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di Vito de Luca

Se Wilhelm Ostwald aveva ragione nel definire la scienza come quel concetto che riassume i caratteri generali e costanti dell’esperienza passata, consentendo, così, di anticipare quelle future, senza dubbio l’11 settembre di 19 anni fa rappresenta la materializzazione di quella “rivoluzione spaziale” di cui parlava Carl Schmitt nel “nomos” della terra.

Poiché quanto accadde sul suolo americano, in quel giorno, iconizza plasticamente quel superamento ottocentesco della dicotomia tra  terra e mare in cui è nell’astratto dello spazio che la guerra si trasferisce.

Una smaterializzazione, però, quanto più concreta, poiché è nel sangue e nel suolo che il conflitto si riduce, con le sue migliaia di morti – e gli ancora più numerosi rimasti in vita dilaniati dal dolore della perdita degli affetti e di quel paese finora conosciuto –  seppur in quella globalizzazione della tecnica che addirittura induce un filosofo come Baudrillard a giudicarla sotto un punto di vista estetico.

Un orrore senza confini, senza più il limite terracqueo che nel pensatore francese si fa arte, mentre molto prima Adorno aveva sentenziato che non sarebbe stato più possibile fare poesia dopo la Shoah.

Ma la storia non si era fermata molto prima, come aveva intravisto Fukuyama, nel 1989, in un saggio pubblicato sulla rivista National Interest?

Hegelianamente, senza negare il susseguirsi eterno dei fatti, il procedere degli avvenimenti che si manifestano in eterno nel mondo sono continuati ad apparire. Ma ciò che era finito, fu l’approdo, forse definitivo, dell’arte, della politica, della cultura, della scienza, della religione e di tutte le forze tradizionali di pensiero, nella dimensione della tecnica. Una tecnica che divora e ha divorato anche quel liberalismo che l’intellettuale nippo-americano intuisce come ultimo stadio della storia. 

L’Occidente, New York, attaccati con gli stessi mezzi da essi creati, da chi quegli stessi mezzi li ha adottati, senza però quella assimilazione, quella comprensione che in Simmel prende il nome di lunghezza della serie teleologica dei fini, ovvero quella distanza che dà il “valore” alla cosa, in questo caso l’apprendimento delle tecniche, delle procedure. Insomma, senza aver fatto proprio il come, il tragitto compiuto nel corso dei millenni che ha condotto l’Occidente al termine della sua corsa.

È un po’ come avevano già insegnato ancora Hegel, e poi Marx, a proposito degli operai di Manchester confrontati con quel mondo non occidentale, alla vista fermo nei secoli.

Se si vuole capire la storia, e il suo incedere, sembra dire il filosofo di Treviri, basterebbe dare un’occhiata alle due dimensioni epocali in un’ottica di questo tipo, in cui  l’11 settembre possa essere letto come uno di quei salti della storia, compiuto il quale ogni passo a ritroso diventa impossibile, almeno fino a quando verrà custodito dalla memoria, dando un fondamento filosofico anche a quella vulgata che vuole che nulla sarà più come prima. 

È la dimostrazione evidente che non solo tecnica e globalizzazione, proprio per lo sradicamento da ogni “nomos”, da ogni legge, da qualsiasi confine e da qualsiasi sapere non necessitano di una tradizione culturale e scientifica che la precedano, ma che tecnica e globalizzazione sono l’una per l’altra il braccio armato di una tendenza totalizzante in cui, come già teorizzato da Mach, la relazione ritenuta consolidata di causalità è sostituita dal concetto matematico di funzione cioè di interdipendenza dei fenomeni.

In altre parole, non solo causa ed effetto, tecnica e globalizzazione (meglio: spazializzazione) si incardinano come funzionali, “serventi”, l’una all’altra, ma diventano indistinguibili in una misura in cui per le due diverse identità diventa impossibile una diversificazione. 

Dunque, causa ed effetto, nella nuova metafisica del terrore totale, si fanno un tutt’uno in cui un’umanità sempre più spaesata e disorientata, è assorbita, inevitabilmente, nel destino di questa fusione.