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La legge di Dio, della città e dello Stato

1.

Gerusalemme è, per Leo Strauss, la città santa. Essa è la sede e il simbolo dell’ebraismo; inoltre – accanto ad Atene – è una radice della cultura occidentale.[1] La profonda ammirazione straussiana per Gerusalemme è evidente in più occasioni, ma è resa esplicita soprattutto nel passo di apertura del saggio What is Political Philosophy? che costituisce la rielaborazione di una conferenza tenuta nell’anno accademico 1954/55 proprio alla Hebrew University of Jerusalem, ospite di Gershom Scholem:

È un grande onore e nello stesso tempo una sfida accettare un compito di particolare difficoltà, essere cioè invitato a parlare di filosofia politica a Gerusalemme. In questa città – «la città della giustizia, la città fedele» – e in questa terra, il tema della filosofia politica è stato preso molto più sul serio che in ogni altro luogo. In nessun altro luogo vi è desiderio di giustizia come in questa sacra terra, e in nessun altro luogo la città giusta ha riempito i cuori più puri e le anime più nobili di tale zelo. So fin troppo bene di essere del tutto incapace di offrirvi ciò che nel migliore dei casi, nel caso di qualsiasi uomo, sarebbe niente di più di una vaga riproduzione o di una debole imitazione della visione dei nostri profeti. Sarò anche costretto a condurvi in una regione dove il più oscuro ricordo di tale visione è sul punto di svanire interamente – dove il regno di Dio viene ironicamente chiamato regno immaginario – per non dire nulla qui della regione che non fu mai illuminata da essa. Ma, pur essendo costretto, o costringendo me stesso ad allontanarmi dal nostro sacro patrimonio, o a tacere intorno ad esso, io non dimenticherò per un solo istante ciò che Gerusalemme significa.[2]

Malgrado questa profonda ammirazione per la sfera spirituale rappresentata da Gerusalemme, sarebbe sbagliato catalogare strictu sensu il pensiero filosofico di Strauss con etichette quali “filosofia della religione” o “filosofia ebraica”, visto che è lo stesso Strauss a criticare questa prospettiva teorica, considerata autocontraddittoria (per esempio in merito alla posizione di Julius Guttmann).[3] È pertanto piuttosto sorprendente che molti interpreti contemporanei si sforzino di trovare nel pensiero straussiano un fondamento confessionale o religioso,[4] con tentativi – coltivati soprattutto negli Stati Uniti, talvolta in conseguenza del nesso, del tutto infondato, tra politica neocons e appartenenza ebraica[5] – di interpretare Strauss come “pensatore ebraico”. I testi straussiani che testimoniano la sua scelta a favore di Atene (una scelta coerente, coltivata dagli esordi giovanili negli anni Venti fino alla morte) sono numerosi, in particolare la Preface all’edizione americana del libro su Spinoza, i volumi Philosophie und Gesetz, The City and Man e The Argument and the Action of Plato’s «Laws», i carteggi con Löwith e Scholem.[6] Qui emerge con chiarezza che Strauss è un pensatore scettico, un filosofo ateo che orgogliosamente rivendica per sé il motto di Ibn Rushd in onore della filosofia come forma di vita: moriatur anima mea mortem philosophorum.[7] La scelta in favore di Atene non comporta però il rifiuto di Gerusalemme, tanto che in più occasioni è palese il suo profondo e sincero sentimento di affetto nutrito verso la tradizione ebraica, verso la comunità di origine, verso le sue radici.[8] Strauss è convinto della centralità di Gerusalemme per la civiltà occidentale e considera l’oblio della religione la causa della catastrofe dell’Occidente, così come una catastrofe è stata l’ideologizzazione della filosofia portata a termine in età moderna. Filosofia e religione sono costrette a convivere fianco a fianco – così come sono costrette a convivere filosofia e politica – perché né la ragione né la rivelazione riescono a esprimere la parola ultima sul bene e sul giusto, cioè sulla verità. Atene e Gerusalemme costituiscono, insieme, l’essenza dell’Occidente, il cui dinamismo è stato reso possibile proprio dalla tensione tra questi due poli, opposti ma complementari. Se Strauss ha scelto Atene, tuttavia non ha abbandonato Gerusalemme.

Ma se Strauss ha scelto la filosofia senza tuttavia negare la religione, anzi attribuendo a entrambe una centrale rilevanza nella storia dell’Occidente, quale interpretazione offre Strauss di Atene e di Gerusalemme? E quale rapporto instaura tra la filosofia e la religione? Sul piano del discorso filosofico, è noto l’appello straussiano alla filosofia classica e la sua critica al pensiero moderno, malato di soggettivismo cognitivo e di costruttivismo metodologico, le cui conseguenze sono evidenti nel nichilismo politico del Novecento: la crisi contemporanea è prodotta proprio dalla declinazione del razionalismo moderno – fondato sullo scetticismo radicale di Descartes e Hobbes – in termini esclusivamente formali. Nel mondo moderno Strauss verifica una svolta relativistica dalla filosofia alla storia e alla sociologia – soprattutto attraverso la definizione di norme e istituzioni di diretta efficacia e applicabilità pratica, con la riduzione della filosofia politica a tecnica da un lato (evidente nel positivismo giuridico di Hans Kelsen) e a ideologia dall’altro (evidente nel decisionismo di Carl Schmitt). Sul piano del discorso religioso, Strauss è lontano da una concezione della religione come teologia, così come da tutte le forme di relazione soggettiva con Dio: la questione della rivelazione – intesa come Legge che regola l’ordinamento socio-politico – appartiene al terreno della filosofia politica e rientra dunque sul terreno dell’ordine sociale e delle pratiche comunitarie. Una tale interpretazione – che di fatto non prevede la centralità della religione come fede, bensì come ordinamento politico – rende esplicito l’abbandono straussiano non solo dell’ortodossia ebraica, ma anche dei movimenti ebraici riformati (dal liberalismo religioso di Hermann Cohen al sionismo di Theodor Herzl e al Neue Denken di Franz Rosenzweig) che hanno inteso riformulare la questione della fede non sul piano della confessione pubblica, bensì sui piani della coscienza religiosa (cioè dell’interiorità) o dell’identità nazionale (nel senso moderno del termine). In Strauss l’ebraismo non è teologia naturale né cultura, bensì è religione rivelata che richiede fede e obbedienza e che rivendica per sé uno statuto indipendente e superiore rispetto al sapere umano. Ma il filosofo Strauss, in quanto filosofo che tende alla ricerca della verità, non può accedere a un piano di discorso che invece considera la verità come sapienza originaria, data e assoluta. Tuttavia, se è vero che, nell’alternativa tra Atene e Gerusalemme, Strauss sceglie la filosofia, l’idea di filosofia cui pensa Strauss non è quella ateistica e “scientifica” tipica della modernità, ma quella scettica e zetetica del mondo premoderno (di Platone e Maimonide in particolare). Si tratta di un modello di filosofia che, pur potendo smascherare la pretesa di verità della religione rivelata, tuttavia non è in grado di costruire un «sistema assoluto del sapere» ma solo di tendere alla sapienza: proprio perché la filosofia ricerca – ma non possiede – la verità, la filosofia non può dimostrare l’impossibilità della rivelazione. Strauss non si sottrae dunque al confronto con questa relazione problematica, con l’alternativa fondamentale tra Atene e Gerusalemme, tra sapienza greca e sapienza biblica:

Dobbiamo cercare di comprendere la diversità tra sapienza biblica e sapienza greca. Vediamo subito che ciascuna delle due pretende di essere la vera sapienza, negando così la pretesa dell’altra di essere la sapienza nel senso più rigoroso e alto. Secondo la Bibbia, il principio della sapienza è il timore del Signore; secondo i filosofi greci, il principio della sapienza è la meraviglia. Siamo dunque costretti a compiere sin dall’inizio una scelta, ad assumere una posizione. Da che parte ci collochiamo? Abbiamo di fronte a noi Gerusalemme e Atene, che rivendicano ognuna per sé la nostra fedeltà. Siamo aperti a entrambe e disposti ad ascoltare ciascuna di loro. Noi, dal canto nostro, non siamo sapienti, ma aspiriamo a diventarlo. Siamo cercatori di sapienza, philo-sophoi. Dicendo che desideriamo prima ascoltare e poi decidere, abbiamo già compiuto la nostra scelta a favore di Atene e contro Gerusalemme. Ciò sembra necessario per quanti fra noi non possono essere ortodossi.[9]

Non è possibile essere, allo stesso tempo, filosofo e teologo, perché non si dà alcuna possibilità di trascendere il conflitto tra Atene e Gerusalemme. Quindi non è possibile essere, allo stesso tempo, filosofo ed ebreo: l’unica cosa necessaria per il filosofo è la vita contemplativa, per l’ebreo è l’obbedienza alla Legge. Ovviamente una tale distinzione tipologica non esclude che si siano dati casi di filosofi nell’ebraismo (Maimonide ne è un esempio illustre) che hanno parlato di ragione nel mondo della rivelazione, consapevoli dell’impossibilità logica, ma non pratica, di una tale sintesi: «Il filosofo è l’uomo che dedica la propria vita alla ricerca della conoscenza del bene, dell’idea del bene; quel che potremmo chiamare virtù morale è solamente la condizione o il sottoprodotto di tale ricerca. Secondo i profeti, invece, non c’è bisogno di tale ricerca della conoscenza del bene»[10] perché ad essi è già stato rivelato ciò che è bene.

