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Modernizzò l'Italia ma non riuscì a compiere il sogno liberale

RASSEGNA STAMPA

Si riporta di seguito l’editoriale del Presidente Gaetano Quagliariello pubblicato il 13 giugno su la Gazzetta del Mezzogiorno.

Modernizzò l’Italia ma non riuscì a compiere il sogno liberale

Con ogni probabilità nei libri di storia il periodo che verrà indicato come “Italia berlusconiana” sarà il tempo compreso tra il 1994 e il 2013: quello del “bipolarismo quasi perfetto”, esito che Berlusconi determinò con la sua discesa in campo per impedire una vittoria della sinistra che allora appariva pressoché scontata. In quei dieci anni il Cavaliere non ha governato con continuità, ma non è questo che conta. Quel che veramente vale è che per tutto quel tempo fu lui il fulcro del sistema, rispetto al quale ogni partito, ogni uomo politico, ogni semplice elettore avrebbe determinato la sua collocazione e le sue scelte. Berlusconi allora divise il giudizio degli italiani come dal 1948 in poi non era mai più accaduto. C’è chi lo amò e chi lo detestò e persino quanti avrebbero voluto esprimere su di lui giudizi più moderati e critici, sulla scia delle tradizioni vigenti nella prima parte del periodo repubblicano, alla fine non potettero fare a meno di confrontarsi (o scontrarsi) con la sua centralità.

Se però è questo il portato di un’analisi della politique politicienne, una disanima che tenga conto delle forze più profonde della storia ci porta ad altre considerazioni. Ci suggerisce che, “a posteriori”, il periodo nel quale il Cavaliere interpretò lo spirito dei tempi fino al punto di immedesimarsi con essi deve essere indicato negli ultimi due decenni del Ventesimo Secolo: gli anni dell’ottimismo che egli incarnò facendone la regola della sua vita; quelli nei quali il liberalismo parve veicolare le sorti progressive della storia e nei quali il progresso sembrava aver definitivamente conquistato il futuro.

Fu allora che la televisione commerciale, della quale egli più di ogni altro fu l’alfiere, acquistò il diritto di fare concorrenza a quella di Stato. Fu allora che la cultura diffusa veicolata dalle sue reti produsse un processo di secolarizzazione dei costumi senza precedenti. Fu allora che Berlusconi acquistò il Milan, inaugurando la marcia trionfale che lo avrebbe portato a presiedere il club nel frattempo divenuto il più forte del mondo. Fu allora che avvenne la sua discesa in politica, arrisa da un successo immediato più forte della improvvisazione e delle contingenze avverse.

Poi, con l’inizio del secolo – e in particolare dopo l’11 Settembre del 2001 -, qualcosa è cambiato e progressivamente si determinò una sfasatura tra la sua psicologia e la torsione che il nuovo tempo della storia andava via via acquisendo. Gli ottimisti dovettero abdicare e i liberali appresero che la storia non sempre procede in linea retta. Berlusconi dimostrò allora caparbietà e forza resiliente ai limiti dell’umano. Quello, però, non era più il suo tempo. Il sogno liberale si era ingarbugliato e la scena si era complicata, a livello internazionale ancor più che in ambito domestico. Forse anche per questo si sarebbe fatta sempre più evidente la contraddizione tra il suo rango politico e alcune sue scelte personali. Forse anche per questo, giunto sul punto di poter legittimare la modernizzazione del sistema che egli stesso aveva determinato, avrebbe sempre rovesciato il tavolo piuttosto che consolidare il risultato. Forse anche per questo – per un riflesso difensivo nei confronti di una stagione che non avvertiva più come sua – preferì rinunziare all’idea di dar vita a una comunità liberale di massa che potesse proiettarsi oltre la sua vicenda eroica. Scelse allora di ripiegare su una concezione proprietaria e privatistica dello spazio politico più rassicurante, che però ha di fatto concesso l’egemonia ad altre componenti del suo schieramento. Forse è stato anche a causa di una così profonda divaricazione tra la sua psicologia e il nostro tempo che, a consuntivo, in politica ha prodotto meno di ciò che la sua centralità gli avrebbe consentito di fare.

