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Riportiamo l’intervento di Gaetano Quagliariello in occasione della cerimonia di assegnazione del Premio Internazionale Ignazio Silone 2020 allo scrittore, accademico e filosofo Antonio Scurati

 

I due volumi che Antonio Scurati ha fin qui consacrato alla biografia di Mussolini non sono un’opera storica. Non sono nemmeno un romanzo storico. In Italia quest’ultimo genere ha una grande tradizione. Per affermarlo non c’è nemmeno bisogno di scomodare Alessandro Manzoni e i suoi Promessi Sposi. Limitiamoci alla storia unitaria. Sulla sostanza della rappresentanza politica all’indomani dell’unità, l’incontro tra Chavelley e il Principe Salina, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, dice più di molti manuali. Per capire le conseguenze politiche e sociali dell’allargamento del suffragio del 1882, il cameriere di casa Uzeda promosso galoppino elettorale e nella nuova funzione ammesso al desco dei padroni, nei Viceré di Federico de Roberto, spiega assai meglio di tanti tomi di storia dei sistemi elettorali. Per apprezzare le ragioni di fondo e di ambiente del passaggio di Andrea Costa dall’anarchia al socialismo, alcune pagine del Diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli sono illuminanti. Il romanzo di Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano è lettura fondamentale per chi vuole comprendere la durezza della Prima Guerra Mondiale. 

E ancora. Alcuni aspetti del fascismo provinciale sono spiegati, certamente meglio di molti saggi storici, dai libri di Piero Chiara e di Andrea Vitale. La resistenza oltre il mito, con le sue nuance e le sue differenziazioni interne, è resa magistralmente nel Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. E il perché la riforma elettorale del 1953 rappresentò una svolta politica e sociale oltre il mero tecnicismo, ci viene spiegato negli Anni del giudizio di Giovanni Arpino. Quale testo meglio di Todo Modo di Leonardo Sciascia è poi in grado di mettere a nudo la crisi del partito cattolico al cospetto del processo di secolarizzazione? A chi, infine, volesse consacrarsi allo studio dell’estremizzazione post-sessantottina della lotta politica, consiglierei senza tema d’errore di partire dalla lettura del Fasciocomunista di Antonio Pennacchi.

Si potrebbe continuare ma già questa breve e incompleta carrellata ci fa comprendere che attingendo al romanzo storico si potrebbe ricostruire e rileggere l’intera vicenda italiana: si tratta di pagine che, attraverso una narrazione, raccontano e illuminano ciascuno un periodo della nostra storia comune.

L’opera di Antonio Scurati a me sembra qualcosa di diverso. La materia dei suoi libri non è la storia attraverso un racconto ma è storia raccontata. Lui tratta una vicenda integralmente storica, resa attraverso la forma letteraria del romanzo. Si tratta di un genere che nel mondo anglosassone ha una grande tradizione, ha grandi interpreti e gode di prestigio. Lì storia e racconto hanno stretto da tempo un’alleanza vincente. Per comprenderlo, basterà citare il libro di Barbara W. Tuchman «I cannoni d’agosto» (The Guns of August), pubblicato nel lontano 1962, vincitore del premio Pulitzer. Una sorta di idealtipo. Forse nulla meglio di quelle avvincenti quattrocento pagine spiega gli esordi della Grande Guerra. E nulla più di quel tomo ha rappresentato un viatico all’approfondimento storico delle vicende della Grande Guerra.

Ecco, questo è il punto. In Italia, a differenza di quanto accaduto nel mondo anglosassone, si è progressivamente acuita la separazione tra la storia professionale e la scrittura della storia, fino a prospettare un vero e proprio divorzio. Salvo alcune eccezioni, anche notevoli, la capacità di narrare degli storici del periodo pre-repubblicano – Gioacchino Volpe, Angelo Tasca, Gaetano Salvemini, Benedetto Croce, solo per citarne alcuni tra i maggiori – è stata dissipata. Le ragioni sono complesse e non possono essere qui ricostruite ma la storia è stata sempre più spesso interpretata come mera “tecnica di ricostruzione storica”. E sempre più spesso, per non correre il rischio di scrivere libri con poche note, si è preferito scrivere note senza il libro.