Proprio sulla base di questa relazione problematica tra Atene e Gerusalemme, Strauss costruisce una linea interpretativa sul moderno prendendo una posizione critica nei confronti del razionalismo illuministico e dello storicismo, cioè le due fonti della moderna “sofistica”. Ma Strauss è critico anche nei confronti dell’ebraismo ortodosso (i cui fondamenti, sul piano teoretico, sono stati minati dall’illuminismo che ha dimostrato che i principi di fede possono essere solo creduti, e non conosciuti) e dei movimenti ebraici (soprattutto la Wissenschaft des Judentums) che hanno cercato la strada per un “ritorno” all’ebraismo svalutando la portata effettiva delle verità di fede, trasformate da verità oggettive in verità soggettive (“interiorizzate”), tradendo così lo spirito originario dell’ebraismo inteso come Rivelazione. Alla luce di questa analisi critica ad ampio raggio, l’essenza di Atene e Gerusalemme deve essere ripensata. Il problema di Strauss è chiaro: quale razionalismo è possibile dopo l’autodistruzione del razionalismo moderno messo in evidenza da Nietzsche? Non il razionalismo di Descartes o di Hobbes, ma nemmeno il razionalismo di Mendelssohn o di Cohen (né, tanto meno, l’esistenzialismo di Rosenzweig e di Heidegger o il decisionismo di Carl Schmitt). Il merito del Nietzsche di Strauss è stato quello di aver fatto teoreticamente collassare l’illuminismo (sia quello radicale della linea Descartes-Hobbes-Voltaire, sia quello moderato di Mendelssohn) spingendo alle estreme conseguenze il criticismo kantiano e togliendo ogni dignità teoretica al romanticismo. Dopo Nietzsche – sul piano razionale, teoretico – non è più possibile il “ritorno” all’ortodossia, ma non è più possibile nemmeno la difesa dell’illuminismo. Il Nietzsche di Strauss può essere definito un “kantiano radicale” che smaschera ogni illusione sulla possibilità del progresso e dell’autonomia della cultura: il “kantismo” di Nietzsche ci costringe a vedere che noi non conosciamo la «cosa in sé», e quindi ci costringe a vedere che non possiamo regolare la nostra condotta “come se” la conoscessimo. Ma se Strauss accetta le conclusioni epistemologiche del nichilismo “kantiano” di Nietzsche, egli non può accettare il nichilismo sul piano teologico-politico. Se il nichilismo è l’esito necessario – sul piano epistemologico – del razionalismo moderno, altrettanto non può esserlo sul piano della vita socio-politica, pena la fine di ogni possibilità di consorzio umano: l’onestà intellettuale conduce a una nuova forma di decisionismo politico. La risposta al nichilismo “kantiano” di Nietzsche si trova invece in un altro modello di razionalismo, quello premoderno di Platone e Maimonide, inteso come tentativo di risposta alla crisi del moderno.

2.

In tutta la sua vicenda culturale, Strauss – avvertito dalla storia del Novecento dei pericoli connessi a ogni tentativo di saturazione dell’esperienza politica e di realizzazione di progetti filosofico-politici che conducono alla «fine della storia»[11] – è uno strenuo avversario di ogni movimento messianico: «Non sono mai stato un sostenitore del “messianismo” e non lo sarò mai».[12] Il messianismo può essere declinato su due diversi livelli – politico e religioso – ma non cambia la sua sostanza, legata a una concezione del compimento della storia che Strauss considera pericolosa, oltre che irrealistica. Delle questioni legate alla realizzabilità di uno stato di perfezione umana e sociale nel mondo, Strauss non si occupa solo analizzando il rapporto tra filosofia e politica attraverso i contributi della filosofia classica (in particolare di Platone), ma anche in diretta relazione con la questione del messianismo profetico, soffermandosi sul tema del «ritorno» attraverso i contributi di Scholem sulla Kabbalah.[13] Nell’interpretazione straussiana, «ritorno» (teshuvah) significa pentimento: pentirsi significa “ritornare a casa”. La redenzione, cioè la fine perfetta, è il ripristino della perfezione originaria. Il modo di vita ebraico è speranza e anticipazione, ma la speranza della redenzione è – attraverso il ricordo – la speranza del ripristino della condizione originaria, che comporta la superiorità del passato sul futuro:

L’età messianica testimonierà del ripristino della pratica perfetta della Torah […]. La fede nella Torah fu la via di condotta costante dell’ebraismo, mentre il messianismo si è spesso assopito. Per esempio, come apprendo da Gershom Scholem, il centro di interesse per il cabalismo anteriore al XVI secolo era l’inizio; fu solo con Isaac Luria che il cabalismo iniziò a concentrarsi sul futuro, sulla fine. Tuttavia, anche in questo caso, l’ultima era divenne importante quanto la prima. Non divenne più importante. Inoltre (cito Scholem), «per inclinazione e abitudine, Luria fu decisamente conservatore. Tale tendenza è bene espressa nel costante tentativo di riportare ciò che doveva dire ad autorità più antiche». Per Luria, «la salvazione non significa in effetti altro se non ripristino, la reintegrazione della totalità originaria, o tiqqun […]. La via che conduce alla fine di tutte le cose è anche la via che conduce all’inizio». L’ebraismo è un partecipare al ritorno, non è un partecipare al progresso […]. Persino se fosse vero che il messianismo manifesti una prevalenza della partecipazione al futuro, o del vivere rivolti al futuro, questo non toccherebbe in alcun modo la credenza nella superiorità del passato rispetto al presente.[14]

Il messianismo è estraneo alla filosofia, il cui compito non consiste nell’elaborazione di modelli sociali – siano essi conservatori o rivoluzionari – realizzabili hic et nunc, ma nella ricerca della verità sul bene e sul giusto: la filosofia politica può mantenere vivo il proprio potenziale critico, la propria differenza, solo se conserva uno scarto laterale rispetto alla politica e alla religione. Mentre la filosofia fonda la propria essenza sulla superiorità della vita contemplativa, politica e religione affermano il primato della vita attiva. Filosofia, religione e politica sono però costrette a camminare fianco a fianco, senza mai sovrapporsi: il compito verso il quale la filosofia orienta la propria attività consiste nel tentativo di sostituire le opinioni sulle cose con la conoscenza delle cose; ma, poiché le opinioni sono l’elemento fondamentale di cui vive la società politica e la comunità religiosa, è inevitabile il sorgere di una tensione costitutiva tra la filosofia e la città. Nell’assumere un punto di vista che non è comunemente accettato, la filosofia si presenta come attività sovversiva nei confronti dell’ordine costituito, senza tuttavia proporsi come potere alternativo. Strauss nega che possa realizzarsi nei fatti il regime utopico descritto a parole dai filosofi greci, in particolare da Platone. Al contrario, la Repubblica è la dimostrazione dell’impossibilità della città giusta.

La questione che essi [Socrate e Glaucone] hanno in precedenza discusso era «se è possibile la città buona», intesa nel senso se essa sia in accordo con la natura umana. La questione cui essi ritornano è «se è possibile la città buona», intesa nel senso se essa possa essere condotta ad esistenza a partire dalla trasformazione di una città attuale […]. Come adesso apprendiamo, il nostro intero sforzo nello scoprire cosa sia la giustizia (in modo da essere in grado di vedere in quale modo essa sia collegata alla felicità) era una ricerca della «giustizia in sé», intesa come «modello». Nella ricerca della giustizia come modello noi implicitamente consideriamo che l’uomo giusto e la città giusta non saranno perfettamente giusti, ma in verità saranno solo approssimazioni alla giustizia, anche se con particolare vicinanza (Repubblica, 472a-b): solo la giustizia in sé è perfettamente giusta (Repubblica, 479a; 538 ss.). Apprendiamo così che nemmeno le caratteristiche istituzioni della città buona (comunismo assoluto, eguaglianza dei sessi e governo dei filosofi) sono semplicemente giuste. La giustizia in sé non è «possibile», nel senso che essa è suscettibile di giungere ad essere proprio perché essa è sempre, senza essere suscettibile di subire un qualunque mutamento. La giustizia è una «forma», una «idea», una delle molte «idee». Le idee sono le uniche cose che, strettamente parlando, «sono», cioè sono senza alcuna aggiunta di non-essere; esse sono al di là di tutto ciò che diviene e tutto ciò che diviene si trova tra l’essere e il non-essere. Dato che le idee sono le uniche cose che sono al di là di tutti i mutamenti, esse sono in un certo senso la causa di tutti i mutamenti. Del resto, l’idea di giustizia è la causa di tutte quelle cose (esseri umani, città, leggi, ordini, azioni) che hanno la possibilità di divenire giuste[15].

