetto dell’e-ducare traendo a sè i propri discepoli.
Un altro inquietante effetto della trasformazione in atto è rappresentato dall’avvento generalizzato della mediocrazia, ove i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le capacità individuali a precise tecniche ripetitive, la conoscenza e la competenza all’esecuzione pura e semplice di operazioni codificate con gravi segnali di alienazione (A. Deneault, La médiocratie, 2015).
In questo senso il termine mediocrazia può sottendere sia il concetto di presenza di mediocri al potere/governo delle istituzioni, sia quello di sistema di gestione di aziende e istituzioni mediante regole mediocri. La mediocrazia detta le leggi di standard professionali, protocolli operativi, avanzamenti di carriera e delle metodologie di valutazione stesse che rendono possibile l’avanzamento dei mediocri.
Si tratta di un sotto-prodotto della trasformazione digitale del lavoro, che purtroppo sta infettando anche l’accademia, trasformando dirigenti, ingegneri, operai, impiegati e professori in risorse umane, inquadrandoli secondo gerarchie asettiche e guidandoli tramite obiettivi il cui valore aggiunto per il sistema è spesso nullo. È il trionfo del pensiero PowerPoint (F. Frommer, La Pensèe PowerPoint. Enquète sur ce logiciel qui rend stupide, 2014) elevato a sistema da gran parte delle aziende e istituzioni per semplificare i “processi” e controllare subdolamente la dialettica di confronto.
Mi preme qui ricordare, sulla scorta di Evola (Rivolta contro il Mondo Moderno, 1934), che la tradizione occidentale non ha mai seguito un supino conformismo, ma rappresenta nella sua essenza qualcosa di metastorico e, al tempo stesso, di fortemente dinamico. Essa è una forza generale ordinatrice in funzione di princìpi aventi il crisma di una superiore legittimità, che agisce lungo le generazioni in continuità, attraverso istituti, leggi, ordinamenti e sistemi organizzativi che possono presentare una notevole varietà e diversità. I princìpi base rivestono la funzione di mantenere una perenne attualità e al contempo da essi, come da un seme, possono nascere forme sempre nuove, distinte ma omologhe alle antiche e dunque in continuità col passato.
Ogni risorgimento degno di questo nome altisonante dovrebbe pertanto rappresentare una fase di continuità migliorativa e non un processo di rottura con l’epoca precedente. Valori quali libertà, cultura, autoaffermazione nel lavoro e privacy, conquistati nei secoli con lotte anche cruente, non possono essere barattati dalle società occidentali nel nome di miraggi quali la globalizzazione, la falsa meritocrazia e la subdola fascinazione esercitata dai progressi della tecnologia digitale.