Articolo di Emanuele Canegrati, Coordinatore della Sezione Economia del Comitato Scientifico della Fondazione Magna Carta
Alcune proposte di riforma per la UE che verrà
Sovranità, centralizzazione e fattore scalare
di Emanuele Canegrati
Le elezioni europee del prossimo giugno saranno le più importanti nella storia dell’Europa moderna. Il nuovo contesto geopolitico venutosi a creare dopo la pandemia con le due guerre attualmente in corso, quella tra Russia e Ucraina e quella in Medio Oriente, ha infatti definitivamente segnato l’addio con il Novecento e con il primo ventennio del nuovo Millennio. Il ritorno di una guerra alle porte di casa, lo scoppio di una pandemia con tutti i suoi drammatici effetti sulla popolazione, e, a livello economico, il ritorno dell’inflazione a due cifre, sono tutti fenomeni che si pensava di non dover più affrontare. La storia si ripete, per citare Gianbattista Vico, ma lo fa nell’esatto momento in cui l’Occidente si era abituato a pensare che invece non lo potesse fare. Si ripete in contesti nuovi, in società ed economie drasticamente mutate nel giro di pochi anni soltanto.
L’Europa, in questo scenario, si scopre improvvisamente obsoleta e inadeguata per far fronte alle sfide della modernità, poiché frutto di una architettura nata nel Novecento. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando il processo di integrazione iniziò grazie al coraggio dei Padri Fondatori, l’essere riusciti a mettere assieme Stati completamente diversi, che avevano combattuto la Seconda guerra mondiale addirittura su fronti opposti sembrò un miracolo. E di fatto lo fu. Oggi, invece, l’idea di non essere ancora riusciti, dopo quasi un secolo, a completare il processo di unificazione e a rendere il Vecchio Continente una federazione di Stati appare una grande sconfitta.
Il mondo è infatti andato avanti. L’avanzata della Cina e dei paesi del Far East, il peso sempre crescente dei paesi arabi e della religione musulmana a scapito di quella cristiana, la crisi del modello occidentale e la riduzione del peso degli Stati Uniti nell’economia globale sono tutti indicatori dell’emergere di un Nuovo Mondo. Non che anche l’Europa non abbia compiuto dei miglioramenti significativi in questi anni: il trattato di Maastricht (1992), la creazione della UE, la nascita dell’euro e della Banca Centrale Europea (1998), il trattato di Lisbona (2007), fino ad arrivare ai più recenti Next Generation UE (2020) e al RePower (2022) e al nuovo Patto di Stabilità e Crescita attualmente in approvazione. Sembrano tutti fatti di portata epocale, eppure insufficienti, perché l’Europa si trova ancora alle prese con un atavico problema al suo interno, purtroppo irrisolto: trovare il giusto fine tuning tra le sue forze centripete, rappresentate dalle componenti politiche e sociali che spingono verso un modello decisionale il più possibile centralizzato, e quelle centrifughe, che spingono in direzione opposta, nel tentativo di dare più competenze, e quindi più potere, ai livelli di governo lontani da Bruxelles: governi centrali, Regioni, comunità, lander, Comuni. Tra le ultime, vi si annoverano quelle del sovranismo e dell’antieuropeismo, che esistono trasversalmente in tutti gli Stati membri, seppur con caratteri e pesi differenti da Paese a Paese.
Anche l’Italia non è esente da questo fenomeno, stretta com’è in una morsa tra i recenti afflati di autonomia differenziata, da una parte, e necessità di gestire dall’alto un programma estremamente complesso e innovativo come il PNRR. Perché la necessità di rispettare i tempi stretti e contingentati imposti da un fondo performance-based, come appunto è il PNRR, mal si concilia con quella di tollerare i tempi lunghi richiesti dai processi decisionali condivisi e, per loro natura, più democratici. Il discorso vale per il PNRR ma varrà sempre di più per la gestione di tutti i fondi europei, se davvero, come sembra dai desiderata degli alti funzionari europei, l’intenzione è quella di convergere verso il paradigma dei fondi basati sulla performance anziché sulla mera spesa, in attesa che anche la governance di questi fondi venga modificata. E questo non può essere fatto se non da una pianificazione ed esecuzione affidata a livello comunitario. Occorre, in sintesi, creare un PNRR europeo, con milestone e target che la UE, e non i singoli Stati membri, devono conseguire secondo un cronoprogramma prestabilito.