La città giusta può esistere solo «a parole», proprio a causa del naturale antagonismo tra l’attività filosofica e l’attività politica. La città ha bisogno della filosofia solo in una forma moderata: le cose politiche sono caratterizzate da principi di prudenza nei confronti della tradizione, degli dèi, degli interessi pubblici e privati, di fronte ai quali la filosofia è, e deve essere, indifferente. Tutto ciò equivale a riconoscere e a giustificare il carattere moderato, non radicale, delle richieste che possiamo rivolgere alla vita politica: la politica non è il regno nel quale poter incondizionatamente realizzare le verità della filosofia. Da questo punto di vista, il conservatorismo politico sembra essere semplicemente l’altra faccia della medaglia del radicalismo filosofico. La filosofia politica non può essere conservatrice, dato che è fondata sulla consapevolezza della superiorità del bene e del nobile sul tradizionale e sull’antico; d’altro canto, essa è consapevole che ogni società politica è una società particolare, chiusa nei confronti dell’esterno, fondata su un “mito” che è credenza, non conoscenza, ma che è necessario a conservare la possibilità di un ordine sociale. La superiorità “logica” della vita privata (filosofica) sulla vita pubblica (politica) è dunque speculare al primato “cronologico” della vita politica sulla vita filosofica: la filosofia è superiore alla politica, ma senza una vita sociale non è possibile l’attività filosofica. In questo modo Strauss tiene insieme, senza contraddizione, utopia e conservatorismo, in una prospettiva nettamente antimessianica che trova la propria giustificazione nelle necessità del corpo:

La città giusta è impossibile. Essa è impossibile perché è contro natura. Infatti, è contro natura che possa mai venire ad esistere una «cessazione dei mali» […]. Ed è contro natura che la retorica possa avere il potere che ad essa è stato ascritto: cioè che possa essere capace di sconfiggere la resistenza radicata nell’«amor proprio» degli uomini, in definitiva nel corpo […]. L’anima può governare sul corpo solo in modo dispotico, non attraverso la persuasione; la Repubblica ripete, allo scopo di superarlo, l’errore dei sofisti intorno al potere della parola.[16]

Nell’interpretazione di Strauss il filosofo è uno “straniero in patria” perché è colui che interpreta lo stupore e la meraviglia come ricerca della conoscenza, non come saggezza originaria (sia essa rivelata – come nel caso della religione – sia essa pratica sociale e condivisa – come nel caso della politica). E proprio per questa ragione Strauss sottolinea il carattere intrinsecamente edificante della filosofia intesa come “saggezza straniera” e come ricerca della verità, proprio perché per lui – ebraismo o no – la vita contemplativa è superiore alla vita attiva, così come il filosofo è superiore al cittadino e la filosofia è superiore alla religione.

3.

La critica della modernità è il principale motivo conduttore del pensiero straussiano: al centro della sua attenzione si trova, da un lato, il modello di razionalità; dall’altro, la concezione del diritto naturale. Intorno a questo secondo tema, che investe in modo più ampio tutte le questioni filosofico-politiche (sovranità, Stato ecc.), i più importanti autori di riferimento sono ovviamente Platone, Aristotele, Hobbes, Spinoza e Locke. Intorno al primo tema – che è direttamente collegato sia alla questione ermeneutica che all’interpretazione della natura della filosofia – uno dei principali autori di riferimento per Strauss è sicuramente l’autore della Guida dei perplessi: il razionalismo di Maimonide è il modello che permette di svelare il razionalismo moderno come «sofistica», responsabile del processo di storicizzazione, politicizzazione e ideologizzazione della filosofia, che conduce infine allo storicismo. Maimonide, insieme a Platone, è l’autore più presente nella biografia intellettuale di Strauss, fin dalle sue opere degli anni Venti a quelle degli anni Settanta. All’interno di una cornice interpretativa che non prevede ‘rivoluzioni’, le letture maimonidee di Strauss possono essere suddivise in tre periodi. Nella prima fase, tra gli anni 1924 e 1937, Strauss utilizza la figura di Maimonide prima come termine di confronto per la critica della scienza biblica di Spinoza[17] per poi passare all’analisi (con il testo chiave Philosophie und Gesetz del 1935) di due problemi attraverso i quali si delinea la decisiva presenza della filosofia politica platonica nella Guida dei perplessi: la fondazione legale della filosofia e la fondazione filosofica della Legge.[18] La seconda fase comprende gli studi degli anni Quaranta, quando Strauss giunge alla formulazione della sua teoria ermeneutica: in questo caso il principale testo di riferimento è il saggio The Literary Character of «The Guide for the Perplexed», che appare nel 1941, lo stesso anno di pubblicazione del suo saggio sulla persecuzione e sull’arte della scrittura reticente.[19] Con l’eccezione di un breve saggio del 1953 dedicato alla scienza politica di Maimonide,[20] Strauss non ritorna su Maimonide fino al 1963, quando a Chicago viene pubblicata l’edizione inglese della Guida dei perplessi, un’operazione patrocinata dallo stesso Strauss che appone alla traduzione commissionata a Shlomo Pines una lunga introduzione in cui la sua strumentazione ermeneutica raggiunge una straordinaria raffinatezza interpretativa (soprattutto nell’uso dell’esegesi biblica).[21] Ed è questa raffinatezza interpretativa a caratterizzare la terza fase delle sue letture maimonidee, anche in un ulteriore studio portato a termine proprio negli ultimi anni della sua vita.[22]

Sono però due i testi fondamentali – rappresentativi dell’intero sviluppo intellettuale di Strauss – utili per comprendere il rapporto tra reticenza filosofica e problema teologico-politico attraverso la figura di Maimonide: Philosophie und Gesetz (1935) e The Literary Character of «The Guide for the Perplexed» (1941). In questi testi è possibile individuare il nucleo teorico dell’intero lavoro filosofico-politico di Strauss, cioè la tensione dialettica, irrisolta e irrisolvibile, tra filosofia e politica; un nucleo teorico la cui rilevanza contemporanea è assolutamente comprensibile non appena si “attualizzi” il linguaggio classico di Strauss riversandolo sulle categorie filosofico-politiche moderne. Una volta compreso che, per esempio, il sofista è l’intellettuale contemporaneo, versato nella costruzione del consenso sociale, e che la polis è lo Stato, diventa chiaro qual è l’interpretazione straussiana della società contemporanea, notevolmente determinata dal conformismo e dalla cultura di massa: politici, scienziati e imprenditori – tutti cittadini nel senso classico del termine – hanno costituito un’alleanza organica in grado di rendere più efficienti le grandi “organizzazioni” che determinano lo status quo in cui prospera la società del benessere. Di fronte alla tetra prospettiva di un filisteismo universale, l’opposizione a una tale società è rappresentata solo da alcune marginali categorie, divise e opposte reciprocamente: un’opposizione politica non istituzionale (conservatori e reazionari da un lato, radicali e anarchici dall’altro) e un’opposizione “impolitica”, costituita dai filosofi. È forse utile sottolineare che, di fronte a questa alternativa tra consenso e opposizione alla società del benessere, Strauss non si schiera dalla parte delle grandi “organizzazioni” ma, al contrario, sceglie la secessione “impolitica” operata dal filosofo.[23]

L’interpretazione straussiana del rapporto tra filosofia, politica e religione – cioè il problema teologico-politico – risulta esplicita soprattutto nel volume Philosophie und Gesetz (1935)[24] dedicato all’analisi della Guida dei perplessi. Il Maimonide di Strauss è un pensatore “politico”, tanto che i vari argomenti metafisici e teologici della Guida vengono compresi e risolti a partire da una particolare prospettiva politica, quella platonica. Malgrado la questione ermeneutica venga da Strauss definita solo nel 1941,[25] il problema teologico-politico si trova connesso al tema dell’esoterismo già in Philosophie und Gesetz. A dire il vero, più che di esoterismo sembra corretto parlare, a questo stadio della riflessione straussiana, di elitismo:[26] il tema della reticenza è infatti qui declinato non tanto sul piano della scrittura dei testi filosofici, ma su quello del governo e della legislazione. Sono infatti numerosi i passaggi nei quali il tema della “doppia verità” (pubblico vs. privato) emerge nell’analisi della profetologia dei filosofi islamici ed ebraici del Medioevo (al-Farabi, Averroè, Avicenna, Maimonide, Gersonide), ma in nessuno di questi viene tematizzata la questione della scrittura reticente o dell’ermeneutica come forma di educazione filosofica, bensì la necessità di tenere segreta la verità per ragioni di prudenza politica e di convenienza pubblica.[27] Malgrado ciò, non è possibile affermare che questo elitismo straussiano sia caratterizzato da inclinazioni mistiche o sia fondato su principi reazionari quali la forza o la stirpe: pur ammettendo che la diseguaglianza sia un carattere essenziale della società politica, tuttavia essa non è “naturalizzata” né nel rapporto tra governanti e governati, né nel rapporto tra i “pochi” e i “molti”. Non a caso, Strauss definisce la posizione dei filosofi islamici ed ebraici medievali come «illuminismo religioso del Medioevo», alludendo alla decisiva distinzione con l’illuminismo moderno di Descartes, Hobbes, Spinoza e Voltaire. Maimonide e i suoi maestri arabi sono pensatori scettici, filosofi razionalisti che hanno affrontato il rapporto tra filosofia, politica e religione in un’ottica allo stesso tempo radicale (sul piano privato) e moderata (sul piano pubblico) che si distingue nettamente dal radicalismo antireligioso dei moderni. Non a caso Maimonide – così come Averroè e Avicenna – ha sviluppato una fondazione giuridica della filosofia, cioè una giustificazione dell’attività filosofica (e dei suoi limiti) di fronte al tribunale della Rivelazione. La perfezione dell’uomo è resa possibile solo nella vita contemplativa e quindi la Rivelazione ordina di svolgere l’attività filosofica: «Una volta che essi [Maimonide e i falasifa] si sono assicurati del fatto che l’attività filosofica, in quanto tale, è permessa o addirittura prescritta [dalla Legge], essi possono chiarire filosoficamente la possibilità della Rivelazione e pertanto giungere a considerare la ragione come unico giudice della verità o della falsità della Rivelazione».[28] La Rivelazione è considerata da Maimonide come un “fatto” che precede e che rende problematica l’attività filosofica, tanto da rendere necessaria una sua fondazione giuridica in grado di rispondere alla seguente questione: «Una Legge data da Dio, e dunque perfetta, è da sola sufficiente, necessariamente, a condurre la vita alla sua vera meta. Ma qual è allora il senso dell’attività filosofica?».[29] Tuttavia, proprio nella risposta a questo problema, il Maimonide di Strauss trova la giustificazione a svolgere un’attività “pagana” quale quella filosofica anche all’interno di un mondo monoteistico, perché lo scopo della Legge coincide con quello della filosofia: la felicità dell’uomo, resa possibile dalla conoscenza della verità attraverso la vita contemplativa.

