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La Grande guerra della Cultura. Dalle trincee il totalistarismo strisciò verso la politica

16 marzo 2025

La Grande guerra della Cultura. Dalle trincee il totalistarismo strisciò verso la politica – Il Giornale, 16 marzo 2025

di Roberto Santoro

Dalle trincee il totalitarismo strisciò verso la politica

Da un convegno di “Magna Carta” lo stimolo a ripensare il terremoto intellettuale che portò verso una pace fragile

La Prima Guerra mondiale non si è mai veramente conclusa, non solo per le cicatrici che ha lasciato, ma anche perché, a più di un secolo di distanza, continua a stimolare studi e riflessioni. Da ultimo, lo ha dimostrato il convegno La Grande Guerra della cultura, organizzato dalla Fondazione Magna Carta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, in concomitanza con la mostra Il Tempo del Futurismo. Storici come Orsina, Quagliariello, Benadusi, Bruni, Colarizi, Capozzi, Cioli, Gervasoni e Tarquini hanno discusso gli antefatti e le conseguenze del conflitto: la crisi dell’ordine liberale eurocentrico, l’ascesa dei nazionalismi e dei collettivismi, lo sbandamento del socialismo riformista, l’estetizzazione della violenza.

Cinque volumi tracciano un percorso di lettura essenziale. L’era delle tirannie (1938) di Halévy sottolinea la necessità di nuove categorie per analizzare i tempi: la nozione di dittatura non è più sufficiente, e quella di tirannia si configura come l’anticamera che avrebbe poi portato alla definizione di totalitarismo. In Stato, nazione ed economia (1919) di von Mises la guerra è il colpo di grazia a un mercato strangolato dallo statalismo. La Grande Trasformazione (1944) di Polanyi interpreta il conflitto come la prova del fallimento del laissez-faire e dell’ascesa dello Stato interventista. Infine, assai più prossimi a noi, due tra le prime ricostruzioni complessive del Novecento: Il secolo breve (1994) di Hobsbawm e Il passato di un’illusione (1995) di Furet. Seppure da punti prospettici opposti, vedono entrambi la guerra come il detonatore di un’epoca segnata da crisi, rivoluzioni, scontri ideologici.

Passando all’Italia, un punto d’attacco alla problematica, proposto anche nel convegno, è il contrasto tra due generazioni di antigiolittiani e la loro lettura del dopoguerra. Da una parte, chi cerca di aggiustare i pezzi di un orologio rotto, dall’altra chi vorrebbe rivoluzionarne il meccanismo. Per la storia dell’antigiolittismo, è fondamentale partire dai classici di Roberto Vivarelli (si veda tra gli altri, Il fallimento del liberalismo del 1981). In questa cornice, si possono selezionare alcuni esempi particolarmente significativi. Tra i numerosi antigiolittiani della prima generazione, spicca Salvemini, autore di Il ministro della mala vita (1919), il pamphlet che attacca frontalmente il supposto trasformismo giolittiano. E poi Einaudi e Albertini per i quali non si può prescindere dal loro epistolario (Lettere 1908 – 1925). Per un approfondimento del confronto generazionale con i giovani forgiatisi negli anni della guerra, si può consultare il volume di Quagliariello su Gaetano Salvemini (2007).

La seconda generazione di antigiolittiani abbandona il bisturi per l’accetta. La politica diventa pedagogia del conflitto: la guerra un modello di rigenerazione nazionale. Lo scrive Giuseppe Lombardo Radice in La nazione educatrice (1913). Questo approccio si concretizza nell’azione di Camillo Bellieni, nel quale Giovanni Sabbatucci ha scorto «la testa più lucida» del combattentismo. Tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione, Bellieni trasforma l’eredità del conflitto in una lotta per i diritti dei reduci e per l’autonomismo, come documentato in Partito Sardo d’Azione e repubblica federale: scritti 1919-1925. Gramsci e Gobetti sono stati oggetto di studio da diverse angolazioni. Il loro rapporto è ben compendiato da un giudizio di Gobetti su Gramsci, che si rintraccia su La Rivoluzione Liberale del 22 aprile 1924: «Se Gramsci parlerà a Montecitorio, vedremo probabilmente i deputati fascisti raccolti e silenziosi a udire la sua voce sottile ed esile e, nello sforzo di ascoltare, parrà loro di provare un’emozione nuova di pensiero». Questa frase racchiude il complesso intreccio tra culture rivoluzionarie. A livello di politiche statuali, le inconfessabili assonanze sono state approfondite da Maria Teresa Giusti in Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista (2023). L’anno successivo, il redde rationem. I manifesti di Croce e Gentile segnano la fine di ogni ambiguità. Per Gentile, il fascismo è l’erede del Risorgimento. Per Croce, il suo tradimento. Molti antigiolittiani della prima generazione si schierano con Croce e, in tal modo, rivalutano almeno implicitamente il giolittismo. Nell’elenco, invece, scarseggiano i nomi di antigiolittiani di seconda generazione.