Efficienza versus partecipazione democratica. Questa è la dicotomia che sempre più caratterizzerà il mondo globalizzato e, sicuramente, il processo decisionale europeo che nascerà da una ormai non più procrastinabile riforma dei trattati, siglati anch’essi, non è mai troppo superfluo ricordarlo, nel secolo scorso. La nuova UE che nascerà dalle elezioni di giugno dovrà allora offrire ai suoi cittadini una soluzione a questo trade-off: se vuole rendere più efficiente, razionale e veloce il processo decisionale delle principali policy economiche e sociali sarà costretta a escludere in una certa misura dal processo decisionale i livelli di governo situati più a valle. Il processo di integrazione europea ha, per definizione, degli effetti collaterali impliciti. Se si vuole procedere con il processo di integrazione europea, qualche livello di governo dovrà pur essere sacrificato. Ma quale?
Risolvere il problema della lentezza del processo decisionale, ricorrendo al superamento del criterio dell’unanimità o ricorrendo maggiormente all’istituto delle “cooperazioni rafforzate” già previste nei trattati non è comunque sufficiente. La UE è infatti alle prese con un vero e proprio problema di “scala” dimensionale della sua economia e delle sue imprese, che in questo momento è del tutto insufficiente per poter competere alla pari con le economie di Cina e Stati Uniti. Mancano tante cose, troppe. Mancano un bilancio europeo di dimensioni adeguate (il bilancio pluriennale 2021-2027 prevede stanziamenti di impegno per un totale di 1.824,3 miliardi di euro soltanto), un debito comune, strumenti finanziari comuni, un sistema di riscossione delle tasse comune e una politica industriale pensata per imprese di scala europea.
I mercati, a partire da quelli dei servizi (telecomunicazioni, energia, sicurezza, etc.) sono ancora troppo frammentati e di dimensione nazionale. L’Unione dei capitali e la Borsa europea non sono ancora compiuti. La legislazione in materia di diritto societario andrebbe armonizzata, a partire dall’omogeneizzazione delle forme societarie delle imprese europee, dalla creazione di un vero sistema camerale unico: le società dovrebbero essere personalità giuridiche di diritto europeo, prima che nazionali. Manca un sistema di acquisti (e-procurement) congiunto, una riforma degli appalti comunitari che spinga i singoli Stati membri a creare grandi stazioni appaltanti di scala europea, con centrali di committenza anch’essi di scala europea. L’Italia, su queste riforme, avrebbe delle ottime carte da giocare per rendersi leader del processo di rinnovamento, forte dell’esperienza maturata negli ultimi anni grazie a realtà come Unioncamere, Consip o Invitalia. Per non dimenticare un altro modello che andrebbe replicato su scala europea, come quella delle Casse di depositi e prestiti.
Manca una difesa comune e un esercito comune, nonostante i pericoli di una guerra che ormai bussa alle porte di casa. Il fatto di avere non un singolo esercito ma 27 eserciti distinti produce una moltiplicazione esagerata della spesa complessiva per la difesa, una ridondanza di funzioni e una complessità di coordinamento non più gestibile. Guardando i dati, secondo il Defence Data report 2022 redatto dalla European Defence Agency (EDA), gli Stati membri hanno speso per la difesa una cifra record pari a 240 miliardi di euro, in aumento per l’ottavo anno consecutivo. Ma la spesa avviene a livello nazionale e l’attenzione degli Stati membri verso iniziative di spesa congiunta è piuttosto bassa, come lamenta la stessa EDA, quando riporta addirittura l’incapacità da parte dei Paesi UE nel fornire dati su questo tema. Tra questi 240 miliardi di euro si annidano delle forti ridondanze di spesa che va dai consumi per l’esercito alle spese di ricerca e sviluppo dovute alla mancata centralizzazione delle funzioni. Se si creasse una difesa comune europea, una buona parte di queste ridondanze sarebbe automaticamente eliminata, liberando risorse (a parità di spesa) per investimenti e acquisti.
Quanto detto in tema di difesa vale anche per altre funzioni fondamentali: la UE ha 27 sistemi sanitari diversi, 27 sistemi di istruzione diversi, 27 sistemi tributari diversi con 27 agenzie delle entrate diverse, 27 sistemi di riscossione diversi, e così via.
La mancata centralizzazione delle funzioni che dovrebbero essere attribuite logicamente al livello comunitario, ma che invece sono rimaste in capo ai singoli Stati, produce una inefficienza decisionale e organizzativa inaccettabile. Non è soltanto un problema che riguarda il processo decisionale della politics (quello politico in senso stretto, che nella UE compete al Consiglio Europeo), ma di policy nella sua fase propositiva e, scendendo ancora di livello, amministrativa in senso stretto. La UE ha ancora 27 pubbliche amministrazioni distinte, che viaggiano su normative distinte, su sistemi informatici distinti e diritti amministrativi distinti. Di nuovo, una inefficienza che produce una duplicazione di dipendenti pubblici, consumi interni e investimenti (soprattutto nel processo di digitalizzazione dei servizi pubblici) inaccettabili.
