Pubblichiamo l’intervento di Gaetano Quagliariello, tenuto in occasione della Tavola Rotonda dal titolo “Investire nelle aree fragili del Paese: Sud e aree interne alla prova del Recovery Plan” svoltasi lo scorso 15 ottobre a L’Aquila presso il Gran Sasso Science Institute.
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Parlare ancora di questione meridionale è oggi impraticabile, rischia di far apparire datato e fuori tempo massimo qualunque discorso, e di indurre in chi ascolta una tediosa sensazione di ripetitività. Eppure la frattura tra nord e sud del paese è tutt’altro che risolta, e l’attuale pandemia l’ha probabilmente approfondita e resa più evidente.
Due sono forse i punti che possiamo desumere dalla lunga storia della questione meridionale, ripresa e modulata in modi tanto diversi nel corso degli anni: il primo è il suo esaurimento come questione nazionale, affrontabile e risolvibile dallo stato nazionale, che ha certamente ancora un ruolo decisivo ma è fortemente condizionato, nella sua capacità decisionale e di intervento, da un lato dalle autonomie regionali e locali, e dall’altro dall’Unione europea.
Il secondo punto è la difficoltà di riportare ormai sotto un unico capitolo un Mezzogiorno che non si può più considerare un unico blocco compatto, bensì un territorio articolato, frammentato in aree molto differenti sul piano delle potenzialità di sviluppo, della vitalità produttiva e sociale, della consistenza strutturale. Va inoltre riconosciuto un peso notevole anche alla frattura verticale del nostro paese, tra il versante tirrenico e quello adriatico, frattura che si aggiunge e a volte si sovrappone a quella nord-sud. Pur riconoscendo dunque una certa perdurante omogeneità delle condizioni del meridione d’Italia, riteniamo ormai più adeguato parlare di aree fragili del paese, così come è richiamato nel titolo che abbiamo voluto dare a questo nostro incontro.
Tra i territori che per vari motivi definiamo fragili ci sono, naturalmente, le aree interne, che costituiscono peraltro una consistente porzione del nostro paese, percorso dalla dorsale appenninica. Anche gli squilibri fra l’interno e la costa, tra spazi rurali e metropolitani, si intersecano e spesso si aggiungono a quelli storici tra nord e sud. Le aree interne rappresentano il cuore della società nazionale e custodiscono un patrimonio artistico, culturale, ambientale, socioeconomico e antropologico di inestimabile valore: un patrimonio identitario. Sono zone che risentono fortemente del progressivo calo demografico che affligge tutta l’Italia, ma che in questi luoghi sfocia in un abbandono che a volte arriva fino alla desertificazione. Lo spopolamento porta con sé problematiche di grande rilievo, che andrebbero affrontate finché si è ancora in tempo: primo fra tutti il degrado ambientale, il declino di quella salvaguardia abituale e continuativa del territorio strettamente legata all’antropizzazione e alla coltivazione dei terreni, che riguarda sia il patrimonio architettonico e storico, sia quello paesaggistico e verde. In tempi di green economy, e di attenzione agli stili di vita compatibili con la sostenibilità ambientale, le risorse offerte dai tanti borghi italiani delle aree interne non possono essere trascurate.
La scelta del titolo, che, come abbiamo detto, pone l’accento sulle aree fragili del paese, non è solo una questione astratta, di categorizzazione. E’una concreta questione politica, di opzioni che oggi sono a portata di mano. Nell’epoca della disintermediazione tra i poteri centrali e quelli periferici, il ruolo del PNRR ha fatto riscoprire alla politica una centralità nel dialogo con i territori, creando una nuova sinergia di intenti, nella prospettiva, assai ambiziosa ma non irrealistica, di nuovo rinascimento italiano. Un approccio frutto di una visione che non può essere solo di natura territoriale e locale, ma di area vasta.
Le aree interne rappresentano, oggi, anche un’opportunità di ristrutturazione della governance locale, con un dialogo e una sinergia con la struttura centrale in cui si superino vecchie resistenze, per promuovere progetti che possano garantire efficienza, trasparenza e tracciamento dell’investimento. Insomma, il PNRR deve costituire anche l’occasione per tornare a una visione politica di grande respiro, non limitata alle scadenze immediate e alle contingenze, e soprattutto attenta ai bisogni di territori caratterizzati da importanti svantaggi di natura geografica e di competitività.
