La mia tesi è che stiamo assistendo ad un repentino passaggio dall”epoca della scoperta’ all”epoca dell’innovazione’, e che le scienze sociali teoriche e le istituzioni politiche, le quali si erano in qualche modo attrezzate per gestire ‘processi di scoperta’ siano ancora impreparate a gestire i ‘processi di innovazione’. Tant’è che l’atteggiamento più diffuso è ancora quello di considerare questi ultimi alla luce dell’esperienza maturata nel passato col risultato di non coglierne appieno le potenzialità e, tutto sommato, neanche i pericoli. Per secoli, ad esempio, si è considerato quello economico come un sapere di tipo prevalentemente applicativo e si è dato a dir poco scarsa attenzione e peso all’immane quantità di conoscenza sull’agire umano prodotta dalla scienza economica. Come pure al fatto che l’impresa potesse essere una produttrice di conoscenza capace di dare un contributo a quello che è forse il problema principale delle scienze sociali: come ridurre l’incertezza in una situazione di scarsità di tempo e in un mondo non ergodico.
Il tratto caratterizzante l’intera questione è che oggi si assiste pressoché impotenti al declino della credenza che lo strumento migliore per ridurre l’incertezza siano la politica ed il diritto, se necessario con il loro indispensabile corredo di strumenti coercitivi. A ciò va aggiunto che i veri o presunti successi conseguiti dal sistema istituzionale liberal-democratico nel gestire i conflitti sociali all’interno di una prospettiva di crescita economica, lo hanno trasformato in un idolo che non si vuole mettere in discussione. Neanche quando diventa ormai evidente come il sistema, che si fonda sull’identificazione di scelte politiche e scelte collettive, si dimostri incapace di gestire tempestivamente le conseguenze sociali di innovazioni che, in larga misura, non vengono più prodotte dalla politica. L’impossibilità della politica di esercitare un efficace e non penalizzante controllo sulla formazione e sulla diffusione dell’informazione, delle credenze, delle aspettative e, in prospettiva, della conoscenza, sta così minando le fondamenta su cui si ergevano la sua credibilità ed il suo prestigio. Di conseguenza, da strumento principe per produrre certezza ed ordine, la politica si sta trasformando in uno degli ormai tanti produttori di incertezza. E questo per via del fatto che le modalità con cui essa affronta l’innovazione (incoraggiandola o scoraggiandola a seconda di quanto si pensa possa contribuire al mantenimento di un sistema di potere o alla realizzazione degli obiettivi dell’ideologia sulla quale si regge) sono sostanzialmente inadeguate ed inevitabilmente lente. Sovente, ad esempio, la si valuta secondo criteri etici che affondano su una ‘logica di scoperta’, senza prestare troppa attenzione al fatto che se quelli si rivelassero (come capita ormai sempre più spesso) inadeguati, le conseguenze si riverserebbero anche sulla credibilità dei princìpi etici che hanno ispirato quella valutazione.
Un coerente, e tutto sommato saggio, atteggiamento conservatore della politica nei confronti dell’innovazione potrebbe essere quello di rallentarla sistematicamente per evitare, nel breve periodo, gli effetti negativi prodotti dalle asimmetrie nell’allocazione della conoscenza e delle opportunità prodotte dall’innovazione. Ciò che sarebbe possibile, e forse anche auspicabile, se la politica avesse mantenuto una qualche forma di prestigio e una funzione di controllo sulla produzione della conoscenza e dell’innovazione. Il fatto che ormai tale funzione non possa più essere svolta senza che le conseguenze siano ancora più gravi di quelle che si vorrebbe evitare, induce così a pensare che anche la struttura concettuale dell’”associazione politica” non possa restare estranea al processo di innovazione. Anche se è da dire che, proprio perché restituirebbe alla politica un nuovo tipo di sovranità, un simile approccio sembra molto diverso, se non opposto, e, a quanto comunemente avviene in un Occidente in cui sempre più spesso un ceto di giuristi ha conquistato il diritto di valutare e di regolare il cambiamento alla luce di una costituzione sacralizzata e di esprimere pareri vincolanti sulle proposte di una sua modificazione per via politico-legislativa.
