Articolo di Antonio Polito pubblicato sul Corriere della Sera – 24 ottobre 2024
La storica dozzina (di romanzi)
Gaetano Quagliariello individua i 12 titoli di narrativa che meglio spiegano il Paese
di Antonio Polito
Si può raccontare la storia d’Italia dal 1860 al 1980, dall’Unità al terrorismo, attraverso dodici romanzi? Si può comprendere il sistema parlamentare dell’Italia liberale dai Viceré di Federico De Roberto, ole trincee della Grande guerra in Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu, oppure ancora l’estremismo post-Sessantotto nel Fasciocomunista di Antonio Pennacchi, meglio che in un trattato di storia? Gaetano Quagliariello sostiene di sì, in un agile e provocatorio libretto, Storia d’Italia in dodici romanzi (edito da un altrettanto agile e provocatorio editore, Rubbettino), che si candida ad essere un corso per i suoi studenti. E se uno storico di professione afferma che la letteratura può talvolta più della storia aprirci alla comprensione del passato, c’è da interrogarsi seriamente sul mestiere dello storico. Ci arriveremo. Ma prima guardiano ai romanzi.
I «magnifici dodici» prescelti sono: Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa per raccontare l’Unità; L’Imperio di Federico De Roberto per la riforma elettorale del1882 e il trasformismo; Il diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli per il passaggio dall’anarchismo all’egemonia marxista; Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per la guerra matrice del «secolo breve»; Almeno il cappello di Andrea Vitali e La spartizione di Piero Chiara per il «fascismo provinciale»; La Storia di Elsa Morante per la Seconda guerra mondiale e il dopoguerra; Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio per la Resistenza; L’orologio di Carlo Levi per il faticoso ritorno alla democrazia; Gli anni del giudizio di Giovanni Arpino per le cruciali elezioni politiche del 1953; Todo Modo di Leonardo Sciascia per la crisi del partito cattolico di fronte alla secolarizzazione; Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi per l’esplosione della protesta e la nascita del terrorismo.
Prendiamo L’Imperio, una delle dodici «voci» di questa storia collettiva: la saga degli Uzeda di Fracalanza, nobile famiglia siciliana che «scende» in politica nella nuova Italia liberale. L’ultimo rampollo, il principe Consalvo, giunge a Roma sulla scia delle elezioni del 1882, le prime con il suffragio allargato. Succede come parlamentare allo zio, che era stato il protagonista dei Viceré, primo romanzo del ciclo di De Roberto, spostandosi a sinistra. La riforma elettorale aveva cambiato le campagne elettorali professionalizzandole, «e le clientele, di conseguenza, erano divenute una componente essenziale del successo politico». Una svolta sociale e politica epocale, e non si potrebbe comprenderla meglio che attraverso la fulminante descrizione dell’incontro tra Consalvo e l’ex maggiordomo di casa Uzeda, nel frattempo diventato galoppino elettorale; in qualità di presidente di una società operaia di mutuo soccorso rientra nella casa dove un tempo serviva «con l’importanza di uno che portava un gruzzolo di voti» al principino. Nell’Imperio, vero e proprio romanzo parlamentare che svela dal di dentro il funzionamento delle istituzioni nel nuovo regime «democratico», De Roberto scrive pagine illuminanti sul fenomeno del «trasformismo». A un certo punto mette in bocca a uno dei suoi protagonisti questa domanda: «Ma perché il Parlamento è semicircolare?», mentre quello inglese è rettangolare. Dopo la riforma del1882 «dovrebbe essere rotondo, circolare, così un parlamentare si può muovere a seconda dei casi e scegliersi la posizione migliore».
La storia «romanzata» che lungo i dodici romanzi ci conduce lungo un secolo è di vivace e gustosissima lettura. Ma proprio perciò segnala un problema: «In Italia — scrive l’autore — si è progressivamente acuita la separazione tra la storia professionale e la scrittura della storia, fino a prospettare un vero e proprio divorzio. Salvo alcune eccezioni, anche notevoli, la capacità di narrare che possedevano gli storici del periodo pre-repubblicano — Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Angelo Tasca, Gioacchino Volpe — è stata dissipata». Per cui i romanzi finiscono per raccontarla meglio. Il «citazionismo» e l’ultraspecialismo hanno poi aggravato la distanza «tra la storia cosiddetta scientifica e la storia divulgata»: è la separazione tra i libri con le note degli storici, e i libri senza note degli scrittori. L’autore racconta che, quando portò in lettura il primo libro da lui scritto al suo professore Paolo Ungari, quello lo apprezzò con una postilla: «Per il prosieguo — gli disse — ricordati però che è sempre meglio scrivere un libro senza note, anziché delle note senza libro».
Non tutti hanno seguito il suo insegnamento. Le «note a piè pagina» sono anzi diventate — come racconta Dario Ferrari nel romanzo La ricreazione è finita — il luogo dove si tessono le trame della geopolitica accademica, si citano tutti quelli dotati di un minimo potere, si rende omaggio a chi di dovere, e si ometto noi nemici del prof o della sua cordata, «perché non citare è un’arte assai più sottile e delicata che citare».
Stiamo perciò perdendo il gusto di leggere una storia fatta di note? E non sarà questa una concausa della progressiva marginalizzazione della storia, con effetti di scadimento anche della politica, che ne è sempre più ignara? In fin dei conti — scriveva un romanziere, Mark Twain — «la storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa». Ignorare il passato non è certo un buon viatico per prendere decisioni ponderate oggi. Com’è sotto gli occhi di tutti.
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