Intervista pubblicata su Dissipatio.it – 1 dicembre 2024
«Credo ci si trovi nel bel mezzo di una svolta epocale, per motivi che esulano dalla politica.» Gaetano Quagliariello e l’eterno moto italiano
-Come nasce la sua “Storia d’Italia in dodici romanzi. Il racconto del Paese dall’unità al terrorismo” (1860-1980)?
Al fondo, c’è la mia propensione a leggere sempre più sovente romanzi invece che saggi. Poi, c’è stata anche un’occasione particolare. Alle scuole di formazione politica organizzate dalla Fondazione Magna Carta, che presiedo da tanti anni, è accaduto che al termine delle lezioni si formava un cenacolo di studenti col quale discutevo le problematiche storiche di uno specifico romanzo. Questo “gioco” si è ripetuto per quattro, cinque anni consecutivi. Mi è parso funzionasse. Per questo, ho ripreso gli appunti di quelle discussioni, ho riempito i “buchi” della cronologia commentando altri romanzi, ed è così venuto fuori questo libro un po’ eccentrico.
-Come questi testi letterari compongono un itinerario storico-culturale dell’Italia che va dall’Unità alla fine degli anni di piombo? E quali ne sono i principali protagonisti?
In realtà, il continuum della storia nazionale è sufficientemente coperto: risorgimento, trasformismo e anni di fine secolo, Prima guerra mondiale, fascismo, guerra, resistenza, immediato dopoguerra, secolarizzazione, sessantotto e terrorismo. I “buchi” principali riguardano il periodo giolittiano e il primo dopoguerra. Alcuni periodi, inoltre, si sarebbero potuti rafforzare con altri romanzi. Ho preferito fermarmi. Agli esordi, mi sarei voluto limitare a dieci capitoli. Poi, l’esigenza di completezza in senso “cronologico” mi ha preso la mano …
-E se avesse trattato la storia italiana che va dal 1980 a oggi, quali romanzi avrebbe scelto? Specie per la nostra attualità…
Non è detto che non ci provi; preferisco non guastare la sorpresa…
-Se avesse potuto inserire qualche altro testo per questo suo viaggio italiano romanzesco dal Risorgimento all’edonismo reaganiano quali opere avrebbe scelto?
Ci sarebbe solo l’imbarazzo. Mi limito a citarne tre: Uscita di sicurezza di Ignazio Silone per la realtà contadina caratteristica dell’Italia meridionale, per la sua mutazione antropologica e per i riverberi politici che tale dinamica produce; Ferito a Morte di Raffaele La Capria per il racconto della Napoli laurina e Petrolio di Pier Paolo Pasolini, nonostante sia un “incompiuto”. Non ho scelto i dodici libri per la loro importanza né tanto meno per il loro valore, bensì per la loro capacità di evidenziare problematiche e nodi storiografici. La mia è stata, insomma, una scelta “strumentale”. Tuttavia, mi è dispiaciuto escludere questi tre autori che mi sono cari.
-Quali sono i veri nodi della nostra storiografia e della pubblicistica storica?
Il vero nodo sta nella loro “separatezza”. È come se in Italia vi fosse una storia per gli addetti ai lavori e una storia minore per la grande distribuzione. Questa separatezza non giova alla storia: né alla sua qualità né al suo status pubblico. Bisogna provare a ridurre le distanze, facendo sì che la “buona storia” possa essere letta da tutti.
-Come “La Storia” della Morante è una sorta di antistoria del suo tempo?
Ne La Storia la narrazione del terribile periodo bellico procede con toni e ritmi in fondo sereni, dai quali emerge la solidarietà spontanea di una comunità che ha come primo obiettivo quotidiano quello di sopravvivere. Il racconto, invece, si incupisce in corrispondenza della fine della guerra, quando per nessuno dei protagonisti del romanzo c’è salvezza. Questa narrazione confligge e contraddice il paradigma della storia ufficiale, che vorrebbe la guerra come tempo di tragedia e il secondo dopoguerra coincidere con una ripresa di speranza, vitalità, crescita. La Morante, con questa scelta narrativa, mette l’accento su qualcosa di assolutamente attuale, che va riconosciuto come uno dei massimi problemi dei decenni a venire: le guerre anche quando si chiudono, lasciano un residuo; delle ferite che non si rimarginano e che riguardano la vita degli individui ma anche quelle dei popoli.
-Parlando dell’attualità, lei nel testo parla della fase cruciale della transizione della vecchia politica a quella nuova soprattutto nel capitolo su “L’imperio”, come cartina tornasole di una nuova fase di confronto politico. Come valuta la attuale fase di confronto politico e parlamentare, sia tramite filtri storico politologici che letterari?
L’Imperio racconta la vita parlamentare che s’inaugura dopo il 1882 e spiega il funzionamento del Parlamento nella fase storica che va sotto il nome di “trasformismo”, meglio di come farebbe un testo di storia delle istituzioni. Del resto, De Roberto era un “verista” e per scrivere quel romanzo, mai in realtà portato a termine, frequentò non poco il Parlamento. Oggi la stessa frequentazione non produrrebbe nemmeno un articolo di giornale e non sarebbe neppure in grado di alimentare la vena dell’antiparlamentarismo. Perché, purtroppo, il Parlamento è divenuto ininfluente.
-Come valuta le ultime e recenti trasformazioni politiche e culturali (dalla crisi della globalizzazione al ritorno di Trump) per l’Italia e l’Occidente. Siamo di fronte ad una metamorfosi arpiniana da nuovi “anni del giudizio”?
Credo ci si trovi nel bel mezzo di una svolta epocale, per motivi che esulano dalla politica. La rivoluzione digitale, infatti, inciderà nelle nostre vite come l’invenzione dei caratteri mobili della stampa e l’energia. Le sue implicazioni sono assolutamente imprevedibili. Ovviamente, questo enorme cambiamento inciderà anche sulla sfera politica. E ce ne stiamo già accorgendo…
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