Certamente anche tale trasformazione del rapporto tra politica e costituzione è un’innovazione di fondamentale importanza, ma proprio il fatto che essa abbia sostanzialmente spogliato governi e parlamenti di prerogative che derivavano dall’essere delle istituzioni elettive ne ha diminuito il prestigio e ha messo in luce sia come non tutte le innovazioni siano positive, sia anche come un cardine dei regimi liberal-democratici: l’identificazione di rappresentanza, sovranità e potere, sia diventato inadeguato a gestire una situazione nuova. E questa è resa ancora più problematica dal fatto che —scontate tutte le critiche che possono essere rivolte al sistema democratico– un processo decisionale sostanzialmente attuato da organismi non elettivi ed avente a disposizione strumenti coercitivi difficilmente potrebbe essere definito migliore di uno affidato ad organi elettivi.
Che la questione sia importante lo si percepisce immediatamente quando si consideri che essendo la vita umana un’ininterrotta serie di tentativi (riusciti e falliti) di esplorare e di conoscere l’ignoto, l’impresa consente di intraprendere tale esplorazione senza l’uso di strumenti coercitivi (di dubbia efficacia e comunque costosi e di limitata durata), senza che il costo dei suoi eventuali fallimenti ricada inevitabilmente sull’intera società. Come comunemente avviene quando l’esplorazione dell’ignoto, e dunque il processo di scoperta e di innovazione, è guidato apparentemente da quell’ambigua entità neutra che è lo ‘stato’, ma in realtà da uomini concreti: i politici ed i tecnocrati ad essi legati, i quali, disponendo di una conoscenza limitata e di aspettative soggettive che non coincidono con quello che dichiarano essere lo scopo della loro azione in vista del “bene comune”, possono anch’essi sbagliare.
Ma se nel caso dell’impresa il costo del fallimento ricade sull’imprenditore mentre i vantaggi della scoperta e dell’innovazione si distribuiscono, sia pure in maniera diseguale, sull’intera società, nel caso di una politica di innovazione promossa dalla politica i costi degli eventuali (e frequenti) fallimenti vengono pagati dalla società e quasi mai dai politici che l’hanno voluta.
In un sistema di mercato —o in una catallassi— l’impresa si configura così come il modo migliore —nonché più veloce (ciò che, per via della nota scarsità di tempo, ha una sua importanza)— per accelerare un processo di conoscenza (vale a dire di trasformazione di opinioni, credenze, informazioni e/o aspettative soggettive in conoscenza e regole) che in realtà intende non soltanto porre un rimedio ‘culturale’ agli effetti della diseguaglianza ‘naturale’ tra gli uomini, ma anche competere con la velocità con cui si produce innovazione. Per quanto sia indubbiamente vero che la gestione di molte imprese tenda ormai ad ottimizzare le posizioni dei managers e a logiche di breve periodo (che sono anche la conseguenza della estrema variabilità dei mercati, delle tendenze dei consumatori e della breve durata dei prodotti causata da un’innovazione continua), ciò di cui oggi si sente maggiormente bisogno è di strumenti che consentano tempestivamente di formulare una previsione sulla realizzabilità, e sul relativo costo, delle aspettative individuali e sociali. O, se lo si vuol dire con una terminologia filosofica, di passare dall’opinione alla conoscenza e di individuare così dei punti abbastanza stabili e duraturi alla luce dei quali guardare e valutare il cambiamento/innovazione al fine di poter esprimere su di esso una valutazione non contingentemente ispirata dalla realizzabilità nel breve periodo delle aspettative, ma dalla possibilità di mantenere un sistema aperto non soltanto al cambiamento, ma anche alla possibilità di criticarlo e di modificarlo radicalmente sulla base dell’esperienza.
