La provocazione da cui parte il nuovo libro del professore ed ex ministro è che gli storici abbiano perso il senso della storia. Ecco allora questa sua traiettoria d’Italia attraverso i romanzieri: da Tomasi di Lampedusa a Pennacchi passando da Lussu, Morante, Fenoglio e Sciascia (tra gli altri).
Che cosa hanno in comune il principe siciliano Fabrizio di Salina, alle prese con la decadenza dell’aristocrazia incalzata dal ceto borghese, e i fratelli Accio e Manrico, cittadini di Latina ex Littoria attraversati dalle contrastanti pulsioni politiche sessantottine? Presto detto: sono i personaggi che aprono e chiudono il saggio Storia d’Italia in dodici romanzi. Il racconto del Paese dall’Unità al terrorismo di Gaetano Quagliariello (Rubbettino).
Oltre un secolo di storia – dal 1860 al 1980 – interpretata dalla penna di una dozzina di romanzieri. Da Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il suo Gattopardo, manifesto del conservatorismo – tutto deve cambiare affinché niente cambi – di fronte alle trasformazioni del mondo, fino al Fasciocomunista di Antonio Pennacchi.
Presentato giovedì scorso alla libreria indipendente Eli di Roma da Giovanni Orsina, direttore del dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, e Vittorio Macioce, editorialista del Giornale, il libro parte da una tesi: gli storici contemporanei – a differenza di quelli pre-repubblicani come Benedetto Croce o Gaetano Salvemini – hanno perso il senso complessivo della storia, la capacità di tenere insieme tutti i fili in un racconto di ampio respiro, ed è dunque meglio affidare quel compito ai narratori.
Quagliariello – a sua volta professore di Storia Contemporanea, oltre che ex ministro delle Riforme e senatore – con i colleghi non è tenero: ultraspecialisti, affetti da iper-citazionismo, spesso dediti a guardare il dito anziché la luna. Cita il suo maestro Paolo Ungari: “Meglio scrivere un libro senza note che delle note senza libro”. Poi spiega: “Questi dodici non sono i miei libri preferiti, non tutti sono capolavori, ma illuminano tasselli del nostro passato”.
Il filo conduttore, lungo centovent’anni, è la politica. Il “potere che mangia l’anima” secondo il caveat di Macioce; l’attività che unisce il singolo alla collettività per Orsina, che denuncia il “perfettismo” della società contemporanea incapace di accettare le limitazioni umane. La politica dove è inevitabile sporcarsi le mani: come in una cucina, in cui da buoni ingredienti escono ottime pietanze – scrive Federico De Roberto ne L’imperio, analisi (anche) del trasformismo – ma ci si ritrova tra gusci d’uovo e lische di pesce.
I tormenti del militante comunista Ugo, ne Gli anni del giudizio di Giovanni Arpino, che preferirebbe la moto ma acquista l’enciclopedia perché l’impegno è più serio dello svago, salvo rimanere deluso quando i compagni disertano il comizio per andare, serafici, al cinema. Fino ad Accio, protagonista del libro di Pennacchi, che per conquistare una ragazza si barcamena: “Sono fascista, ma sto dalla parte del Vietnam in guerra…”.
In mezzo ci sono gli snodi principali dell’Italia dal Risorgimento agli Anni di Piombo: il passaggio dall’anarchismo al marxismo (Il diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli), le trincee della Grande Guerra (Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu), il fascismo di provincia con i conflitti tra autorità statale e segretari di partito (Almeno il cappello di Andrea Vitali e La spartizione di Piero Chiara), la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra tra boom economico e depressione morale (La Storia di Elsa Morante), la Resistenza (Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio), la fine della spinta nordista e le premesse della questione meridionale (L’orologio di Carlo Levi), fino ai rapporti tra religione e potere nella crisi della Dc (Todo Modo di Leonardo Sciascia).
La storia non si ripete mai uguale a se stessa, ammonisce una massima, ma certi meccanismi risuonano: almeno a leggere sui giornali di questi giorni l’ansia dei cattolici moderati di trovare un luogo politico che li rappresenti.