Alessandra Tarquini, che ha introdotto con Giovanni Scirocco il Manifesto degli intellettuali fascisti e antifascisti (2023), ha spiegato come Croce e Gentile rappresentino due interpretazioni inconciliabili del Risorgimento e della storia d’Italia. D’altra parte, con la Grande Guerra finisce l’illusione di un progresso lineare della nostra storia, che avesse preso le mosse dal Risorgimento.

Quella “musica” dissonante che risuona anche oggi – Il Giornale, 16 marzo 2025

di Gaetano Quagliariello

Quella “musica” dissonante risuona anche oggi

Ogni qualvolta la storia accelera e mette il mondo di fronte a dei “redde rationem” bisogna riscrivere le mappe verso la libertà

Un’immagine, forse più di ogni altra, emblematizza gli effetti della Grande Guerra sulla cultura. Ce la offre Stephan Zweig, cantore della Vienna che durante la belle époque segna l’apogeo di un processo di civilizzazione per molti versi mai più eguagliato. È quella di un’orchestrina dalla quale, nell’estate del 1914, proviene una melodia soffusa e rassicurante. Alla notizia della mobilitazione generale, all’indomani dell’uccisione dell’arciduca d’Austria, l’orchestrina cessa, però, di suonare. Quella musica finisce all’improvviso e per sempre. L’umanità cade nel buco nero più profondo che la storia abbia mai prodotto. Il mondo di ieri scompare. L’universo della guerra si afferma, progressivamente, come la nuova normalità. E c’è chi inizia a pensare, allora, che la pace non tornerà mai più. Quest’opinione non è del tutto smentita dai fatti. Quando la guerra cessa, infatti, l’umanità non è più la stessa. Molto di quei terribili 4 anni di mobilitazione totale si trasferisce durevolmente alla pace. Sconvolge la concezione della vita e della morte. Modifica le leggi dell’economia. Sconquassa il conflitto politico. Penetra i processi culturali.

Censire le nuove fratture non è semplice e, soprattutto, non è lineare. Per provare a dipanare i fili, però, prima di ogni cosa, ne va considerata una sovraordinata alle altre: quella che vede contrapporsi i vecchi a i nuovi. Quanti, cioè, sono accusati di vivere con lo sguardo rivolto all’indietro e quanti pensano di essere dalla parte di chi ha compreso. Lo scontro porta con sé il rigetto di molte cose ritenute inutili sopravvivenze di un tempo passato. In economia, la possibilità di limitare lo Stato entro limiti compatibili col mercato. In politica, la democrazia, il Parlamento e il ripudio della violenza. Nella cultura, l’idea che questa possa far progredire, con moderazione, quanto conquistato con la nascita della nazione. Tra quelli che, seppure di diverso segno, spingono per il rigetto totale si registrano contatti, quando non addirittura alleanze. Innanzitutto, contro un nemico comune, bollato come restauratore del vecchio ordine. Sono connessioni che investono la politica non meno della cultura. Si creano così onde che rimandano continuamente dall’una all’altra dimensione, determinando un processo di reciproca contaminazione. Arriverà, poi, il momento della ricomposizione dei campi. E i manifesti contrapposti di Gentile e Croce, vergati giusto un secolo fa, ne sono un frutto maturo. Giungerà anche il tempo di una nuova guerra, innanzitutto civile e di dimensione continentale.

Le ricomposizioni dei campi contrapposti restano, però, imperfette. Lo spazio per intese inconfessabili non viene mai del tutto meno. E anche di queste ambiguità si sarebbe nutrita, nel tempo che divide le due guerre mondiali, l’era delle tirannie. Chi vuole ricercarne un esempio, da ultimo, può compulsare il libro che ha vinto l’ultimo Premio Aqui. È una ricerca di Maria Teresa Giusti, una tra le nostre migliori conoscitrici di storia russa, non a caso intitolato Relazioni pericolose. Vi sono ricostruiti i rapporti intercorsi tra l’Italia fascista e la Russia comunista, in particolare in ambito economico e politico. E l’argomento potrebbe essere facilmente ampliato, comprendendo la cultura e coinvolgendo le avanguardie che, all’ombra dei nuovi corsi, si sviluppano nei due Paesi. Se poi si vuol veder venire alla luce quel fiume carsico che non ha mai smesso di scorrere, ci si deve spostare verso il 1939 e l’annuncio di una nuova guerra. Basterebbe rintracciare in emeroteca una collezione della Verità (titolo che traduce dal russo Pravda): la rivista degli ex comunisti che, con Bombacci, aderiscono al fascismo. Si consultino, in particolare, i numeri del 1939 subito successivi alla firma del patto Molotov-Ribbentrop. Sono un autentico peana all’accordo. In quel documento, infatti, si ritiene di aver trovato la prova provata che la rivoluzione proletaria in Italia sarebbe stata fatta da Mussolini.

Ogni qualvolta la storia accelera, e mette il mondo di fronte a dei redde rationem, cadono, dunque, le sovrastrutture e le contrapposizioni abituali lasciando il campo sgombro per le sensibilità di fondo e le pulsioni più autentiche.

Ne riceviamo una conferma anche oggi di fronte a un mondo che sta cambiando tumultuosamente sotto i nostri occhi. La fine delle certezze consolidate e dei riferimenti tradizionali produce, infatti, una volta di più la babele dei linguaggi.