Per quanto risalenti a quasi quarant’anni fa, ovvero ad un momento in cui l’impatto che l’innovazione avrebbe avuto su tutte le società del mondo andava affacciandosi con estrema timidezza nei soli paesi dell’Occidente (e neanche in tutti), le parole con le quali Friedrich A. von Hayek, descrive in Law, Legislation and Liberty, del 1973-79 (cfr. ed. Routledge, London-New York, 1982, II, pp. 107ss.; trad. it. Legge, Legislazione e Libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986, pp. 314ss.), un «ordine di mercato», suonano tuttora valide. Anche perché a chiare lettere, ed in contrasto con quanti pensavano che lo stato liberal-democratico potesse e dovesse essere lo strumento per realizzare tutte le aspettative individuali e sociali che derivavano da una sconsiderata estensione degli Human Rigths, egli riafferma la necessità di distinguere tra le aspettative. Il che significa possedere o elaborare strumenti credibili per poterlo fare. E così, nelle parole di Hayek, un “ordine di mercato” è un «sistema di coordinamento delle azioni individuali che assicura tuttavia un elevato grado di coincidenza delle aspettative e un uso efficace delle conoscenze e delle abilità dei diversi membri soltanto al prezzo di deludere costantemente alcune aspettative». Per designarlo senza le ambiguità implicite nel termine “economia” («un complesso di attività tramite il quale viene allocato un dato insieme di mezzi a certi fini concorrenti a seconda della loro importanza relativa, rispettando un piano unitario»), e derivanti dai tanti significati che nei secoli son stati ad essa assegnati (e che oggi, se soltanto si prende in considerazione l’idea di “un piano unitario”, appare in tutta la sua irrealtà), Hayek ritiene così che il termine più adeguato a descriverlo sia quello di “catallassi”: «un tipo speciale di ordine spontaneo prodotto dal mercato tramite individui che agiscono secondo le norme del diritto di proprietà, di responsabilità extracontrattuale e delle obbligazioni».
Il problema di Hayek è così il nostro attuale problema: rendersi conto che la velocità con cui in una catallassi i prezzi trasmettono informazione e la trasformano in conoscenza utile per formulare una valutazione delle nostre aspettative, non è una caratteristica peculiare del mondo degli scambi in condizione di scarsità che è valida soltanto in quel mondo, ma semplicemente una modalità di produzione di conoscenza che, a ragione della sua tempestività, può essere vantaggiosamente applicata a tutti gli ambiti dell’azione umana. La questione, giova ripeterlo, è immaginare ed individuare soluzioni che possano consentirci di affrontare una realtà in cui, mentre il processo di trasformazione di informazioni in conoscenza e quello di produzione politico-legislativa delle regole diventano sempre più lenti ed accidentati, l’innovazione travolge ogni certezza e modifica continuamente le aspettative individuali e sociali, le loro disposizioni gerarchiche e soprattutto quelle famose regole che, se osservate, potrebbero ridurre le conseguenze impreviste e produrre certezza.
Che l’impresa sia diventata il principale soggetto della scoperta e dell’innovazione è ormai un dato di fatto che diventa tanto più evidente quando ci si chiede quali delle grandi innovazioni che, magari come conseguenze non intenzionali, hanno cambiato la vita umana negli ultimi secoli siano figlie della politica e quali dell’imprenditoria privata. E per quanto sia vero che molte di quelle innovazioni affondano le loro radici su una ricerca di base che è stata finanziata dagli stati nazionali, il dato su cui riflettere è che la politica non è stata capace di fare quel che hanno fatto degli imprenditori: sfruttare quella conoscenza di base per trasformare il mondo. Nel bene o nel male, evitiamo, per ora, di chiedercelo. Ma la politica raramente, in questi ultimi decenni, è riuscita ad istituire una sinergia tra l’innovazione e i propri ideali ispiratori. Anzi non sembra azzardato dire che l’innovazione spesso li ha distrutti e che la prospettiva dalla quale la politica ha guardato alla innovazione prodotta dalla scienza e dalla tecnologia troppo spesso si è risolta in una visione strumentale finalizzata al controllo dei processi economici e sociali e quindi al mantenimento di un potere che da stimolo al cambiamento si è trasformato in un attività sostanzialmente parassitaria.
