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Per quanti amano l’America che inviò i suoi giovani soldati a morire per il Vecchio Continente, per quanti amano l’America che fece comprendere al mondo che democrazia e benessere sono un binomio inscindibile, per quanti amano l’America che a sue spese ha garantito la sicurezza a genti e popoli minacciati dal comunismo… Per quanti, insomma, si sono commossi in un cimitero di guerra ad Anzio o in Normandia, hanno ritenuto il Piano Marshall l’innesto del vero miracolo italiano e hanno apprezzato ancor di più la bellezza del Golfo di Napoli se all’orizzonte si stagliava la silhouette della portaerei Usa, Donald Trump non è mai stato il Presidente preferito. America First, in fondo, è la sintesi della “Dottrina Monroe” aggiornata al XXI Secolo. E, sebbene la geopolitica del mondo sia cambiata, lo sguardo di Trump è stato ancora più strabico di quello del suo predecessore: puntato verso il Pacifico, ha guardato troppo di sbieco verso il mondo Atlantico, al punto da relativizzare l’importanza del sistema di sicurezza comune. Ha così sottovalutato il fatto che quel sistema non abbia avuto un significato solo strategico: è stato anche un presidio di civiltà.

Stando alla “proclamazione” mediatica dello sfidante, sembrerebbe oggi che Donald Trump dovrà passare la mano. Se dopo le dovute verifiche ciò dovesse essere confermato, la storia lo ricorderà come un buon Presidente. E anche chi non l’ha apprezzato fino in fondo, assai probabilmente, finirà per rimpiangerlo. Durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca la ripresa dell’economia americana ha sfidato e vinto persino l’ondata pandemica; la politica estera, per quanto contaminata dall’isolazionismo, ha comunque restituito all’America l’anelito a un primato che negli otto anni di Obama era andato disperso; il trionfo del “politicamente corretto” giunto fino alla presunzione di riscrivere la storia ha trovato in lui un ostacolo a volte rozzo ma certamente efficace.

Trump sta combattendo fino all’ultimo sfidando etichette e senso delle istituzioni. Se passerà la mano lo farà con lo stesso stile con il quale ha governato: sopra le righe, oltre le righe. Da un po’ di tempo questo finale di partita era pronosticabile anche da chi non fa di mestiere il sondaggista (e quindi non ha certezze da vendere). In campagna elettorale il Presidente si è battuto come un leone perché il destino non si compisse e, comunque vada a finire, è stato a un passo dal riuscirci. La sconfitta che gli viene attribuita è in fondo figlia della pandemia. Senza il virus Trump non avrebbe vinto, avrebbe stravinto.

Di fronte a questa evidenza, tra quanti hanno sostenuto il Presidente uscente, c’è chi sta gridando al complotto non sapendo quanto nelle società anglosassoni le garanzie siano differenti da quelle che vigono da noi (sebbene, anche in questo campo, il Covid abbia stravolto le regole e determinato una rottura facendo venir meno antiche certezze); c’è chi affida le residue speranze a riconteggi comunque dovuti, visti i risultati sul filo dei rasoio e l’entità della posta in gioco; c’è chi impreca contro il destino cinico e baro, e poi c’è una minoranza che s’interroga sul perché: sui motivi di fondo, innestati dalla pandemia ma che vanno oltre la pandemia, per i quali una vittoria facile si è trasformata nel giro di pichi mesi in quella che si prospetta come una sconfitta di misura.

Il fatto è che Donald Trump ha incarnato l’emblema della rivolta contro gli establishment. Quattro anni fa la sua sorprendente vittoria contro Hillary Clinton si collocò nella scia della Brexit e rafforzò la cornice nella quale poi si sarebbero collocati i trionfi di diversi sovranismi continentali. Io sono convinto che il Covid-19 abbia sancito la fine di quella stagione. La grande pandemia è senz’altro anch’essa figlia del processo di globalizzazione ma, per un effetto paradossale, si è rivoltata innanzitutto contro i nemici della globalizzazione. La paura che ha investito la società globale ha infatti modificato i comportamenti delle istituzioni sovranazionali che in alcuni casi hanno dovuto rivedere a fondo la loro stessa essenza; ha cambiato i meccanismi che regolano i debiti sovrani degli Stati, che per lungo tempo non saranno più chiamati a rispondere dal banco degli imputati; ha riassegnato un nuovo ruolo alle élites, innanzitutto a quelle sanitarie; ha persino retituito udite, udite – uno spazio politico alla competenza.

Non è affatto detto che le novità introdotte in politica da un evento socio-sanitario che ha avuto la portata di una guerra mondiale siano durature. Esse tuttavia rappresentano comunque una cesura: quando l’incubo collettivo sarà passato, la rivoluzione anti-elitaria potrà forse ripartire, persino più forte che pria, ma si tratterà comunque di una stagione diversa e presenterà tutte le incognite di un dopo-guerra. Per questo – sia detto per inciso – quanti sono consapevoli di queste dinamiche storiche e amano la democrazia liberale e rappresentativa, dovrebbero fare tutto il possibile per prevenire gli effetti della fase che stiamo vivendo.

La lezione che viene dalla intricata vicenda americana è proprio in questa diagnosi. I liberali e conservatori che hanno scorto qualcosa di fondamentalmente sano nell’opposizione populista al radicalismo di massa – divenuto la vera divisa della sinistra moderna, persino di quella più moderata – non possono più limitarsi a puntare sugli istinti di libertà e di anti-conformismo che albergano visceralmente nei sentimenti della maggioranza silenziosa. Si tratterebbe di una strategia fragile ed eccessivamente esposta agli imprevisti della storia, che pesano assai più dei presunti complotti. E poi non si può dare sempre per scontato che chi fa più rumore, perché controlla la comunicazione del messaggio ufficiale, si trovi in realtà in minoranza.

La politica è l’arte di durare nel tempo. E per durare, oltre alla capacità di analisi, è necessario avere anche una politica delle alleanze, una considerazione differente delle istituzioni, un rapporto con le élites nazionali e sovranazionali. Ai comunisti lo ha spiegato Gramsci; a spiegarlo ai liberali e ai conservatori aveva provveduto molto prima Guizot. La sostanza non cambia. Per governare ci vogliono i voti ma ci vuole anche una diffusa cultura di governo, in Europa come in America.