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“L’Occidentale” è il figlio prediletto della Fondazione Magna Carta e lo scorso lunedì sera una trasmissione televisiva in prima serata, “Report”, ha provato ad attentare alla reputazione della madre. Quando ciò accade è bene che il figlio se ne occupi. Per carità, nessuna infamità e nessun trattamento preconcetto. Bisogna dare atto agli artefici della puntata dedicata alle fondazioni politiche di esser stati equanimi: niente sconti né a destra né a sinistra. E anche i 5 Stelle con “piattaforma Rousseau” annessa hanno avuto la loro parte. Certo, ci sarebbe la questioncina della Casaleggio Associati, fucina del movimento esente da qualsiasi dovere di trasparenza, ma accontentiamoci. Che nel parlare di cultura destra e sinistra vengano trattate allo stesso modo, in Italia non è scontato e non è cosa di poco conto.

D’altra parte, non intendiamo soffermarci più di tanto della trasmissione. Piero Ostellino soleva dire che con gli articoli di giornale, il giorno dopo, ci incarti il pesce. Con le trasmissioni televisive è un po’ diverso perché sulla rete lasciano più facilmente traccia. La memoria dello spettatore, tuttavia, resta breve. Forse ancor di più di quella del lettore.

Vale invece la pena prendere spunto dalla puntata di “Report” sulle fondazioni per parlare del rapporto tra politica e cultura; un tema così tanto fuori moda che noi speriamo possa tornare di moda: un po’ come l’abito del nonno con i pantaloni a sigaretta ritrovato nel fondo di un armadio.

Quando c’erano i partiti, la cultura politica era loro appannaggio: un po’ perché era un requisito necessario per accedere ai livelli più alti della dirigenza, ma soprattutto perché la formazione rientrava tra i loro compiti “istituzionali”. I partiti più organizzati avevano vere e proprie scuole permanenti e prevedevano delle lunghe trafile formative; gli altri possedevano, in ogni caso, almeno una fondazione di riferimento alla quale devolvevano gli archivi della casa e la gestione della subcultura ad uso dei militanti.

La “rottura” avvenne con la morte dei partiti d’integrazione sociale: quelli impropriamente detti della “Prima Repubblica”. Allora cambiarono le caratteristiche della classe dirigente; si modificarono i tempi della iniziativa politica; vennero a mancare i soldi per gestire costose strutture che custodissero la memoria (quale memoria, d’altro canto, se quei partiti erano nel frattempo morti?).

Si è giunti, così, a una differenziazione dei compiti: i partiti sono diventati strutture snelle, quasi eteree, e parallelamente sono nate per germinazione spontanea associazioni e fondazioni che si sono assunte il compito di approfondire temi culturali, sfornare idee, verificare la possibilità di tradurle in norme, formare classe dirigente e gestire cenacoli dai quali, alla bisogna, si potessero trarre alcune persone idonee a gestire segmenti della cosa pubblica.

Non è stato questo un fenomeno soltanto italiano ma il portato generale dei tempi. In Italia, forse, è arrivato con ritardo ed è stato più evidente solo perché i partiti dell’età dell’oro sono stati più forti e strutturati che da altrove.

Il modello al quale questo cambiamento si riferisce risiede nel mondo anglosassone e in particolare negli Stati Uniti. Lì Repubblicani e Democratici hanno entrambi alcune fondazioni di riferimento che, in alcuni casi, lavorano più e meglio di dipartimenti universitari: reclutano le menti migliori dei due schieramenti e – in particolare nelle stagioni in cui si trovano all’opposizione – provvedono a riempire la santabarbara di idee e progetti che potranno esser posti in pratica, eventualmente, se e quando il loro partito di riferimento conquisterà il potere.

Si determina, in tal modo, una sorta di divisione del lavoro: i leader e gli uomini politici di prima fila calpestano il palcoscenico e rispondono alle richieste di una quotidianità sempre più asfissiante; quanti lavorano nelle strutture culturali forniscono loro idee e proposte per tradurle in pratica. Il tutto sostenuto da una concezione positiva del mecenatismo privato, ben lungi dalla criminalizzazione preventiva di cui il grillismo al potere ha infarcito il nostro ordinamento e la nostra comunicazione.