Su questa scia infatti si muovono e si estendono i primi investimenti del PNRR (fondi stanziati e previsti dal Fondo Complementare 2021/2026) che ad oggi mettono sul tavolo 300 milioni di euro per le aree interne, di cui il 47% per le aree del Sud Italia per rispondere alla prima necessità di tali aree ossia la messa in sicurezza delle vie di comunicazione e di collegamento (manutenzione straordinaria strade).
A usufruirne saranno 72 aree già comprese nella Strategia Nazionale aree interne, ma anche quelle che eventualmente dovessero essere ufficializzate entro il 31 dicembre 2021. Ripartire infatti dalla manutenzione rappresenta un primo passo non solo per la tutela degli abitanti, ma anche per le possibilità di industrializzazione, occupazione e sviluppo demografico di tali aree, che ad oggi a causa di un mancato coordinamento nell’articolazione dei lavori e delle direttrici di finanziamento sconta gravi ritardi.
Saranno fondamentali poi gli investimenti legati alla digitalizzazione e alla formazione, che potranno essere integrati a quelli predisposti per le città e le periferie (159 progetti per 2,8 miliardi). Serve costruire una cultura che sia un ponte d’incontro tra la transizione digitale e la transizione verde. La sfida del divario tra Nord e Sud sarà incentrata proprio sulla competitività che le regioni meridionali potranno recuperare grazie ad interventi mirati allo sviluppo di reti d’impresa che mettano insieme servizi, persone e cultura digitale. Tutto questo anche nel quadro del nuovo ruolo della PA, di una riforma generale del codice degli appalti e di una riforma fiscale che possa promuovere l’impresa in tutte le sue forme.
A favorire tale visione sicuramente gioca anche il ruolo delle nuove forme di mobilità in una prospettiva di coesione territoriale. La politica e le amministrazioni saranno chiamate a rimodulare i piani urbanistici delle città, e ad ammodernare i servizi di rete per garantire efficientamento energetico e per rispondere a esigenze e richieste di mobilità integrata per le aree interne e di periferia, in primis sul versante ferroviario. Per le aree interne e il Mezzogiorno si potrebbero aprire nuove opportunità, creando un’unica dorsale produttiva “dal mare alla montagna”, rompendo l’isolamento che è forse il primo fattore frenante per lo sviluppo dei nostri piccoli borghi storici.
I borghi possono rappresentare una cintura di connessione, si pensi solo che nel PNRR si parla di 1,02 miliardi di euro nella Missione 1 (digitalizzazione) per il “Piano Nazionale Borghi”, un programma ad hoc di sostegno allo sviluppo economico e sociale dei piccoli centri attraverso progetti locali a base culturale volte a valorizzare un turismo sostenibile alternativo. Se quindi una nuova cultura del trasporto in connessione ad una nuova cultura dei “neoluoghi” raggiungerà il risultato sperato, borghi e aree interne potranno vivere una nuova stagione, da cui si potrà ripartire per un cambio di marcia sia a livello demografico sia a livello economico.
C’è dunque l’occasione seria e concreta di una proposta politica per le aree interne e il Mezzogiorno, se saremo in grado di superare la frammentarietà con un coordinamento normativo e raccordo operativo degli strumenti di sostegno finanziario, in sinergia con le banche d’investimento locali e le casse rurali.
Le cinque sessioni che su cui abbiamo deciso di costruire il dibattito di questa giornata saranno destinate ad altrettanti temi su cui è, oggi come mai, improrogabile aprire una riflessione che orienti l’azione pubblica e non perdere, così, l’occasione irripetibile di arginare e ridimensionare la crisi delle aree fragili del nostro territorio.
Quello dello sviluppo economico, tema vastissimo, sarà il primo di cui tratteremo. Tra gli obiettivi improrogabili in questi territori vi sono quelli di promuovere la crescita e l’occupazione, favorirne lo sviluppo e arginare quel processo di marginalizzazione che si manifesta attraverso intensi fenomeni di de-antropizzazione, invecchiamento demografico, riduzione dell’occupazione e del grado di utilizzo del capitale territoriale. Insomma, quello della valorizzazione del capitale di questi territori rappresenta il punto chiave della riflessione da affrontare per avviare un processo di crescita che si ponga come punto di partenza di una vera opera di ripresa post pandemica.