Anche per questa ragione, la storia è venuta a occupare un posto sempre più marginale nella cultura del Paese: sia in quella “alta”, sia in quella “diffusa”. Privata del suo specifico – rappresentare l’anima di un racconto unico, non riducibile ad assunti ricorrenti e tanto meno a “leggi”, ma nondimeno essere magistra vitae – negli insegnamenti universitari è stata spesso e volentieri soppiantata da insegnamenti di “scienza della politica”. I cataloghi degli editori si sono impoveriti di titoli ad essa riconducibili e la classe dirigente ha creduto di poterne fare tranquillamente a meno. Io penso che una delle ragioni dello scadimento della politica nostrana risieda proprio nell’ignoranza storica: nel fatto, cioè, di non considerare quel bagaglio di vissuto che la storia ti propone come il primo materiale d’analisi critica al momento di prendere una decisione di qualche rilievo.

Per questo io penso che l’opera di Antonio Scurati rappresenti una grande occasione culturale, al di là del suo orientamento di fondo e delle inevitabili imperfezioni. Essa aiuta a immettere nel patrimonio comune della nazione un periodo della sua storia che, per molte e complesse ragioni, è stato fin qui tenuto ai margini della “comprensione critica di massa”, quasi racchiuso in una parentesi: da alcuni esaltato, da altri esecrato come “male assoluto”, di rado trattato criticamente. In Italia d’altro canto, per una parte del periodo repubblicano, la storia politica è stata un’appendice della partitocrazia e ogni partito si è dotato di storici “della casa”, che ovviamente gestivano in quasi monopolio gli archivi “della casa”.

Restiamo all’oggetto dell’opera di Scurati. Certamente non sono mancate eccezioni alla regola prima enunciata: nella stagione dei “contemporanei” al fenomeno fascista, i Tasca, i Croce, i Silone, i Salvatorelli; in quella successiva, tra gli altri, i Settembrini, gli Acquarone, gli Ungari e soprattutto i De Felice. Tutti studiosi in grado di elaborare contributi importanti, critici e coraggiosi, vieppiù per i tempi nei quali sono stati prodotti. Alcuni sono rimasti nella nicchia, altri in accademia, altri con grande difficoltà hanno superato i confini universitari soprattutto perché oggetto di un ingiusto ostracismo.

Antonio Scurati, riconciliando la storia con il racconto, consente anche a quanti non leggono di storia per professione di considerare la storia del fascismo sulla base dei fatti e non del pregiudizio. E ciò nonostante e oltre il suo giudizio, espresso in modo non equivoco: che esso sia condiviso o meno. Io penso che gli storici dovrebbero esserne lieti.
Oggi, dopo il successo dei suoi libri, alcuni aspetti fondamentali del fenomeno “fascismo”, fin qui presenti marginalmente quantomeno nel senso comune, hanno conquistato il centro della scena e potrebbero innescare un dibattito più essenziale, più libero e, perché no, più equilibrato di quello che si è consumato in passato. Mi limito qui a evidenziare, tra i tanti possibili, tre di questi temi.

Il primo è il nesso indissolubile tra fascismo e Prima Guerra Mondiale. Il fascismo nasce, si afferma e vince nella voragine psicologica aperta nelle masse da un avvenimento incredibile e inimmaginabile, rivoluzionario e “democratico” in quanto non risparmiò nessuno, che per anni aveva portato i popoli a convivere con la gerarchia, la morte, la violenza. Non certo casualmente due grandi storici di orientamento diverso se non opposto – François Furet ed Eric Hobsbawm -, autori dei primi grandi affreschi del Novecento, hanno entrambi scorto nella Grande Guerra non soltanto l’incipit del secolo ma anche il suo paradigma. Si obbietterà: questa condizione fu però condivisa da tutti i popoli e tutte le nazioni europee, non fu una prerogativa del nostro Paese. L’Italia, tuttavia, era una nazione giovane e il peso di oltre mezzo milione di morti nelle trincee risultò qui vieppiù stravolgente. Questo tratto comune, peraltro, è una delle ragioni per le quali il fascismo deve essere considerato un fenomeno affatto provinciale, nonostante in alcune sue manifestazioni al provincialismo abbia poi ceduto.

