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Riproponiamo l’intervento di Giovanni Guzzetta, pubblicato su Il Riformista, sulla proposta lanciata dal Presidente della Fondazione Magna Carta di introduzione del cancellierato e della sfiducia costruttiva

 

La storia non si ripete. Lo sappiamo. E le analogie con il passato vanno sempre prese con le pinze. Ci sarà però un motivo per il quale, nella fase di gestazione e avvio del governo Draghi, in molti, compreso chi scrive, hanno rievocato la fase costituente. La gravità della tragedia che stiamo vivendo, la necessità di unità nazionale, l’urgenza di assumere scelte politico-economiche che si proiettano sui prossimi decenni, hanno contribuito a ricordare la situazione dell’Italia del secondo dopoguerra. Politicamente, insomma, quel paragone ha una certa forza evocativa. L’idea della necessità di una rifondazione ha contagiato un po’ tutti.

Non stupisce pertanto che, timidamente, e talvolta opportunisticamente, si manifestino accenni alla necessità di riforme istituzionali. Una fase costituente dello Stato. Un vero e proprio tabù ormai, dopo i tanti fallimenti. Ma i fallimenti, in realtà, sono indicatori di un’impotenza a cambiare non dell’inutilità di farlo. E così, da qualche giorno, si diffondono gli accenni a riaprire quel dossier. Vi è una ragione politica di questo interesse. Restando al paragone con il dopoguerra, è chiaro a tutti, sul piano storico, che i veri problemi del sistema politico italiano non esplosero nel momento delle convergenze, dell’unità nazionale. Essi si manifestarono soprattutto dopo, quando l’unità nazionale si ruppe. In particolare nel momento in cui le elezioni politiche del 1948 squarciarono il velo di ignoranza dietro il quale la Costituzione era stata concepita. Le elezioni del 18 aprile consacrarono vincitori e vinti. Per quanto drammatico, quel momento avrebbe dovuto segnare anche il ritorno alla normalità. Perché i governi di unità nazionale, le grandi coalizioni, non sono la regola della democrazia. Sono l’eccezione cui si ricorre per fronteggiare l’emergenza.

Ma è proprio quella “normalità” che, da allora, l’Italia non è riuscita mai a conseguire. Essa è rimasta una Repubblica in perenne transizione, una Repubblica transitoria… verso una normalità impossibile. Una democrazia bloccata, zoppa, in cui il bipolarismo (tipico delle democrazie avanzate) è stato per decenni una chimera e quando si è finalmente imposto (dal 1994) è stato avvelenato dall’incapacità di farlo funzionare. Si è trasformato in una lotta amico-nemico, complici istituzioni ormai decrepite. Perché concepite, in epoca costituente, non con l’obiettivo di assicurare la governabilità del sistema e la garanzia di un’alternanza fisiologica, ma frutto della paura e dell’incertezza data da quel velo di ignoranza. Non sapendo chi avrebbe vinto le elezioni, i partiti preferirono indebolire gli strumenti di governo, nel caso in cui a vincere fosse stato l’avversario.

Oggi ci troviamo, in un certo senso, in una fase pre-1948. L’unità nazionale ci dovrebbe (speriamo) garantire di mettere al sicuro il paese di fronte alle emergenze drammatiche. Ma non ci assicura nulla su quanto accadrà dopo. Anzi, rispetto al 1948, c’è l’aggravante che non esistono più i forti partiti organizzati, capaci di supplire alle debolezze istituzionali. Oggi i partiti sono anch’essi malati e per giunta la malattia presenta varianti che restano spesso sconosciute. Tutto il quadro politico è in movimento, ma il punto di approdo non è per niente chiaro. Di fronte a un tale scenario, sarebbe saggio, come ricordava Polito sul Corriere della sera di ieri, cambiare lo schema di gioco. Non affidarsi più, come fecero i costituenti, alla (in)capacità di guida dei partiti, ma costruire istituzioni in grado di contenerne le oscillazioni e sostenerne le fragilità. Evitando così che lo spappolamento del sistema partitico ci riconsegni, dopo, lo spettacolo di cui siamo stati impotenti spettatori in questi anni.