A seguire parleremo di turismo, valorizzazione culturale e mobilità dolce: negli ultimi tempi abbiamo visto crescere la popolarità del turismo cosiddetto sostenibile e “lento”, che valorizza l’aria aperta, l’enogastronomia diffusa, la ruralità. Occorre, però, stare attenti alla connotazione di marginalità che rischia di segnare questo tipo di turismo se proposto in alternativa a quello tradizionale: si tratta, piuttosto, di un arricchimento delle opportunità in particolare per le aree del Paese oggetto di queste riflessioni, che presuppone studio, idee, dedizione e soprattutto investimenti.
Il dibattito migrerà poi sul tema delle infrastrutture, materiali e immateriali. Fra tutti, il tema della sicurezza sismica porta con sé una particolare sofferenza ma anche, grazie al luogo che ci ospita oggi, la cifra di cosa significa davvero un termine fin troppo usato e abusato: resilienza. Il tema delle infrastrutture è però assai vasto, e oggi non possiamo non parlare – nell’era dello smart working – di quelle immateriali, entrambe, nei territori di cui oggi discutiamo, testimoni di un gap tecnologico che nel tempo ha raggiunto livelli sempre maggiori.
La sessione successiva sarà dedicata al tema del Welfare e della Sanità: tra le questioni che si pongono con maggiore intensità non può non menzionarsi quella dell’inverno demografico, fenomeno che interessa l’intero Paese e che si pone con particolare impetuosità nel Mezzogiorno e nelle aree interne. L’epidemia da Coronavirus ha avuto un impatto senza precedenti sulla nostra società, e non vi è dubbio che tra i settori più colpiti rientri quello della Sanità. Il diffondersi dell’infezione ha, infatti, posto dinnanzi agli occhi di tutti la capacità di resistenza dei sistemi sanitari dei diversi paesi e delle diverse aree territoriali, ponendoci di fronte, in maniera inaspettata ed esplosiva, il problema del contagio e di capacità di rispondere all’emergenza. Sul fronte della Salute, dunque, oggi più che mai occorre individuare le politiche da attuare, alla luce degli investimenti connessi all’attuazione del Recovery Plan, per assicurare a tutti l’assistenza sanitaria: negli ultimi anni, infatti, molti di questi territori fragili hanno subìto interventi di razionalizzazione e di contrazione delle strutture ospedaliere, posti in essere contestualmente a processi di macroriorganizzazione che hanno privilegiato i grandi centri e le zone costiere. Questa razionalizzazione non va respinta ma va integrata con una maggiore attenzione alla medicina di territorio, su cui abbiamo dolorosamente scoperto, in tempi di pandemia, di essere molto deboli, e con una distribuzione dei servizi assistenziali e sanitari più equa, che non registri freddamente la situazione di spopolamento e non si fondi solo sulle –pur necessarie- logiche aziendalistiche, ma sia parte di una progettualità più ampia, per riqualificare le aree interne, renderle attrattive.
Infine tratteremo il tema, a me molto caro, dell’Università: ho insegnato per nove anni all’Università dell’Aquila, e il suo centro storico era un campus a cielo aperto. Le Università che servono le aree interne appenniniche possono apportare ai territori in cui si collocano un inestimabile valore aggiunto e possono esercitare un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale, sociale ed economico di tali terre. Si possono riconoscere percorsi formativi che abbiano non solo uno sbocco lavorativo, ma anche la capacità di attrarre sviluppo e ricerche nel campo dell’agritech per favorire le economie locali e dei boschi, legate ai settori quali l’agroalimentare, la pesca, l’acquacoltura, la silvicoltura, floricoltura e vivaismo. Potremmo cominciare fin da subito, sollecitando gli atenei del Centro Italia (o almeno alcuni di essi) a mettere in comune problemi e opportunità. Si dovrebbe pensare in grande; si potrebbe anche immaginare una Università dell’Appennino.
Oggi l’Aquila può rappresentare un fulcro per le iniziative di cui abbiamo parlato, divenendo un progetto pilota e di direttrice per un’area vasta che possa coordinare l’Abruzzo, insieme alla Regione Lazio, Marche e dell’Umbria in continuità con il processo avviato dalla cabina integrata e presieduta dal commissario per la ricostruzione, nell’attuazione di un processo di città sicura, sostenibile e connessa (ricordiamo che il pacchetto ad oggi ha un valore di 1,78 miliardi di euro totali messo a disposizione come linea d’investimento del PNRR); un processo che possa attrarre capitali finanziari e maestranze formate e aziende competitive.