Confesso la mia grande ignoranza della cultura filosofica politica russa, dello slavismo e del dibattito ideologico nella Russia di Putin. Ma nell’intervista al Financial Times non ho trovato temi neo slavofoli o euro asiatici (la favola di un Dughin teorico di Putin è una grande fola): al contrario ho sentito sapore di ….Stati Uniti. E del dibattito che in questi mesi arde tra universitari, giornalisti, saggisti e figure varie sul destino del conservatorismo, e delle necessità di staccare il lib dal con.
Quando Putin mette in discussione in buona sostanza il carattere individualistico, nichilistico e relativistico del liberalismo mi è sembrato di leggere le pagine di Patrick Deneen, con il suo volume The failure of liberalism, che ha dato il via al dibattito, oppure quelle sulla grande illusione liberale del grande teorico delle relazioni internazionali realista John Mearsheimer (The Great Delusion) oppure il più recente volume di Mark Mitchell The limits of liberalism. Mi è sembrato di scorrere tante pagine di alcune riviste del mondo conservatore statunitense, da First Things a American Affairs dalla Clermont Review of Books a American Mind. Tutte iniziative che cercano di dare una sostanza e un rigore al neo jacksonismo, per ora forzatamente pragmatico, di Trump.
In un pezzo sulla National Review del 1 giugno Matthew Continetti divide l’orizzonte di questa «nuova destra americana» in quattro gruppi: i jacksoniani, i Reformcons, di cui il più noto è Yuli Levin, autore di un libro su Edmund Burke, i Paleo Conservatori, il cui esponente più rilevante è un giornalista televisivo Fox, Tucker Carlson e i post liberali: Deneen, l’israeliano Yoram Hazony, autore di The virtue of nationalism (di prossima uscita in traduzione italiana), Rod Dreher e il suo L’opzione Benedetto.
Non solo i post liberali ma tutti, in forme più o meno diverse, sembrano ritenere che si, il «liberalismo è obsoleto» , per citare Putin, e che la sue radici più vere e più sane possano essere tutelate solo da un nuovo conservatorismo, che guardi con rinnovato interesse a Edmund Burke, cioè a un periodo in cui il termine liberalism non aveva ancora acquisto i significati che prese dal XIX secolo.
Come Putin, in un certo senso, questi autori si pongono un’altra questione fondamentale: può esistere una comunità libera senza una religione che leghi i membri della comunità? Un domanda di cui il liberalismo a partire da un certo punto ha eluso la risposta, collocando la religione in una sfera privata, e che invece va totalmente ripensata: e qui vale ancora il Burke per cui l’uomo è «animale religioso» e ovviamente un Tocqueville depurato delle interpretazioni liberal che, soprattutto negli Usa, ne hanno corrotto il senso.
Putin nell’intervista ha dedicato alla crisi del liberalismo poche righe, e nel resto parla d’altro. Ma quelle parole non le ha pronunciate a caso. Cosi come è difficile che gli sherpa del presidente russo non abbiano concordato con la redazione del Financial Times il rilievo da dare all’intervista, presentandola quasi come manifesto post liberale (che poi alla fine non è). Qualcuno tra i suoi consiglieri di Putin è probabile che segua da vicino il dibattito americano sul fallimento del liberalismo e sul suo superamento. Che il grande deal Trump-Putin, che il primo cercherà di realizzare se rieletto, si svolga all’insegna di un nuovo, comune, anche se ovviamente diverso, conservatorismo post liberale? Ve ne sono molte avvisaglie.