di Margherita Movarelli
Esiste un luogo, anzi, più d’uno dove nascono e crescono le idee, grazie a delle persone che danno loro vita e se ne prendono poi cura. Si tratta di quelli che nel gergo anglosassone sono conosciuti come think tank, tradotto “fabbriche delle idee”, che in America e anche altrove producono contenuti e soluzioni da mettere a disposizione della collettività. In campo politico, questi centri nascono con l’obiettivo di fornire alla classe dirigente di un paese proposte spendibili e opzioni su cui costruire validi progetti politici. Esattamente ciò di cui avrebbe bisogno anche l’Italia.
Eppure, la politica nel nostro paese ha spesso sottovalutato il potenziale di questi pensatoi, riducendoli il più delle volte a dei centri di potere a sostegno di una corrente e cercando di influenzarli più che di farsi influenzare da essi. Lo dimostra un recente studio condotto su commissione della Vodafone dal Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale dell’Università La Sapienza di Roma: il 22, 4 per cento delle fondazioni politiche italiane non produce alcuna attività di ricerca e si limita a fare da megafono ad alcuni attori chiave del panorama politico, da cui dipende direttamente; solo il 19,4 per cento produce almeno dieci ricerche all’anno, che da noi sono considerate un numero alto. La maggior parte resta dunque in piedi facendo il minimo indispensabile. E il più delle volte, spiegano i ricercatori, i think tank in Italia anziché dettare l’agenda la inseguono. È per questo, probabilmente, che da noi la politica fa più fatica che altrove a rinnovare i propri contenuti. E quando anche ci riesce, lo fa con grave ritardo rispetto a quei paesi dove invece il flusso delle idee passa, attraverso un virtuoso meccanismo di vasi comunicanti, dai centri di produzione intellettuale ai centri di amministrazione pubblica.
In un articolo pubblicato su Forbes lo scorso 16 gennaio, Alejandro Chafuen, presidente dell’Atlas Economic Research Foundation di Washington D.C., si interroga sul ruolo dei think tank in questa convulsa fase dell’economia e della politica mondiale, riprendendo alcuni interessanti spunti contenuti nel libro Masters of the Universe: Hayek, Friedman and the Birth of Neo-Liberal Politics di Daniel Stedman Jones. In particolare, ne richiama la tesi secondo cui grazie ai think tank e ad un network transatlantico di giornalisti, intellettuali e uomini d’affari, le idee neo-liberiste del gruppo di economisti della Scuola austriaca, considerati per lo più un “club” di stravaganti, riuscirono a diffondersi e a plasmare negli anni Ottanta le politiche di Margaret Tatcher e Ronald Reagan consentendo a un nuovo paradigma politico-economico di imporsi. Secondo Chafuen, quel che servirebbe oggi è proprio una nuova generazione di intellettuali in grado come allora di fornire, tramite l’attività di ricerca condotta all’interno dei think tank, gli strumenti concettuali per la promozione di nuove soluzioni politiche. Perché è da questo circuito che passano – lo dimostra il passato – l’innovazione e il cambiamento.
Ma se negli Stati Uniti è relativamente semplice metterlo in moto, visto che già esiste e già produce in abbondanza idee e contenuti di cui la politica normalmente si avvale, l’Italia anche in questo caso sconta, come dicevamo, un gap e un ritardo accumulato che le rende ben più difficile attivarsi in questo senso. Il meccanismo dei vasi comunicanti che altrove favorisce un continuo flusso delle idee, da noi trova numerosi ingorghi sia a monte che a valle: a monte, laddove i think tank italiani non hanno molto spesso sufficienti mezzi economici per condurre un’attività di ricerca seria e continuata; a valle, laddove chi dovrebbe recepirne le proposte, vale a dire la politica, ha l’abitudine di farsi influenzare da ben altre logiche e ha la tendenza al controllo di tutto ciò che le gravita attorno. Al punto che, invece di attingere contenuti da questi centri di elaborazione, molto spesso li utilizza semplicemente come strumenti per procurarsi una legittimazione culturale.
Guardando in casa del centrodestra, la realtà non si discosta molto da quanto sinora abbiamo detto. Idee e proposte, faticosamente elaborate da quei pochi pensatoi realmente attivi nel mare delle fondazioni politico-culturali proliferate negli ultimi dieci anni, hanno costituito un grande patrimonio che purtroppo la politica ha raramente messo a frutto e concretizzato. Ciò è avvenuto per tutta una serie di motivi, strutturali e contingenti. In primis per la forte componente carismatica che ha avuto la tendenza ad accentrare su di sé la fase di elaborazione delle proposte. E, d’altra parte, a causa di un sistema politico-istituzionale macchinoso che non agevola, laddove addirittura non ostacola, il cambiamento. Il risultato è che la destra liberal-conservatrice auspicata a partire dal ’94 resta, ad oggi, un progetto incompiuto.
Accertato dunque il ruolo strategico che i think tank hanno nella costruzione delle proposte politiche si tratta di chiedersi come fare per consentire che queste realtà abbiano anche da noi una propria indipendenza e riescano ad influenzare chi prende le decisioni e non viceversa. L’impressione è che se non si inverte il meccanismo la politica italiana continuerà a scontare gli effetti della sua fisiologica carenza di expertise e, di conseguenza, ad essere incapace di offrire risposte e alternative valide ai problemi della modernità.