Non essendo un apparato dogmatico (come nel cristianesimo) ma una forma di ordinamento sociale, la Legge degli islamici e degli ebrei ha il compito di regolare le azioni e le opinioni, cioè l’intera struttura sociale. Essa però non deve essere semplicemente creduta, bensì compresa in termini razionali: la fede, infatti, non è semplice confessione pubblica, ma intima comprensione e dimostrazione razionale della verità di ciò che viene creduto. Nell’interpretazione straussiana, a Maimonide – come ai falasifa – si pone il problema del possibile contrasto tra insegnamento filosofico e insegnamento rivelato, inteso nel suo senso letterale. La soluzione di questo contrasto non sembra essere particolarmente difficile se viene adottato un punto di vista che tiene conto della dialettica tra esoterismo ed essoterismo che caratterizza Maimonide e, più in generale, l’illuminismo religioso dei pensatori islamici ed ebraici medievali:

I filosofi medievali non erano illuministi nel senso originario del termine: non si trattava, per loro, di espandere la luce, di educare il volgo alla conoscenza razionale, di illuminare. Essi non cessavano di ingiungere ai filosofi il dovere di tenere segreta, al volgo che non ha vocazione filosofica, la verità conosciuta razionalmente: il carattere esoterico della filosofia era per loro – al contrario dell’illuminismo propriamente detto, cioè l’illuminismo moderno – qualcosa di fermamente assoluto e incondizionato. Certamente anche nei secoli XVII e XVIII sono vissuti pensatori che – per citare proprio Voltaire – pensavano che “quando il popolo si impiccia a ragionare, tutto è perduto”; e da un altro lato anche pensatori come Maimonide tenevano al fatto che gli uomini fossero illuminati in qualche modo. Ma se si pensa che generalmente l’illuminismo moderno, a differenza dell’illuminismo medievale, propaganda le sue dottrine, risulta impossibile replicare all’affermazione secondo cui l’illuminismo nel Medioevo è stato esoterico in linea di principio, mentre l’illuminismo moderno è in linea di principio essoterico. Anche la più provvisoria caratterizzazione della posizione di Maimonide non può ignorare questa sua specifica differenza rispetto all’illuminismo moderno. Il carattere esoterico dell’«illuminismo religioso del Medioevo» trova il suo fondamento nel primato dell’ideale della vita teoretica, proprio come il carattere essoterico dell’illuminismo moderno trova il suo fondamento nella convinzione del primato della ragione pratica.[30]

Se il senso letterale della Scrittura risulta essere non-razionale, cioè impossibile (per esempio, nel caso dei passi sulla corporeità e sulla molteplicità di Dio), è necessario abbandonare il senso letterale e interpretare metaforicamente il testo rivelato allo scopo di far coincidere il suo senso con i risultati della speculazione filosofica. Senza dubbio esiste il problema dei limiti al diritto di interpretazione, che non può giungere fino all’eresia o all’ateismo: tuttavia per il filosofo – ma certamente non per il volgo – l’interpretazione è un dovere in tutti i casi in cui il senso letterale della Scrittura insegna dottrine la cui impossibilità è dimostrata dalla ragione.[31] La filosofia è dunque libera, anche se non in modo assoluto: essa è libera nello studio del mondo naturale “al di sotto del cielo”, non nello studio del “cielo” in cui hanno un ruolo centrale le verità prescritte dalla Legge (per esempio, relativamente alla creazione), inaccessibili alla ragione umana. Ritorna qui la questione dell’autorizzazione giuridica a svolgere attività filosofica: la libertà della filosofia riposa sul suo legame, cioè il primato della Legge: «La Torah è – come il mondo, proprio in quanto “mondo” – prima della filosofia».[32]

Per Maimonide – e per i falasifa – esiste però anche il problema complementare a quello appena trattato: infatti, se è necessaria la fondazione giuridica della filosofia, allo stesso modo necessaria risulta essere la fondazione filosofica della Legge, cioè la giustificazione razionale della Rivelazione. Attraverso l’accentuazione del ruolo politico, cioè pratico, della Rivelazione, Strauss individua nella profetologia il luogo in cui la Legge diventa oggetto della filosofia. La Rivelazione rappresenta l’ordine perfetto, insieme teoretico e pratico, il cui fondatore, il legislatore profetico, non è solo un profeta, ma anche un filosofo e uno statista. Per il profeta è assolutamente indispensabile il possesso di un perfetto intelletto, di un perfetto costume morale e di una perfetta capacità immaginativa, allo scopo di deliberare in materia di verità teoretiche, costumi comunitari, credenze religiose e istituzioni politiche: la profezia non ha rilevanza tanto metafisica, quanto pratica, cioè politica, e in questo senso è strettamente legata alla creazione di una perfetta legislazione e di un governo giusto, condizioni, entrambe, indispensabili per il raggiungimento dello scopo originario della Rivelazione, la perfezione morale e spirituale dell’uomo. Dato che la Rivelazione comunica le fondamentali verità teoretiche, il profeta deve possedere un perfetto intelletto; tuttavia, poiché la Rivelazione contiene anche credenze necessarie alla vita comune – credenze che però non sono propriamente vere – e poiché il linguaggio della filosofia non è adatto per la comunicazione delle verità rivelate alla moltitudine, il profeta deve disporre anche di una perfetta capacità immaginativa che lo renda capace di utilizzare il linguaggio metaforico spesso necessario per l’esposizione pubblica delle verità rivelate. Quindi lo scopo della profezia è essenzialmente politico, perché il profeta ha il compito di fondare la società all’interno della quale sia possibile la perfezione suprema dell’uomo, la vita teoretica. L’uomo, come animale politico, può vivere solo sotto una legge:[33] la perfezione umana è infatti possibile solo in una società ben ordinata e una tale società può esistere solo se esiste una legislazione che non mira solo al benessere del corpo, ma anche alla perfezione dell’anima. Agli occhi del Maimonide di Strauss, il fondatore dello stato ideale è dunque il profeta: in questa affermazione si rende visibile il collegamento istituito da Maimonide, sulla scia dell’insegnamento dei falasifa, tra profetologia e filosofia politica platonica. Infatti, solo il profeta può assolvere le condizioni richieste da Platone per la coincidenza di filosofia e potere politico: il profeta è l’immagine storico-concreta del filosofo-re che fonda uno stato orientato alla specifica perfezione dell’uomo, la vita teoretica. La Rivelazione trova la propria giustificazione nell’essere condizione necessaria di una vita associata ben ordinata sul modello della politica platonica, e questa a sua volta sembra essere la condizione per la possibilità della vita teoretica messa di fronte alle sue responsabilità sociali, politiche e religiose: malgrado viva la propria ricerca della conoscenza in piena libertà, il filosofo deve essere sempre consapevole della necessità di una giustificazione giuridica della filosofia, di vivere cioè sottoposto alla conduzione politica del profeta. Il profeta, a differenza del filosofo, è maestro e guida allo stesso tempo. Infatti, primato “logico” e primato “cronologico” non coincidono: la teoria, e non la politica, è il massimo bene, ma la politica, e non la teoria, è il “primo” bene, perché l’uomo, come animale politico, può vivere solo in società. Maimonide afferma senza dubbio il primato della vita teoretica, ma ciò che ha il primato “logico” (la filosofia) non ha il primato “cronologico” (che spetta alla vita politica, cioè alla Legge prescritta dalla Rivelazione), e viceversa; o meglio: l’affermazione del primato “cronologico” della vita teologico-politica non cancella l’affermazione della superiorità “logica” della vita teoretica, proprio perché la vita teoretica, nel suo essere virtù e felicità, è il bene supremo, ma non è il “primo” bene. In una parola: la teoria aristotelica non è pensabile se non all’interno di uno stato platonico:

La questione platonica di uno stato giusto, la questione del Bene costringe a ulteriori considerazioni in cui dobbiamo chiederci che cosa sia l’anima, quali siano le sue parti; cosa sia la scienza; cosa sia l’esistente. Il progetto di Platone implica perciò che la ricerca prosegua su tutto ciò su cui Aristotele effettivamente svolge la sua ricerca, non più orientata intorno alla questione del Bene. E non solo questo: Platone insegna, in modo non meno decisivo di Aristotele, che la felicità e la perfezione propria dell’uomo consiste nella pura contemplazione e nella pura comprensione. La differenza fondamentale tra Platone e Aristotele si mostra solo nel modo in cui essi si comportano nei confronti della teoria intesa come la più alta perfezione dell’uomo. Aristotele la rende completamente libera; o, piuttosto, egli la lascia nella sua libertà naturale. Platone al contrario non permette ai filosofi “ciò che a loro viene ora permesso”, cioè la vita nell’attività filosofica intesa come persistenza nella contemplazione della verità. Egli li ‘costringe’ a preoccuparsi degli altri e a vegliare su di loro, in modo che lo stato sia in realtà uno stato, uno stato giusto. Il filosofo, che si è innalzato come tale sul mondo sensibile, giungendo alla contemplazione del Bello, del Giusto e del Bene, e che nella contemplazione vive e vuol vivere, si vede ora costretto all’interno dello stato, venendo nuovamente vincolato allo stato dal comandamento del fondatore dello stato, che pensa soprattutto all’ordine del tutto e non alla felicità delle parti. Il filosofo, in quanto filosofo, è sottomesso allo stato, egli deve giustificarsi di fronte allo stato, egli non è assolutamente sovrano. Ciò che Platone ha richiesto – che la filosofia sussista sotto una più alta istanza, sotto lo stato, sotto la legge – viene realizzato nell’epoca che crede nella Rivelazione. In completa libertà nella ricerca della conoscenza, i filosofi di quest’epoca sono consapevoli in ogni momento del loro essere responsabili nei confronti della Legge e di fronte alla Legge: essi giustificano la loro attività filosofica di fronte al tribunale della Legge: essi traggono dalla Legge la loro autorizzazione all’attività filosofica come obbligazione legale all’attività filosofica. Il platonismo di questi filosofi è dato con la loro situazione, con il loro essere fattualmente sottomessi alla Legge. Poiché essi sono fattualmente sottomessi alla Legge, essi non hanno più bisogno, come Platone, di cercare la legge, lo stato, di interrogarsi su di essa: l’ordine vincolante e assolutamente perfetto della vita umana è dato loro attraverso un profeta. Una volta autorizzati dalla Legge, essi sono liberi di svolgere l’attività filosofica con una completa libertà aristotelica: per questo essi possono “aristotelizzare”.[34]

Il modello platonico permette ai filosofi islamici ed ebraici del Medioevo di «aristotelizzare» proprio perché la filosofia sussiste sotto una più alta istanza, sotto la Legge: il platonismo di Averroè, Avicenna e Maimonide è dato con il loro essere responsabili nei confronti della Legge, malgrado la completa libertà nella ricerca della conoscenza. Essi giustificano la loro attività filosofica di fronte al tribunale della Legge, traendo dalla Legge l’autorizzazione all’attività filosofica come obbligazione giuridica all’attività filosofica, unica in grado di giustificare l’utilità razionale della Legge.

4.

In questa interpretazione Maimonide – così come gli altri pensatori premoderni privilegiati da Strauss, in particolare Platone e al-Farabi – rappresenta il modello di una ricerca filosofica dialettica, allo stesso tempo radicale (sul piano della «demitizzazione» privata delle opinioni) e moderata (sul piano della prudenza pubblica intorno all’agire politico), in grado di difendere la natura specifica della filosofia, cioè la sua «saggezza straniera» e il suo carattere critico rispetto ad ogni autorità costituita, ad ogni costume normativo, ad ogni mito politico e ad ogni tradizione socio-religiosa. Il filosofo appartiene e, allo stesso tempo, non appartiene alla città perché – al contrario dell’uomo politico – il suo eros non è diretto verso il demos, ma verso la ricerca della sapienza. La filosofia nasce come ricerca dei “princìpi” di tutte le cose, cioè tanto delle loro origini quanto dei loro criteri, e in questo senso come spiegazione alternativa alle narrazioni tradizionali sulle origini e sulle cause dei fenomeni. La nascita della filosofia (con l’elaborazione della distinzione tra conoscenza, comprensione e credenza) equivale alla nascita di un principio critico nei confronti della tradizione. Allo stesso modo, la filosofia politica nasce come ricerca dei “princìpi” delle cose politiche, e quindi come analisi critica del principio in base al quale il bene è la tradizione: l’autorità viene posta in dubbio non appena la filosofia politica abbandona ciò che è ancestrale per ciò che è buono in sé. Prima della filosofia politica, e successivamente accanto alla filosofia politica, esiste la vita politica, all’interno della quale gioca un ruolo di primo piano il “costume”:

Mentre tutte le cose, o classi di cose, hanno il loro “costume” o la loro “via”, vi è un “costume” o una “via” particolare che ha un’importanza suprema: la “nostra” via, di “noi” che viviamo “qui”, il costume di vita del gruppo autonomo a cui un uomo appartiene. Possiamo chiamarlo il costume “sovrano” […]. Il costume sovrano è la strada giusta. Che lo sia, lo assicura la sua stessa antichità […]. Ma ciò che è antico non è giusto dovunque. La “nostra via” è la giusta via perché è insieme “antica” e “nostra”, insieme “domestica” e consacrata dalla prescrizione. Proprio come “l’antico” e “il nostro” si confondevano all’origine con il diritto e il bene, così “il nuovo” e “l’estraneo” all’origine erano il male. L’idea che lega “l’antico” e “il nostro” è quella di “ancestrale”. La vita prefilosofica ha come suo carattere questa originaria identificazione del bene con l’ancestrale.[35]

Dal punto di vista del “costume”, la risposta ai problemi relativi ai “princìpi” delle cose politiche è data ancor prima del loro sorgere, ed è data dall’autorità morale della tradizione, cioè del modo di vita della comunità di appartenenza: inoltre, attraverso il carattere vincolante delle narrazioni mitiche delle origini, l’identificazione del bene con la propria esistenza ancestrale tende a fingersi di origine divina, e quindi al di là di ogni possibile indagine critica. La filosofia politica deve invece il proprio carattere alla intransigente indifferenza verso tale autorità: il filosofo deve poter contemplare la possibilità che tali vincolanti punti di vista non siano che opinioni.

La ricerca filosofica della verità è una attività essenzialmente transpolitica e irreligiosa che partecipa alle vicende della vita associata senza tuttavia possederne la stessa logica argomentativa.[36] Con il richiamo alla logica dell’appartenenza, l’autorità politica tende a fingersi natura, attraverso la creazione di un mito politico che si presenta come la verità autoritativa, mentre la filosofia, grazie al suo carattere antitradizionale, risulta essere critica radicale di ogni ideologia e di ogni mito politico, così da indicare nell’attività politica il “regno della credenza”. In questo senso, la sottomissione della filosofia ad un’autorità significa la sua trasformazione in ideologia, cioè in un’apologia dell’ordinamento sociale in questione. Strauss tende infatti a sottolineare, contro ogni tradizione conciliativa, lo scarto che esiste tra filosofia e politica da una parte e tra filosofia e religione dall’altra. In più occasioni Strauss, sulla scorta dell’Eutidemo platonico, ricorda che «il più grande nemico della filosofia, il più grande sofista, è la moltitudine riunita in assemblea cittadina», cioè la società politica: l’unico discorso politicamente pronunciabile è dunque lontano dall’unico discorso filosoficamente vero. Per il filosofo esiste un ‘naturale’ conflitto tra ciò che è giusto e ciò che è buono, tra ciò che è morale e ciò che è nobile. Non a caso, l’identificazione della giustizia con la legalità pone il problema della verifica della volontà e della razionalità del legislatore. Infatti, seguendo il ragionamento di Socrate contro Trasimaco contenuto nel primo libro della Repubblica, il formale rispetto dei criteri della giustizia politica può diventare addirittura un espediente che favorisce l’ingiustizia, cioè il tacito sfruttamento della legge per il perseguimento del bene privato. L’obbedienza alla legge non è in sé giusta, e nemmeno salutare, visto che la legge può essere ingiusta. Per questo motivo ogni società è costituita da miti e valori del tutto arbitrari: quale migliore finzione allora che attribuire a un “dio” l’origine della legislazione? I conflitti tra le diverse autorità politiche sono dunque conflitti tra le diverse autorità “divine”: le varie “divinità” sono garanti di ciò che è giusto nelle diverse associazioni politiche:

Ciò che è “primo per noi” non è la comprensione filosofica della città, ma quel tipo di comprensione che è inerente alla città come tale, alla città prefilosofica, comprensione secondo cui la città vede se stessa come soggetta e obbligata al divino, inteso nella sua comprensione ordinaria. Solo iniziando da questa considerazione possiamo essere pronti all’impatto con la questione più importante, coeva alla filosofia malgardo i filosofi non la pronuncino frequentemente – la questione quid sit deus.[37]

Al contrario della politica, la filosofia è il tentativo di sostituire alle opinioni sulle cose la conoscenza delle cose, proprio perché essa fonda la propria esistenza sulla distinzione tra ciò che è “primo per noi” e ciò che è “primo in sé”. La verità teoretica dunque non solo non è realizzabile, ma è anche pericolosa per la vita politica e religiosa, perché mina le credenze che sono alla base della convivenza sociale.