Ben venga dunque un dibattito che segnali l’urgenza di costruire istituzioni stabili ed efficienti. Ben venga soprattutto la fine dell’ipocrisia che vorrebbe tutti i problemi risolti modificando la legge elettorale. Perché la legge elettorale, quando è una buona legge, può aiutare a premiare o punire i partiti, ma non ne muta i vizi dopo che le elezioni si sono svolte. Dal 1994 è chiaro a tutti che non basta un esito bipolare perché il bipolarismo regga. È sufficiente pensare ai tanti ribaltoni e ribaltini che hanno tradito l’orientamento espresso dagli elettori. Ma anche ai regolamenti parlamentari o alle regole per governare, che non sono mai state adeguate alla logica di una democrazia “normale”. Le soluzioni per cambiare questo schema di gioco sono tante e si potrà tornare a parlarne. Due cose debbono essere però chiare. La prima è che il cambiamento è la cosa più difficile da fare, perché anche i politici, come tutti gli uomini, preferiscono sempre un gioco imperfetto, ma di cui conoscono le bene le “regole”, a un gioco migliore, che li costringe, però, a elaborare nuove abilità e nuove capacità di adattamento. In secondo luogo, non va dimenticato che i vizi sono duri a morire e non basta ispirarsi a modelli virtuosi se non si trova il modo di creare incentivi perché quelle virtù si sviluppino e i vizi cessino.

Sulla carta, ad esempio, il modello della sfiducia costruttiva “alla tedesca” sarebbe sicuramente un passo in avanti (senza voler considerare cambiamenti ancor più incisivi). Pensando alla facilità con cui si cambiano oggi le maggioranze in Parlamento, in spregio alle scelte elettorali, chi non vorrebbe evitare le agonie di crisi nate da agguati improvvisi o dal lento logoramento di un esecutivo, senza che ci si assuma la responsabilità di proporre un’alternativa. La sfiducia costruttiva, infatti, prevede che per far cadere un governo è necessario che sia pronta una maggioranza alternativa e un nuovo primo ministro. Che insomma il “ribaltone” sia alla luce del sole, con assunzione di responsabilità di fronte al popolo sovrano. Ma una tale soluzione potrebbe avere un senso (sempre che non si abbia il coraggio di cercare di meglio) solo a patto che si sviluppi la virtù e si uccida il vizio. E il vizio, in Italia, è che i governi non cadono per la sfiducia del Parlamento, ma per l’implosione della maggioranza che lo sostiene, per le congiure di Palazzo Chigi non di Montecitorio. Si tratta, come dicono i tecnici, di crisi extraparlamentari.

Il Parlamento, cioè, non tocca palla. Inutile allora aggiungere alla mozione di sfiducia (che in Italia praticamente non si applica mai) l’aggettivo “costruttiva” se non si elimina il problema delle crisi extraparlamentari. Sarebbe come costruire pomposamente una linea Maginot che, com’è noto, fu aggirata a passo di carica senza che sia servita assolutamente a nulla. Del resto, persino nella virtuosa Germania, in taluni casi è successo che i governi siano caduti senza ricorso alla sfiducia costruttiva. Figuriamoci da noi, dove non funziona nemmeno quella “semplice”.

Non conosciamo i dettagli delle proposte che vorrebbero condurci verso il modello tedesco e dunque è doveroso attendere che siano rese note nei dettagli. Ma certamente, nel paese di Machiavelli, è molto importante che chi le propone si faccia carico di estirpare i vizi, ancor prima che di esaltarne le virtù. Questa è la sfida e c’è da augurarsi che qualcuno, primo o poi, riesca a vincerla.