Tutto scontato, dunque, anche da noi in Italia? Non siamo ingenui. Diciamo che un problemino esiste. Perché nel Belpaese negli ultimi anni queste strutture sono spuntate come funghi. Alcune hanno preso la via retta e, seppure con fatica, sono cresciute; altre sono scatole vuote costruite per aggirare le regole sul finanziamento della politica. Non entriamo nel merito del fatto che tali regole siano buone o cattive. Ci limitiamo a constatare che, se esistono, o si cambiano o si rispettano.

Se così dunque stanno le cose, il primo problema che ci si dovrebbe porre non è la provenienza dei finanziamenti che servono ad alimentare queste strutture. Su quest’aspetto ci si dovrebbe limitare a pretendere che i finanziamenti siano leciti e conoscibili nei limiti consentiti dalla normativa. Il punto da indagare dovrebbe essere, piuttosto, come i soldi vengono spesi: per organizzare scuole, seminari, approfondimenti su possibili innovazioni legislative, convegni, presentazioni di libri, biblioteche, archivi e banche dati, o per finanziare surrettiziamente l’iniziativa politica di questo o quel leader o di questa o quella corrente partitica?

Ecco: questo è il tema che non viene affrontato e che, sia detto per inciso, neppure la trasmissione di lunedì sera si è posta. Un segno dei tempi. E’ sembrato molto più importante indagare sull’intenzione delle fondazioni di influenzare la pubblica opinione e il dibattito politico, quasi che voler incidere sia una colpa o, peggio, un reato.

“Certo che sì, certo che vogliamo influenzare, certo che vogliamo incidere!” è la risposta non ipocrita che vorremmo udire in coro da quanti hanno dato vita e anima a  tali strutture. Prendere parte, infatti, è un atto di libertà e di coraggio, soprattutto in un tempo nel quale non si rischia per questo di divenire “organici” a un partito, per il venir meno dell’organo …

Si vorrebbe forse riproporre il modello dell’intellettuale chiuso nella torre eburnea, distinto e distante dalle miserie di questo mondo? O, com’è assai più probabile, si vorrebbe affermare – o quanto meno suggerire – che la cultura non dovrebbe aver nulla a che fare con la politica affinché questa rimanga il regno incontaminato dei tweet, dell’improvvisazione, dello scontro corpo a corpo?

Qualche giorno fa Ferruccio De Bortoli dalle colonne del Corriere della Sera poneva giustamente il problema della qualità della classe politica – che, come ci ha insegnato Gaetano Mosca, non comprende soltanto i politici di professione – e quello correlato delle strutture necessarie alla sua formazione. Mi è tornato in mente ciò che affermò Emile Boutmy, il fondatore di Science Po, quando mise mano a quell’intrapresa. Si era all’indomani della sconfitta francese a Sedan e lui dichiarò che la sua patria, ancor prima che sui campi di battaglia, era stata sconfitta dalla Prussia nelle aule delle università e nei luoghi di formazione della classe dirigente. Per questo c’era bisogno di Science Po …

Come sempre, le mancanze si evidenziano quando se ne avverte il bisogno. Quelle nell’ambito della formazione hanno però radici profonde e determinano i loro effetti nel lungo periodo. In Italia oggi avvertiamo questa esigenza perché i tempi sono quelli di una sconfitta ma soprattutto perché da troppo politica e cultura hanno divorziato.

La colpa non la si può attribuire unicamente a “tempi e costumi”. Quel che mi ha colpito della trasmissione di lunedì sera è che, di fronte a leggi opinabili e a volte assurde, tanti protagonisti di queste strutture di cultura politica abbiano fatto un passo indietro o quanto meno di lato.

E’ il filo rosso di questi ultimi anni. Di fronte alla demagogia, che a volte giunge fino allo squadrismo verbale, s’indietreggia cercando magari il modo di ripiegare per salvare il possibile. E’ così che si è arrivati a questo punto: a considerare, nel senso comune, che la cultura nulla deve avere a che fare con la politica e che non deve aspirare a influenzarla. Per tante ragioni, è giunto il momento di fare un passo avanti: di rivendicare un ruolo, un lavoro e l’intenzione di diventare più influenti. A testa alta.