Resta il merito indiscutibile di aver innescato un processo di modernizzazione della politica che nel nostro Paese, per le condizioni peculiari della sua storia, era da troppo tempo in stand by; di aver impedito che nel ‘94 – all’indomani della fine del comunismo – la transizione si compisse contro la storia; di aver riunito durevolmente i moderati italiani, obbiettivo al quale non ha mai abdicato neppure per convenienza. Non è poco. Per quelli della mia generazione che si sono detti e sentiti liberali nessuno ha potuto evitare di fare i conti con lui. E si dovrà continuare a farli, perché la sua morte ha riaperto uno spazio politico centrale che da un po’ di tempo era come anestetizzato: da domani quei territori torneranno agibili e nessuno avrà più alibi.  

 

Si riportano di seguito alcuni passaggi dell’intervista rilasciata dal presidente  Gaetano Quagliariello a Federica Fantozzi dell’Huffington Post il 12 giugno. 

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Nei libri di storia “il periodo berlusconiano” sarà considerato quello compreso tra il 1994 e il 2013: la fase del primo bipolarismo repubblicano che il Cavaliere ha interpretato fino al 2006 al suo massimo e poi ha gestito credendoci però di meno. 

In termini più generali, si può però affermare che il berlusconismo è stato un fenomeno positivo quando gli interessi del Cavaliere hanno coinciso con quelli della Nazione, come è accaduto in diverse occasioni; quando invece non hanno conciso, il fenomeno ha cambiato di segno.

La tv commerciale è stata la rivoluzione di palinsesti superati, anzi ossidati, e insieme l’anticamera di un cambiamento sociale che tra le altre cose ha generato il populismo. Certo, l’ambivalenza torna ed è innegabile. Ma non c’è stato solo questo. In una dimensione culturale “alta”, la stessa storia del liberalismo italiano è cambiata. Fino al 1994 c’erano essenzialmente Croce, Einaudi e poco altro. Dopo c’è stata un’apertura al mondo anglosassone, alla scuola austriaca e quanti si professavano “liberali” non furono più considerati dei reietti neppure nelle istituzioni culturali che avevano subito l’egemonia della sinistra.

C’è stata un’apertura al mondo anglosassone, alla scuola austriaca e quanti si professavano “liberali” non furono più considerati dei reietti neppure nelle istituzioni culturali che avevano subito l’egemonia della sinistra.

Nella storia d’Italia l’operazione non è riuscita tante volte: prima di lui c’è stata la stagione liberale da Cavour a Giolitti, poi il fascismo, infine la Democrazia Cristiana. 

Al contrario di ciò che è accaduto ad altri personaggi che hanno segnato la storia d’Italia, diversamente carismatici – Mussolini, De Gasperi, Fanfani, Craxi, lo stesso Moro – non è stata la politica ad entrare nel suo privato ma il privato a condizionare (al ribasso) la sua politica.  Come ho detto, c’è stato un momento in cui avrebbe potuto smentire questa regola ma, invece, sciogliendo il Pdl ha scelto di non staccarsi dalla sua essenza e in un certo senso di eternarla.

Il Cavaliere ha sempre fatto saltare il banco quando eravamo vicini a scrivere “la nuova regola” rispetto alla grammatica della Prima Repubblica: lo ha fatto con D’Alema, Letta, Renzi… 

Forza Italia è stata lo strumento attraverso il quale stato scritto un capitolo importante di una vicenda eroico-personale: ora non servirà più e sarei molto stupito se riuscisse a sopravvivere alla fine di quella vicenda.   Resta un grande problema che ci riporta indietro, fino al ‘94: si è di nuovo creato uno spazio enorme tra due schieramenti molto polarizzati all’interno del quale c’è anche tanto di ciò che possiamo chiamare “l’italianità”. 

Il 12 giugno il Presidente Gaetano Quagliariello è intervenuto nel podcast “Gli speciali di Radio 24”

 

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