La distinzione tra filosofia e politica può essere ulteriormente complicata attraverso l’introduzione di un “termine medio”: è infatti necessario individuare le reciproche distinzioni che identificano la filosofia, la sofistica e la città. Strauss considera la sofistica come una particolare forma di assenza della filosofia, o meglio come un particolare uso della filosofia per scopi non filosofici da parte di uomini che sono consapevoli della superiorità della filosofia: ciò che caratterizza il sofista è lo scopo per il quale egli usa la sua capacità di ‘distruggere’ e ‘costruire’ attraverso le parole. Malgrado la vita associativa, cioè la politica, non sia solo un momento di confronto razionale e di persuasione pacifica, ma sia anche il regno della forza e delle passioni che trascendono la dimensione dialettica, il sofista crede nell’assoluta potenza della parola, giungendo a identificare politica e retorica. Del resto, per il sofista la verità non è un problema, e anzi la sapienza in senso stretto è impossibile, così che il suo posto è occupato dalla scienza eristica: infatti il sofista si cura della sapienza, non per amore di essa, ma per l’onore che da essa, o dalla sua apparenza, deriva. È evidente che, in questo, tutti i cittadini sono sofisti, almeno nelle loro intenzioni. Tuttavia il sofista non è identico al cittadino: il dubbio che il sofista promuove in linea di principio nei confronti del senso comune lo rende sospetto agli occhi del cittadino, che da questo punto di vista identifica il sofista con il filosofo tout court. Mentre in un certo senso il sofista è l’antagonista del filosofo, in un altro e più decisivo senso è il cittadino ad essere l’antagonista del filosofo, che da questo punto di vista può essere alleato del sofista, malgrado non si debba dimenticare che l’abile uso delle parole non equivale alla conoscenza delle cose:

Secondo Platone esistono almeno due errori egualmente ‘formidabili’, diametricamente opposti alla filosofia, e l’uno all’altro reciprocamente: la sofistica e la stupidità soddisfatta di sé del volgo, che confonde le proprie opinioni con la conoscenza. La reciproca opposizione di questi due errori mette il filosofo nelle condizioni, anzi lo obbliga, a combattere l’uno per mezzo dell’altro e viceversa: contro il disprezzo dei sofisti nei confronti del “senso comune” il filosofo si appella alla verità divinata dal “senso comune”, e contro la soddisfazione popolare per il “senso comune”, il filosofo utilizza il dubbio dei sofisti nei confronti del “senso comune”.[38]

Nell’utilizzare il senso comune contemporaneamente come alleato e come nemico, il filosofo riesce ad attingere un punto di vista dal quale può guardare criticamente tanto la sofistica, quanto la città. Le cose politiche sono caratterizzate da princìpi di prudenza nei confronti della tradizione, degli dèi della città, degli interessi pubblici e privati, di fronte ai quali la filosofia è, e deve essere, indifferente:[39] tutto ciò equivale a riconoscere e a giustificare il carattere moderato, non radicale, delle richieste che possiamo rivolgere alla vita politica. Il filosofo è consapevole delle necessità della vita materiale, che non possono essere semplicemente eliminate in quanto opinioni ma, al contrario, devono essere tenute in massima considerazione in quanto primo fondamento della società politica. Il filosofo platonico riesce a tenere insieme, senza contraddizione, saggezza e moderazione, utopia e conservatorismo, proprio perché la politica non è il regno nel quale poter incondizionatamente realizzare le verità della filosofia. La moderazione non è una virtù del pensiero, che deve essere spregiudicato, ma della sua espressione pubblica, in virtù dei problemi posti dalla responsabilità sociale e dalle necessità della vita materiale. In questo senso, “moderazione” viene ad assumere un duplice significato, di temperanza da un lato e di prudenza dall’altro: nel primo caso, “moderazione” risulta essere la condizione di possibilità della vita teoretica, nel secondo la condizione di possibilità della vita politica. L’insegnamento filosofico, nel suo essere educazione liberale, l’esatto contrario dell’ideologia e dell’indottrinamento, è possibile solo se la saggezza non viene separata dalla moderazione: «la filosofia deve stare in guardia contro il desiderio di essere edificante – la filosofia può essere solo intrinsecamente edificante».

 

 

[1] Cfr. L. Strauss, Jerusalem and Athens. Some Preliminary Reflections, New York, The City College, 1967; trad. it. Gerusalemme e Atene. Riflessioni preliminari, in L. Strauss, Gerusalemme e Atene, Torino, Einaudi, 1998, pp. 3-36.

[2] L. Strauss, What is Political Philosophy?, Glencoe, Free Press, 1959, pp. 9-10; trad. it. Che cos’è la filosofia politica?, Urbino, Argalia, 1977, p. 33.

[3] Cfr. —. Ogni forma di “filosofia ebraica” o di “filosofia dell’ebraismo” deve essere considerata una contraddizione in termini, un ossimoro. Non a caso, il suo sguardo critico si appunta contro ogni modello di “filosofia della religione”, esemplarmente rappresentato da Julius Guttmann. Senza entrare nel dettaglio della critica a Guttmann che Strauss svolge sul piano storico (per esempio sulla diversa interpretazione della filosofia ebraica medievale e dell’idea di Legge), sembra qui utile riflettere sulla sua critica al vocabolario di Guttmann, vicino al neokantismo e alla Kulturphilosophie: infatti, se il compito della “filosofia della religione” consiste nell’analisi della coscienza religiosa, cioè della sua autonomia rispetto alla conoscenza e alla vita morale, allora la religione può essere compresa solo all’interno del concetto di “cultura” (e dei suoi diversi “ambiti”) inteso come “sovrana creazione dello spirito”. Con “cultura”, però, la filosofia della cultura comprende la “produzione spontanea” dello spirito umano, mentre la religione (così come la politica) non ha questo carattere. La religione non è un “ambito di validità” o una “direzione della coscienza”, bensì religione rivelata: in questo senso non è possibile porsi (come invece, seguendo Kant e Schleiermacher, fa Guttmann) il problema del valore metodico proprio della religione. Alla pretesa di universalità della “cultura” fondata su una produzione spontanea sembra dunque opporsi la pretesa di universalità della religione che non è prodotta dall’uomo, ma a lui data. Strauss non può accettare né l’interiorizzazione delle verità rivelate, né la riduzione ‘mondanizzata’ dei rapporti tra filosofia e religione operata da Guttmann (come anche, in forme diverse, da Cohen, Buber e Rosenzweig), così come non può accettare una comprensione della religione nei termini proposti dalla filosofia della cultura, cioè come “esperienza religiosa” e come “coscienza religiosa”: «L’idea di “filosofia della religione”, da cui è condotta la ricerca di Guttmann, riporta a Schleiermacher: infatti, è proprio attraverso Schleiermacher che è diventato possibile ottenere un concetto di “religione”, un “concetto di fede”, che è più conforme “all’interiorità della coscienza religiosa” rispetto al “concetto di fede” del Medioevo che, sia esso razionalistico o soprannaturalistico, è in ogni caso “intellettualistico”. Il ritorno, o la ritirata, “nell’interiorità” ha come conseguenza, o come presupposto, la svalutazione di tutto ciò che non può essenzialmente derivare “dall’interiorità”. Nell’“interiorità”, nella “coscienza morale”, sono fondate, al massimo grado, “le esigenze più universali della morale fondamentale”, “le leggi non scritte”, i principi della vita collettiva degli uomini, il diritto naturale, ma non le particolari determinazioni che, esse sole, rendono applicabili quei principi. Guttmann rimane perciò fedele a se stesso quando definisce queste particolari determinazioni – che, secondo l’insegnamento di Saadia e di “una grande parte dei pensatori ebraici che più tardi si occuparono di filosofia della religione”, possono essere determinate in modo più adeguato solo attraverso la Rivelazione – come “norme di diritto in forma puramente tecnica”; oppure quando rimprovera a Saadia e ai suoi successori di “non distinguere queste “norme di diritto in forma puramente tecnica dalle determinazioni morali”; oppure quando in generale qualifica come “primitivo” il modo in cui i filosofi in questione dimostrano che “le esigenze più universali della morale fondamentale hanno bisogno di essere completate dalla Rivelazione”. Noi dovremmo riprendere questa qualificazione, ma nel suo senso primitivo, originario: i filosofi islamici ed ebraici del Medioevo sono “più primitivi” dei filosofi moderni perché essi non sono guidati, come questi ultimi, dall’idea – derivata – del diritto naturale, bensì dall’originaria, antica, idea della Legge, intesa come un unitario e totale ordine della vita umana, o, in altri termini, perché essi sono discepoli di Platone, e non di Cristo» (—).