Per quanto non completamente assimilata, quella sommariamente descritta è la situazione di oggi. E si differenzia significativamente da quella di un passato durato secoli, il cui cardine era costituito dall’idea di scoperta: della natura, del cosmo, delle leggi che la regolano, del disegno della Provvidenza, delle leggi dello sviluppo storico, di quello sociale, di quello economico. Di tutto, insomma, le scienze: naturali, sociali, giuridiche, storiche, politiche, etc., dovevano ‘scoprire’ le leggi e poi, a scelta, imitarle, osservarle, accettarle, criticarle, modificarle, etc. Il corollario era che i comportamenti e le aspettative umane, sia individuali, sia sociali, dovevano conformarsi alle leggi così scoperte e che il più alto grado di conformazione avrebbe avuto l’esito di ridurre l’incertezza e di produrre un ‘ordinato ed armonico progresso’. O, da un altro punto di vista, avrebbe prodotto la prevedibilità dei fenomeni fisico-ambientali e dei comportamenti umani. Di modo che le regolarità così esperite avrebbero potuto essere adoperate anche come criteri di valutazione delle aspettative: da realizzare, incentivare, tollerare, quelle che essendo conformi alle leggi avrebbero prodotto prevedibilità; da vietare e disincentivare quelle che invece andando nella direzione della produzione (prevista o paventata) di conseguenze indesiderate o impreviste, avrebbero accresciuto il campo dell’incertezza.
Lasciando in disparte l’altro evidente corollario di tale atteggiamento, vale a dire l’inevitabilità dell’uso della coercizione per accelerare i comportamenti tendenti al fine della riduzione dell’incertezza, e per impedire quelli che prevedibilmente (ma chi possedesse tale conoscenza non era sempre chiaro) l’avrebbero rallentata o ostacolata, limitandoci ora ad osservare che la credenza in un mondo ergodico può essere utilizzata per giustificare (moralmente o politicamente) la coercizione. Ciò che è importante dire è che oggi il problema non è più tanto quello della scoperta, quanto quello dell’innovazione.
E nelle scienze sociali teoriche ciò significa che la possibilità di realizzazione delle aspettative individuali e sociali non è più connessa alla scoperta delle leggi del mondo fisico o sociale, ma all’innovazione che nasce da dei tentativi di esplorare l’ignoto: di inventarsi nuove soluzioni per vecchi problemi e porsi dei problemi inediti.
A deporre a favore dell’impresa come strumento per indagare l’ignoto è allora la circostanza che ad animare un qualsiasi imprenditore è tanto la realizzazione di un proprio sogno (meno quella di un proprio ideale etico-politico), quanto la consapevolezza che il futuro vantaggio è legato alla capacità dell’innovazione di soddisfare bisogni di soggetti diversi da chi l’ha prodotta. Dipende, in altre parole, dal gradimento sociale delle ricadute dell’innovazione.
Ciò che tuttavia non deve tradursi in un atteggiamento fideistico consistente nel credere che tutto ciò che l’impresa promuove sia buono per l’intera società. Semmai, ciò che mette in evidenza l’innovazione è che la coincidenza tra vantaggio individuale e benefici pubblici non è così scontata come aveva ipotizzato la visione del mondo che sorreggeva il laissez faire. Ogni innovazione, infatti, oltre a rendere obsolete soluzioni e dunque a penalizzare quanti le offrivano, modifica l’allocazione delle opportunità in un modo che, pur non essendo sempre positivo nel lungo periodo, favorisce il dinamismo e la mobilità sociale in una maniera più aperta di quanto avverrebbe se l’innovazione fosse prodotta dalla politica e dunque da una logica di scelte collettive fondata sul principio maggioritario.