Questa inefficienza è tradotta in quello che nella teoria economica viene definito il principio della “sub-ottimalità” delle funzioni di costo, per effetto del quale quando la somma dei costi sostenuti per la produzione di un bene e servizio da n produttori è superiore al costo sostenuto per la produzione effettuata da un unico soggetto, è bene che quel bene e quel servizio sia prodotto da quell’unico soggetto.
Tanto per fare un esempio, si pensi all’inefficienza di avere 27 sistemi tributari diversi, con la riscossione dei tributi affidata a 27 autorità distinte anziché ad una sola, di livello comunitario. Si pensi alla moltiplicazione dei funzionari, delle sedi, degli uffici, della burocrazia, dei sistemi informatici. Una moltiplicazione che comporta costi elevatissimi. Di convesso, si pensi cosa potrebbe significare, in termini organizzativi e finanziari, l’avere una sola entità di livello europeo che svolga questa attività e al risparmio che nascerebbe per i contribuenti dell’Unione. In sintesi, occorrerebbe avere un unico sistema fiscale. La stessa cosa vale per gli appalti pubblici. Nonostante la materia sia regolamentata da norme di diritto comunitario, la stragrande maggioranza degli appalti pubblici nella UE avviene ancora su scala nazionale. Mancano delle vere e proprie centrali di committenza comunitarie per finanziare progetti (spesso infrastrutturali) di livello europeo. E qui si potrebbe aprire l’importante questione dello scarso peso dei progetti di scala europea, riflesso del peso quasi irrilevante del budget comunitario necessario per finanziarli.
Quello che vale per le funzioni pubbliche vale anche per il business privato. L’Unione Europea ha attualmente i principali mercati legati ai servizi (telecomunicazioni, energia, bancari e finanziari), di dimensione nazionale, nei quali operano un numero non ottimale di imprese. Ce ne sono troppe, la maggior parte delle quali non avrebbero senso in presenza di un unico mercato, peraltro regolamentato in maniera incompleta. Anche in questo caso, una struttura di mercato non ottimale provoca inefficienze e una proliferazione di costi (di convesso, una riduzione di profitti) che non dovrebbe essere accettata. La segmentazione dei mercati deve quindi essere eliminata, seppur con la consapevolezza che questo comporterà una drastica riduzione del numero di player, spesso di grandi dimensioni, con la relativa riduzione dell’occupazione e della possibilità dei singoli governi di utilizzare queste imprese per finalità nazionali.
Fin qui la teoria. L’ottimo. Quello che occorrerebbe fare per rendere l’Unione una realtà che abbia un senso logico a livello istituzionale, economico e finanziario. Poi c’è la politica, i politici e i cittadini che devono decidere se volere davvero questo modello. Perché, per poterlo raggiungere, gli Stati devono decidersi a fare la scelta delle scelte: cedere una grossa fetta della loro sovranità (il famoso “momento hamiltoniano” dell’Europa). Devono affidare a Bruxelles un vero potere decisionale e funzioni, a partire da quello della raccolta delle tasse, non secondarie. In un sistema federale, il gettito fiscale viene infatti raccolto dal livello più alto di governo e poi trasferito ai livelli inferiori, secondo regole di perequazione predefinite e stabili nel tempo. Nella UE avviene l’esatto contrario. Sono i singoli Stati a collezionare il gettito erariale (ad esempio quello dell’IVA) per poi girarlo al bilancio comunitario. Una evidente stortura che non può funzionare.
Le entrate del bilancio comunitario sono poi del tutto insufficienti, come si diceva, per finanziare funzioni, progetti e investimenti di scala europea. E non sarà certo l’introduzione di una nuova risorsa propria come la plastic tax a risolvere il problema. La UE deve aumentare le risorse proprie. Se lo vuol fare senza introdurre nuove tasse, deve partire dall’aumento del gettito erariale, in particolare quello proveniente dalla tassazione indiretta, in primis dell’IVA, incrementando l’aliquota uniforme attualmente applicata alle basi IVA di ciascun paese, pari allo 0,30 per cento. La tassazione diretta può essere invece lasciata ai singoli Stati (nei sistemi federali compiuti la concorrenza fiscale sulla tassazione del reddito personale e delle imprese è infatti quasi sempre vista come una caratteristica virtuosa) ma quella indiretta deve essere comune e servire per finanziare le funzioni di livello più alto.
In conclusione, l’Unione Europea rimane una grande incompiuta e una imbarazzante anomalia. Unica realtà ad avere una valuta unica non sorretta da un unico bilancio e da un debito comune. Gli Stati Uniti nacquero esattamente nel momento in cui gli Stati misero in comune le loro risorse finanziarie, rimettendole al livello federale. Toccherà alla futura classe politica nascente dalle elezioni di giugno decidere se persistere nel rimanere una grande anomalia storica o trasformare il Vecchio Continente, per usare una espressione cara a Luigi Einaudi, negli Stati Uniti d’Europa.
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