[4] Cfr. —

[5] Cfr. —

[6] Cfr. —

[7] Cfr. —. Sullo statuto ateistico della posizione di Strauss, Scholem non nutre alcun dubbio fin dai primi anni Trenta: «In questi giorni, per la celebrazione della nascita di Maimonide, esce da Schocken un libro di Leo Strauss (che mi sono dato molto da fare perché fosse nominato a Gerusalemme), il quale (con un coraggio ammirevole per un autore che tutti devono considerare come candidato per Gerusalemme) comincia con una professione di ateismo aperta e motivata in maniera dettagliata (seppure completamente folle) e la dichiarazione che l’ateismo è la principale parola d’ordine ebraica! Una cosa del genere si lascia dietro persino quelle prime 40 pagine del tuo lavoro di libera docenza! Ammiro questa moralità, e deploro il suicidio evidentemente cosciente e deliberato di una testa così valida. La libertà di votare per l’assegnazione a un ateo di una cattedra intitolata alla Filosofia della religione ce la possiamo aspettare, quaggiù, al massimo da tre persone – e la cosa è comprensibile. Spero di poterti procurare una copia del libro, quando sarà uscito» (Lettera di Scholem a Benjamin del 29.3.1935, in W. Benjamin e G. Scholem, Teologia e utopia, trad. it., Torino, Einaudi, 1987, pp. 179-180).

[8] Cfr. L. Strauss, Antwort auf das “Prinzipielle Wort” der Frankfurter, in «Jüdische Rundschau», XXVIII, 1923, n. 9, pp. 45-46; Id., Anmerkung zur Diskussion über “Zionismus und Antisemitismus”, in «Jüdische Rundschau», XXVIII, 1923, n. 83-84, pp. 501-502; Id., Der Zionismus bei Nordau, in «Der Jude», VII, 1923, n. 10-11, pp. 657-660; Id., Paul de Lagarde, in «Der Jude», VIII, 1924, n. 1, pp. 8-15; Id., Soziologische Geschichtsschreibung?, in «Der Jude», VIII, 1924, n. 3, pp. 190-192; Id., Zur Auseinandersetzung mit der europäischen Wissenschaft, in «Der Jude», VIII, 1924, n. 10, pp. 613-617; Id., Ecclesia militans, in «Jüdische Rundschau», XXX, 1925, n. 36, p. 334; trad. it. Ecclesia militans, in AA.VV., Teologia politica 2. Anarchia, Milano, Marietti 1820, 2006, pp. 242-247; Id., Biblische Geschichte und Wissenschaft, in «Jüdische Rundschau», XXX, 1925, n. 88, pp. 744-745; Id., Book Review of J.L. Talmon, «The Nature of Jewish History», in «Journal of Modern History», XXIX, 1957, p. 306; Id., Perspectives on the Good Society, in «Criterion», II, 1963, n. 3, pp. 1-8; trad. it. Prospettive di una società migliore, in L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, Milano, Giuffrè, 1973, pp. 323-338; Id., The Mutual Influence of Theology and Philosophy, [1952], in «The Independent Journal of Philosophy», III, 1979, pp. 111-118; Id., On the Interpretation of «Genesis», [1957], in «L’Homme», XXI, 1981, n. 1, pp. 5-20; Id., Why We Remain Jews: Can Jewish Faith and History Still Speak to Us?, [1962], in K.L. Deutsch and W. Nicgorski (eds.), Leo Strauss, Lanham, Rowman and Littlefield, 1994, pp. 43-79; Id., Freud on Moses and Monotheism, [1958], in Id., Jewish Philosophy and the Crisis of Modernity, ed. by K.H. Green, Albany, State University of New York Press, 1997, pp. 285-309; trad. it. Su Freud, in «Micromega. Almanacco di filosofia», 2003, n. 5, pp. 251-290. – In più occasioni Strauss si pronuncia in difesa della dignità e della responsabilità del popolo ebraico, tutelata soprattutto dal sionismo politico. A questo proposito sembra utile riportare alcuni passaggi della conferenza pubblica Why We Remain Jews, tenuta da Strauss presso la Hillel Foundation dell’Università di Chicago nel 1962, in cui risultano visibili i caratteri del “sentimento razionale” che anima Strauss nei confronti della tradizione ebraica. Dopo un’attenta riflessione politico-sociale sulla questione ebraica e sulle sue possibili soluzioni (sionismo; assimilazione da parte dei singoli individui o da parte di interi gruppi; assimilazione della fede ebraica ad una setta religiosa), soluzioni nella loro essenza solo parziali e insufficienti, Strauss giunge alle seguenti conclusioni relative allo statuto dell’identità ebraica nel mondo moderno: «È impossibile non rimanere ebrei. È impossibile sfuggire alla propria origine […]. Non esiste niente di meglio della complessa soluzione offerta dalla società liberale, che implia eguaglianza legale e “discriminazione” privata […]. Non esiste soluzione al problema ebraico […]. L’ebraismo non è una disgrazia, ma una “eroica illusione”. In cosa consiste questa illusione? L’unica cosa necessaria è la giustizia o la carità […]. Questo concetto dell’unica cosa necessaria non è difendibile se il mondo non è la creazione del Dio giusto e misericordioso, del Dio benedetto. La radice dell’ingiustizia e del sopruso non si trova in Dio, ma nei liberi atti delle sue creature – nel peccato. Il popolo ebraico e il suo destino sono i testimoni viventi dell’assenza di redenzione» (L. Strauss, Why We Remain Jews, cit., pp. 49; 60). – Per l’appassionata difesa straussiana dello Stato di Israele di fronte alle critiche dei conservatori americani cfr. L. Strauss, The State of Israel, in «National Review», III, 1957, n. 1, p. 23.

[9] L. Strauss, Gerusalemme e Atene, cit., p. 6.

[10] L. Strauss, Gerusalemme e Atene, cit., p. 35.

[11] Sulla critica dell’idea di «fine della storia» (elaborata da Alexandre Kojève) cfr. L. Strauss, Restatement on Xenophon’s «Hiero», in Id., What is Political Philosophy?, Glencoe, Free Press, 1959.

[12] — lettera n. 77 carteggio Strauss-Scholem.

[13] Cfr. L. Strauss, Progress or Return? The Contemporary Crisis in Western Civilization, [1952], in «Modern Judaism», I, 1981, n. 1, pp. 17-45; trad. it. Progresso o ritorno?, in L. Strauss, Gerusalemme e Atene, cit., pp. 37-85.

[14] Op. cit., p. 38. Contro Scholem, Strauss afferma la superiorità del messianismo restaurativo sul messianismo apocalittico e ribadisce la sua posizione nettamente contraria a qualsiasi ipotesi antinomistica, all’interno di una prospettiva che considera la superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva: «L’età messianica non è necessariamente migliore ma, al contrario, è peggiore rispetto alla condizione originaria di Adamo. Si deve inoltre considerare la persistenza della Legge nell’età messianica e, inoltre, considerarla insieme alla svalutazione della Legge (così come di tutte le azioni) a favore della pura contemplazione […]. Non capisco perché Lei non consideri il messianismo appartenere, fin da principio, alle radici dell’ebraismo: se all’inizio tutto era buono e tutto è stato corrotto solo dall’intervento dell’essere umano, la logica conclusione che ne discende è la necessità di una futura, divina, restitutio in integrum» (—lettere 39 e 74).

[15] L. Strauss, The City and Man, Chicago, Rand McNally, 1964, pp. 118-119, corsivo mio.

[16] Op. cit., p. 127.

[17] Cfr. L. Strauss, Die Religionskritik Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas Theologisch-politischem Traktat, Berlin, Akademie-Verlag, 1930; trad. it. La critica della religione in Spinoza. I presupposti della sua esegesi biblica, a cura di R. Caporali, Roma-Bari, Laterza, 2003. Per i primi riferimenti maimonidei di Strauss in un contesto spinoziano cfr. L. Strauss, Cohens Analyse der Bibelwissenschaft Spinozas, in «Der Jude», VIII, 1924, n. 5-6, pp. 295-314; Id., Zur Bibelwissenschaft Spinozas und seiner Vorläufer, in «Korrespondenzblatt des Vereins zur Gründung und Erhaltung einer Akademie für die Wissenschaft des Judentums», VII, 1926, pp. 1-22.

[18] Cfr. L. Strauss, Philosophie und Gesetz. Beiträge zum Verständnis Maimunis und seiner Vorläufer, Berlin, Schocken Verlag, 1935; trad. it. Filosofia e Legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, a cura di C. Altini, Firenze, Giuntina, 2003. Gli altri saggi su Maimonide pubblicati da Strauss in questi anni sono i seguenti: Maimunis Lehre von der Prophetie und ihre Quellen, in «Le Monde Oriental», XXVIII, 1934, pp. 99-139; Quelques remarques sur la science politique de Maimonide et de Farabi, in «Revue des Etudes Juives», C, 1936, pp. 1-37; Der Ort der Vorsehungslehre nach der Ansicht Maimunis, in «Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums», LXXXI, 1937, n. 1, pp. 93-105.

[19] Cfr. L. Strauss, The Literary Character of «The Guide for the Perplexed», in S.W. Baron (ed.), Essays on Maimonides, New York, Columbia University Press, 1941, pp. 37-91; poi in L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, Glencoe, The Free Press, 1952; trad. it. Il carattere letterario della «Guida dei perplessi», in L. Strauss, Scrittura e persecuzione, a cura di G. Ferrara e F. Profili, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 35-91. Per altri riferimenti straussiani a Maimonide in questo periodo cfr. Id., Book Review of M. Hyamson (ed.), Maimonides’ Mishneh Torah, in «Review of Religion», III, 1939, n. 4, pp. 448-456; Id., The Law of Reason in the «Kuzari», in «Proceedings of the American Academy for Jewish Research», XIII, 1943, pp. 47-96; poi in L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, cit.; trad. it. La legge di ragione nel «Kuzari», in L. Strauss, Scrittura e persecuzione, cit., pp. 92-136; Id., Farabi’s Plato, in S.W. Baron (ed.), Louis Ginzberg Jubilee Volume, New York, American Academy for Jewish Research, 1945, pp. 357-393; Id., How to Study Spinoza’s «Theologico-Political Treatise», in «Proceedings of the American Academy for Jewish Research», XVII, 1948, pp. 69-131; poi in L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, cit.; trad. it. Come studiare il «Trattato teologico-politico» di Spinoza, in L. Strauss, Scrittura e persecuzione, cit., pp. 137-197.

