Editoriale del Presidente Quagliariello sulle rivolte in corso in Francia pubblicato il 9 luglio su La Gazzetta del Mezzogiorno.
Nell’evo contemporaneo «la rivolta» può a buon diritto essere considerata «il mal francese». Così come, però, la rivoluzione del 1830 è stata cosa assai diversa da quella del 1848 e la Comune di Parigi non può esser posta sullo stesso piano dei tentativi di far cadere la Terza Repubblica da parte di leghe nazionaliste e antisemite, si commetterebbe oggi un grande errore facendo d’ogni erba un fascio. Certo: nello spazio di poco tempo la Francia ha conosciuto ben tre grandi focolai di crisi. Il primo, qualche anno fa, ha visto protagonisti i cosiddetti «gilè gialli». Poi, nel giro di qualche mese, si sono succedute le proteste contro la riforma delle pensioni e, da ultimo, quelle che hanno letteralmente infiammato le periferie del Paese.
Anche in questo caso stiamo parlando di fenomeni assai differenti, con peculiarità e ragioni di fondo che in alcuni casi appaiono persino contrastanti. I gilè gialli sono stati un fenomeno che ha riguardato in particolare le città piccole e medie dell’Esagono. Esso ha assunto la natura di rivolta fiscale: è stato, nella sua essenza, la ribellione della classe media provinciale contro il centralismo e lo strapotere di Parigi; una sorta di nuova edizione, riveduta e corretta, del poujadismo.
Quel movimento, per certi versi, va considerato antitetico rispetto a ciò che si è scatenato al momento della riforma delle pensioni fortemente voluta dal Presidente Macron. In questo caso, infatti, a manifestarsi con modalità estreme è stato il bisogno di protezione sociale che lo Stato centrale avrebbe dovuto garantire anche contro le evidenze della razionalità economica.
Entrambi questi focolai di malcontento, infine, hanno poco a che vedere con la violenza della banlieu andata in scena negli ultimi giorni. Non soltanto perché i protagonisti «ufficiali» – mossi da protagonisti «ufficiosi» celati nell’ombra – sono stati in questo caso in larghissima prevalenza giovani e giovanissimi. Ancor di più perché i contenuti di fondo della rivolta, veicolati da un nichilismo neppure dissimulato, hanno accomunato in un unico simbolico rogo la Francia e lo Stato.
Un tempo nella banlieu francese, a garantire l’integrazione nella nazione e la mediazione con lo Stato, vi erano il partito comunista e la chiesa cattolica. Il primo ha cessato da tempo di svolgere il suo ruolo; la seconda ha visto fortemente ridotta la sua influenza. Oggi le periferie sono abitate in prevalenza da popolazioni mussulmane ed i più giovani – immigrati di prima o seconda generazione – non hanno punti di riferimento, se non le organizzazioni criminali prive di scrupoli che sfruttano il loro disagio offrendo loro droghe di ogni tipo. Per questo, dal punto di vista simbolico, la loro protesta si è rivolta verso ospedali, biblioteche, scuole: i simboli di quella religione civile repubblicana che un tempo si sarebbe voluta in grado di penetrare ogni lembo di territorio, per coinvolgere e far sentire orgoglioso ogni cittadino francese.
Più concretamente poi, l’obiettivo è quello di sottrarre il «loro» territorio all’autorità dello Stato, affinché quello spazio venga governato da costumi e regole stabiliti autonomamente. Per questa ragione – e anche al di là dell’uccisione del giovane che ha scatenato la rivolta – l’obiettivo principale della violenza è stata la polizia: l’ultimo presidio in quei territori di un’autorità statale avvertita come illegittima.
In Francia il dibattito è aperto su quanto quest’attitudine sia in realtà fomentata e guidata da forze esogene – i «signori della droga» e alcuni stati stranieri, in primis l’Algeria – che vorrebbero sfruttare la rabbia dei giovani per il loro interesse, materiale e/o morale, di indebolire l’autorità dello Stato francese. Non è, invece, in discussione il fatto che la stragrande maggioranza della pubblica opinione stia dalla parte della polizia. Al punto che l’incredibile somma raccolta da una pubblica sottoscrizione per il poliziotto sotto accusa – enormemente più alta di quella messa insieme per la famiglia del ragazzo ucciso – appare come una nuova espressione di quella maggioranza silenziosa che nel 1968, per dire «basta» a una diversa rivolta giovanile, si manifestò sfilando silenziosamente sugli Champs-Élisées.
È il segno di una reazione e di una preoccupazione profonda. Gilè gialli, pensioni e periferie sono cose differenti ma, così come una persona che si frattura braccio, gamba e bacino in momenti ravvicinati è palesemente afflitta da debolezza organica, lo stesso vale per il corpo sociale di una nazione. Sotto questo punto di vista, la Francia oggi va considerata la malata d’Europa e, poiché nella società globale il contagio è assai agevole, ad essere preoccupati non dovrebbero essere soltanto i francesi.
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