Questa acquisizione consente anche un discorso non moralistico sull’utilizzo della violenza politica. Scurati lo evidenzia benissimo: la violenza fu innanzi tutto un portato dello spirito dei tempi. Uomini abituati nelle trincee a convivere per anni con la morte violenta, una volta tornati a casa hanno ritenuto che la politica fosse la prosecuzione della guerra con altre armi, spesso addirittura con le stesse armi. Per questo in quegli anni la violenza non fu monopolio del fascismo; per questo, d’altro canto, il fascismo non può essere compreso nella sua essenza prescindendo dalla considerazione della violenza politica, che ne fu elemento costitutivo. Intorno al suo utilizzo, ritenuto “legittimo”, si giocò poi una partita interna che, come scrisse con chiarezza Mussolini sulle colonne di Gerarchia, investì i rapporti tra lo Stato e il partito. Quella partita e il suo esito ci aiutano a comprendere perché la matrice originaria non venne mai del tutto meno e non fu mai rinnegata. E, allo stesso tempo, consente di riconoscere che la violenza fascista non degenerò in terrorismo di massa, caratteristica di altri regimi tendenzialmente totalitari che hanno segnato il “secolo del male”.

Il terzo aspetto sul quale vorrei soffermarmi è l’importanza del fattore personale. Scurati gli dà tutto il rilievo che merita, anche oltre la centralità inevitabilmente assegnata al protagonista della sua storia. Lo si ricava, tra le altre, dalle pagine consacrate a D’Annunzio, a Matteotti, a Farinacci, ad Amendola. Al di là di questa propensione imposta dalla tecnica narrativa, dalla sua storia si evince che il fascismo non ci sarebbe stato – o sarebbe stato tutta un’altra cosa – senza Mussolini: altro che autobiografia di una nazione, altro che storiografia della disfatta. D’altro canto, per quanto paradossale possa sembrare, il secolo che più di ogni altro ha attentato alla libertà dell’individuo, ha fissato durevolmente la centralità del carisma personale in politica. Non soltanto non ha senso parlare di fascismo senza considerare la personalità di Mussolini ma il comunismo sovietico sarebbe stato differente senza Stalin e il nazismo senza Hitler. E questa centralità, come intuì e teorizzò Max Weber, è anche il legato che la stagione delle tirannie lascia a quella della democrazia che le succede.

Non a caso, dopo l’inevitabile rigetto, a partire dalla seconda metà del secolo i sistemi politici hanno iniziato a prediligere presenze monocratiche ai vertici degli Stati, equilibrate da un efficace (si spera) sistema di contrappesi. Da De Gaulle in poi, l’edificazione di tanti sistemi presidenziali e semi-presidenziali s’inscrive in questo solco.

A me pare, sinceramente, che questi ed altri nodi tematici, questi campi d’indagine, siano più aperti dopo la pubblicazione dei libri di Antonio Scurati. Gli storici di professione dovrebbero approfittarne, così come Scurati ha approfittato dei loro studi. A me pare anche che questo sia il portato più importante del successo dell’operazione culturale che Scurati ha posto in atto: essa apre spazi critici; non si limita a rielaborare vecchi stilemi, a riproporre sotto differenti spoglie dogmi che il tempo ha anchilosato. Proprio per questo motivo – innanzitutto per questo motivo -, consentitemi d’immaginare che Ignazio Silone sarebbe stato contento che oggi gli si assegni un premio che porta il suo nome. Complimenti!