[20] Cfr. L. Strauss, Maimonides’ Statement on Political Science, in «Proceedings of the American Academy for Jewish Research», XXII, 1953, pp. 115-130; poi in Id., What is Political Philosophy?, Glencoe, Free Press, 1959.

[21] Cfr. L. Strauss, How to Begin to Study «The Guide of the Perplexed», in M. Maimonides, The Guide of the Perplexed, trans. by S. Pines, Chicago, University of Chicago Press, 1963, pp. XI-LVI; poi in L. Strauss, Liberalism Ancient and Modern, New York, Basic Books, 1968; trad. it. Avviamento allo studio della «Guida degli incerti», in L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, a cura di S. Antonelli e C. Geraci, Milano, Giuffrè, 1973, pp. 177-228.

[22] Cfr. L. Strauss, Notes on Maimonides’ «Book of Knowledge», in E.E. Urbach, R.J. Zwi Werblowsky and C. Wirszubski (eds.), Studies in Mysticism and Religion Presented to Gershom Scholem on His Seventieth Birthday, Jerusalem, Magnes Press and Hebrew University, 1967, pp. 269-283; trad. it. Note sul «Libro della conoscenza» di Maimonide, in L. Strauss, Gerusalemme e Atene, a cura di R. Esposito, Torino, Einaudi, 1998, pp. 228-243.

[23] Cfr. L. Strauss, Restatement on Xenophon’s «Hiero», in Id., What is Political Philosophy?, cit.; Id., Prospettive di una società migliore, in Id., Liberalismo antico e moderno, cit., pp. 337-338.

[24] La persistenza di questa impostazione – pur all’interno di ovvi mutamenti – è dimostrata dal fatto che interi brani di Philosophie und Gesetz sull’interpretazione della modernità (cfr. pp. 21 ss.) vengono da Strauss riprodotti in modo pressoché integrale nel testo autobiografico del 1962 pensato come introduzione alla traduzione inglese del suo testo su Spinoza del 1930: cfr. L. Strauss, Preface to the English Translation, in L. Strauss, Spinoza’s Critique of Religion, New York, Schocken Books, 1965, pp. 1-31 (i brani di Philosophie und Gesetz sono ripresi alle pp. 24 ss.); poi in L. Strauss, Liberalism Ancient and Modern, cit.; trad. it. Prefazione alla critica spinoziana della religione, in L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, cit., pp. 277-321.

[25] Cfr. L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, in «Social Research», VIII, 1941, n. 4, pp. 488-504; poi in L. Strauss, Persecution and the Art of Writing, cit.; trad. it. Scrittura e persecuzione, cit., pp. 20-34.

[26] Il primo testo straussiano in cui emerge il tema dell’esoterismo/elitismo è Cohen und Maimuni, un manoscritto non pubblicato da Strauss che contiene il testo di una sua conferenza del 1931 presso la Hochschule für die Wissenschaft des Judentums di Berlino: cfr. L. Strauss, Gesammelte Schriften. Band II: Philosophie und Gesetz, Stuttgart, Metzler, 1997, pp. 393-436. Anche in questo caso il tema centrale della discussione di Strauss non sembra consistere tanto nell’esoterismo, quanto nell’elitismo.

[27] Cfr. L. Strauss, Filosofia e Legge, cit., pp. 203, 207-210, 214, 221 ss., 230 ss., 242, 254-256, 265-266.

[28] Op. cit., p. 203.

[29] Op. cit., p. 204.

[30] Op. cit., pp. 231-232.

[31] «Se la filosofia conduce in un qualche modo alla conoscenza di una qualche cosa, e se la Legge parla di questa cosa in modo diverso rispetto alla filosofia, la parola della Legge ha bisogno di essere interpretata. Ciò significa: questa parola non può essere compresa letteralmente, bensì in senso figurato. Essa deve essere compresa in senso figurato: anche l’interpretazione è un dovere – in ogni caso, essa è un dovere solo per la “gente della dimostrazione”, per gli uomini capaci di svolgere attività filosofica, mentre a tutti gli altri è vietata. Alla “gente della dimostrazione” è dunque prescritto di tenere segreta l’interpretazione di fronte agli altri uomini. Colui che trasgredisce, come filosofo o come non filosofo, questo comandamento o questo divieto, si rende colpevole di ateismo (negazione) o almeno di eresia (innovazione). A coloro che sono capaci di svolgere attività filosofica è dunque prescritto: 1. di svolgere attività filosofica; 2. di interpretare la Legge in caso di un conflitto tra filosofia e senso letterale della Legge; 3. di tenere segreta l’interpretazione di fronte a tutti coloro che non possiedono la vocazione» (op. cit., pp. 207-208).

[32] Op. cit., p. 227.

[33] «L’uomo è per natura un animale politico e per natura, a differenza degli altri esseri viventi, ha bisogno della socializzazione; d’altra parte, non esiste in nessun’altra specie una così grande diversità, addirittura opposizione, tra i caratteri degli individui come esiste nella specie umana. Poiché allora la socializzazione da nessun’altra parte è così necessaria e così difficile come negli uomini, allora essi hanno bisogno di una guida che regoli le azioni degli individui, in modo tale che al posto dell’opposizione naturale subentri una concordanza fondata su un ordinamento stabilito. La sussistenza del genere umano dipende allora dal fatto che esistano individui che possiedono la capacità di condurre gli uomini: per questo la saggezza divina, che voleva la stabilità del genere umano, doveva fornire questa capacità. Esistono due modi di conduzione: la legislazione e il governo. Il legislatore stabilisce le norme per le azioni, il governante obbliga alla loro osservanza: dato che la guida governativa presuppone sempre la guida legislativa, il modo più originario di conduzione è la legislazione. La legislazione può avere come scopo la perfezione o materiale o spirituale dell’uomo, o piuttosto – poiché la realizzazione della perfezione superiore ha come presupposto necessario la realizzazione della perfezione inferiore – la legislazione può limitarsi alla determinazione dei mezzi che servono alla perfezione materiale, del corpo, oppure può aspirare alla perfezione materiale al servizio della perfezione spirituale. La perfezione spirituale o, più precisamente, la perfezione dell’intelletto è la perfezione propria dell’uomo. La legge che è indirizzata alla perfezione propria dell’uomo è una Legge divina, e il suo annunciatore è un profeta. Il profeta è dunque colui che proclama una Legge che è orientata alla perfezione propria dell’uomo. Ma la Legge mira a rendere possibile la vita collettiva. Perciò il profeta è il fondatore di una società che è orientata alla perfezione propria dell’uomo» (op. cit., pp. 256-258).

[34] Op. cit., pp. 271-273.

[35] L. Strauss, Natural Right and History, Chicago, University of Chicago Press, 1953, p. 83; trad. it. Diritto naturale e storia, Venezia, Neri Pozza, 1957, pp. 93-94, traduzione modificata, corsivo mio.

[36] «La filosofia può essere intesa in senso lato e in senso stretto. Se intesa in senso lato, la filosofia coincide con quelli che oggi vengono definiti “interessi intellettuali”. Se intesa in senso stretto, significa ricerca della verità sugli argomenti di maggior importanza, oppure ricerca della verità su molti problemi, oppure ricerca della verità sul tutto. Quando si paragona la politica alla filosofia intesa in senso stretto, si comprende che la filosofia ha una dignità più alta di quella della politica. Politica è il perseguimento di certi fini; politica corretta è il corretto perseguimento di fini corretti. La distinzione chiara e responsabile tra fini che sono corretti e fini che non lo sono è, in un certo modo, presupposta dalla politica. Essa sicuramente trascende la politica» (L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, cit., p. 20).

[37]L. Strauss, The City and Man, cit., p. 241.

[38] L. Strauss, On a New Interpretation of Plato’s Political Philosophy, cit., pp. 342-343.

[39] Sull’essenziale differenza tra filosofia e politica Strauss non esita a esprimersi esplicitamente: «Vi è una sproporzione fondamentale tra filosofia e città. Nelle cose politiche è saggia regola non disturbare i cani che dormono, preferire ciò che è consolidato a ciò che non lo è, riconoscere il diritto del primo occupante. La filosofia si regge o cade per la sua intransigente noncuranza di questa regola e qualunque cosa la ricordi. Essa può quindi vivere solo fianco a fianco con la città» (L. Strauss, Liberalismo antico e moderno, cit., p. 22).

 

di Carlo Altini, Fondazione Collegio San Carlo di Modena

Relazione per il convegno “Leo Strauss. Religione e Liberalismo” organizzato dalla fondazione Magna Carta il 13 e 13 maggio 2011