Un altro aspetto negativo di un processo di innovazione continua è dato dal fatto che a tale mobilità si lega un costante mutamento delle aspettative individuali e sociali, e che tanto maggiore è il successo dell’innovazione nel soddisfare bisogni, tanto maggiore sarà il numero delle aspettative che si creeranno. E non è affatto detto né che tutte saranno soddisfatte, né che saranno necessariamente complementari né, tanto meno, che sono destinate a risolversi, sia pure in tempi lunghi, in maniera armonica. La valutazione delle aspettative diventa così estremamente più complessa, e non è scontato che un’innovazione continua possa produrre naturalmente ordine; ovvero un sistema di relazioni reciproche tramite le quale inferire previsioni sull’esito delle azioni.
A questo punto non si può evitare di chiedersi quale potrebbe essere il ruolo delle scienze sociali teoriche in un mondo in cui le regolarità prodotte dall’innovazione sono sempre più scarse. In un mondo in cui gli eventi tendono a svolgersi e a succedersi in maniera sempre più imprevedibile perché è imprevedibile il modo in cui le opportunità offerte dall’innovazione saranno colte e messe a frutto da individui che hanno aspettative diverse e lottano per realizzarne il maggior numero possibile e tendono sempre più a non riconoscere a nessuno la potestà di esprimere su di esse un qualsiasi tipo di valutazione. Se lo si volesse concepire in maniera analoga ad un ‘contesto di scoperta’, si potrebbe dire, con tutti i rischi del caso e sconfinando quindi nell’impervia ‘arte della divinizzazione’, che in un simile contesto le scienze sociali teoriche dovrebbero mirare a prevedere le future e possibili connessioni di eventi in un ambiente caratterizzato da una distribuzione asimmetrica di conoscenza e dunque di credenze e di aspettative. Il rischio, in realtà, è che il susseguirsi di innovazioni e delle loro conseguenze, metta a repentaglio quel principio dell’imputazione causale che, connettendo effetti a cause, consentiva la formazione di una conoscenza che si trasformava in esperienza e in modelli da imitare perché erano note le conseguenze positive e negative che tale imitazione avrebbe prodotto, e, in mancanza del quale, non ci si potrebbe districare da un mare di credenze, di opinioni, e di aspettative, riguardo alle quali sarebbe estremamente arduo formulare non soltanto previsioni ma anche valutazioni specifiche.
Per concludere in maniera problematica per necessità di cose e di situazioni, sarebbe quindi il caso di chiedersi se: 1)la straordinaria accelerazione dei processi di innovazione in tutti i campi dell’attività umana a cui si sta assistendo sia un fenomeno per certi versi inedito (vale a dire un processo che genera una situazione che non muta se ad essa si applicano soluzioni sperimentate); 2)che affidamento si possa fare sul tentativo della democrazia di produrre ‘ordine’ tramite l’educazione di massa; 3)se sia ancora possibile che in società contraddistinte da ‘vincoli formali’ fragili, non omogenei e da crescenti asimmetrie nella produzione e nella distribuzione della conoscenza, si formi un ordine definibile come il “miglior regime politico”; 4)quali siano le reali possibilità e capacità della politica di intervenire su tali processi; 5)se non sarà invece che la politica e il mercato stiano generando insiemi non complementari di aspettative e di credenze individuali e collettive irrealistiche e perciò irrealizzabili; 6)quali siano le conseguenze della mancata conformazione a certe regole di comportamento —che erano in definitiva riassumibili nella regola che per risparmiare tempo (sempre e comunque scarso ed incerto) si tende a ripetere le azioni che hanno avuto successo— e della sovrapposizione degli effetti di novità diverse sulla possibilità di apprendere dall’esperienza; 7) se sia ancora possibile considerare il sistema dei prezzi (catallassi) come lo strumento più veloce di trasmissione di informazioni, di conoscenze e quindi di esperienze, finalizzato a favorire il rapido adeguamento delle aspettative individuali ad una “conoscenza sociale diffusa”; 8)se, dato che non è detto che le dinamiche umane portino ‘naturalmente’ o ‘spontaneamente’ a situazioni ‘buone’, sia possibile ‘correggere’ gli esiti della casuale diffusione delle idee.
(Tratto da Fenomenologia della scoperta, a cura di Manlio Maldonato, Milano, Bruno Mondadori 2011, pp. 205-212).