Riportiamo di seguito l’articolo del Presidente Gaetano Quagliariello pubblicato il 26 gennaio 2024 sul Corriere della Sera.
I manifesti di Croce e Gentile. Disputa sull’Italia liberale
Si approssima il centenario di due manifesti che hanno segnato la storia politica dell’Italia contemporanea: quello pubblicato il 21 aprile 1925 a sostegno del fascismo, a prima firma di Giovanni Gentile, e quello con il quale il 1 maggio rispose Benedetto Croce. La scadenza ci viene ricordata da un libro che ne riproduce i testi, introdotti rispettivamente da Alessandra Tarquini e Giovanni Scirocco; corredati da scritti che dovrebbero rendere il clima di quel momento. La meritoria iniziativa consiglia di non perdere l’occasione del centenario: in un Paese nel quale i pantheon si trasformano e il dibattito politico-culturale raramente va oltre la strumentalità, esso può rappresentare l’occasione per un esame serio sul rapporto tra idea di libertà e storia d’Italia.
Croce e Gentile vanno annoverati tra i maggiori filosofi liberali dell’Italia del Novecento. Essi avevano condiviso un lungo sodalizio che dal piano intellettuale si estendeva ai rapporti familiari. Dallo sterminato epistolario, recentemente edito dalla Fondazione Croce, si evince come, sul terreno filosofico, fossero accomunati innanzitutto dalla medesima avversione per il positivismo. Se poi è difficile non riconoscere che il pensiero di entrambi rientrasse negli orizzonti del liberalismo, va d’altro canto evidenziata una originaria differenza d’approccio. Gentile è il filosofo dell’atto puro, per il quale idea e azione si saldano senza soluzioni di continuità. Croce è quello della distinzione; della dialettica tra momenti autonomi dello spirito. Sarebbe però un errore ricercare solo e innanzitutto in ambito speculativo le ragioni del loro divorzio. Per comprenderne i motivi è assai più proficuo mettere in correlazione la condivisa passione per l’Italia con la Grande Guerra e le crisi che da essa si generarono. È di fronte a quel bivio, infatti, che le strade di Gentile e Croce si separano.
Il primo aveva connotato il suo interventismo con una forte spinta volontaristica che veicolava la speranza in una rinnovata unità della nazione. Il neutralismo di Croce, invece, nasceva dalla preminente preoccupazione per le fratture che il conflitto avrebbe potuto incidere nel cuore dell’Europa. Tali opposte propensioni portano Gentile, che già godeva di grande influenza, a divenire sempre più un ineludibile punto di riferimento dell’antigiolittismo, soprattutto per le generazioni più giovani (si pensi all’influsso che esercitò su Gobetti e Gramsci, solo per citare alcuni nomi); mentre Croce, sia sulla guerra che nelle scelte successive, restò sostanzialmente legato a Giolitti condividendone analisi e posizioni.
Questo dissenso fa da sfondo ai due manifesti. Esso nacque, dunque, da una profonda lacerazione del tessuto connettivo della nazione da cui provenne, tra le altre cose, il bisogno di riconsiderare la storia del Paese, alla luce di quanto era avvenuto. Cento anni più tardi, per questo, fare i conti con i due documenti contrapposti, ci può aiutare a recuperare il senso della continuità della storia patria, dandoci una bussola per orientarci nei dibattiti e nelle polemiche del tempo presente.
Gentile, nel testo da lui redatto, tese innanzitutto a dimostrare come il fascismo non fosse un fenomeno contingente. Esso avrebbe avuto radici profonde: “un movimento recente e antico dello spirito italiano intimamente connesso alla storia della Nazione”. Il suo compito storico era quello di ricondurre l’Italia nel solco tracciato dal Risorgimento, sconfiggendo definitivamente lo Stato “che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico ed abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore”. A questo punto si stabilisce la connessione con la Grande Guerra. Il patrimonio etico e politico che l’Italia aveva accumulato dal ’15 al ’18, non doveva andare disperso. Nelle trincee aveva rivissuto lo spirito del Risorgimento e sui campi di battaglia si era morti per il solo fine che potesse giustificare quel sacrificio: “la vita e la grandezza della Patria” . Il fascismo era sorto per difendere quel patrimonio. Per questo lo si sarebbe dovuto ritenere l’erede legittimo dl Risorgimento.
Nella risposta predisposta da Croce, la vicenda che aveva portato all’ Unità è evocata al fine di proporre una più complessiva interpretazione, volte a scagionare il periodo liberale dalle accuse mossegli dagli intellettuali fascisti. Considerare il Risorgimento l’opera di una minoranza – si affermava – sarebbe servito a poco, in quanto di ciò “i liberali (…) non si compiacquero mai”, sforzandosi invece “di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla cosa pubblica”. Non si negavano le difficoltà del cammino ma, piuttosto che attribuirle a insufficienze degli eredi dei national builders, si riteneva che esse, “per ragione di contrasto”, avrebbero dovuto spingere “a ravvivare (…) il pregio degli ordinamenti liberali, e a farli amare con più consapevole affetto”.
Si comprende cosa i due manifesti, nel vivo di un rivolgimento politico-culturale che trovava origine nella guerra, resero emblematico. I loro sottoscrittori rivendicavano, da entrambe le parti, l’affermazione della nazione. Alcuni – con Gentile – ritennero, però, che la libertà allora conseguita sarebbe divenuta “solo esteriore” e che, per rinnovare l’unità del corpo sociale, avrebbe avuto bisogno di coniugarsi con l’autorità; altri – con Croce – voltandosi indietro, scorgevano una strada irta di difficoltà ma quel percorso appariva loro garanzia di accresciuta libertà e benessere.
Un racconto autobiografico di Roberto Calasso può aiutarci a distribuire, in chiave storica, torti e ragioni. Si riferisce a quando Gentile fu assassinato. Tre professori universitari, tra i quali Francesco Calasso, suo padre, furono arrestati e condannati a morte. Il figlio di Gentile, che non casualmente si chiamava Benedetto, si oppose con tutte le forze: la famiglia non voleva rappresaglie. Avrebbero aggiunto disgregazione a disgregazione. L’episodio attesta la buona fede di Gentile e, insieme, la sua sconfitta.
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