In un mondo perfetto la politica estera di un paese democratico occidentale dovrebbe vedere la perfetta corrispondenza tra valori e interessi. Ma il mondo che abbiamo è lungi dall’essere perfetto, e anzi è un luogo turbolento e pericoloso. E, come osservava Angelo Panebianco in un recente editoriale sul Corriere della Sera, “in politica internazionale il divario tra ciò che è giusto e ciò che utile è la regola”. Una buona politica estera dovrebbe allora prendere a sua misura la consapevolezza dei propri valori e dei propri interessi e saperli di volta in volta combinare nel migliore dei modi. Sapendo che solo molto raramente essi potranno sovrapporsi, ma senza mai perdere di vista né gli uni né gli altri.
In un paese democratico i valori debbono essere maneggiati con prudenza e senza retorica, ma anche difesi con decisione perché attengono alla natura stessa del paese che li incarna, alla sua identità sul proscenio delle nazioni. Allo stesso modo gli interessi vanno agiti senza imbarazzi o ipocrisie perché sono legittimati dal consenso democratico e corrispondono agli interessi di tutti i cittadini di quella comunità, non a quelli di una sola parte, di un’etnia, o di un clan.
Durante la lunga fase della guerra fredda la miscela di valori e interessi delle democrazie europee era congelata: i due elementi facevano blocco in nome della difesa del mondo libero. Questo non vuol dire che durante quegli anni non si siano compiuti, anche sul versante dei paesi occidentali, abusi, tradimenti, doppi giochi, ma la scelta di campo fondamentale era fatta e tutto il resto poteva e doveva seguire, senza l’obbligo di farsi troppe domande.
Con il disgelo dell’89 tutto è diventato insieme più difficile e più trasparente: valori e interessi si sono liquefatti e rimescolati in molti modi diversi e soprattutto alla luce del sole: sottoposti cioè ad un vaglio ben più attento ed esigente da parte delle opinioni pubbliche mondiali.
La storia non si è affatto fermata, anzi si è rimessa in moto in maniera vorticosa; lo stesso è accaduto alla politica estera in tutti i paesi democratici che è rapidamente uscita dalla dimensione dello stallo per entrare in quella della competizione, sia tra gli alleati di un tempo che tra i vecchi e nuovi avversari. Si sono così dovuti trovare nuovi crismi, nuove ragioni d’alleanza, nuove scelte per nuovi problemi. Questa fase non si è ancora conclusa, per questo le cancellerie occidentali hanno dato, nel frangente delle cosiddette rivoluzioni arabe, tutte, nessuna esclusa, l’impressione di non sapere quale modello adottare, quale miscela di valori e interessi comporre.
Tutto ciò può rappresentare un problema nell’immediato, perché gli eventi incalzano: la loro origine non era prevista e la loro direzione non è prevedibile. Nel senso che in Medio Oriente la situazione può evolvere ancora in tanti modi tra loro assai differenti. Si potrebbero muovere passi importanti verso la democrazia. Ma si potrebbe anche verificare un’involuzione con il prevalere delle correnti più estreme dell’integralismo religioso. Quel che è certo è che nulla sarà come prima.
Per questo gli avvenimenti di queste settimane rappresentano anche grande occasione per avviare una riconsiderazione della nostra politica estera di cui da tempo si sentiva la necessità. La posizione geo-politica del nostro Paese, gli interessi che abbiamo nell’area, l’immediatezza degli effetti provocati da una prolungata destabilizzazione, convergono nel richiedere una revisione complessiva delle linee di governo su un fronte molto vasto: dalle relazioni transatlantiche ai rapporti con l’Unione Europea; dalla salvaguardia della sicurezza, alle strategie d’immigrazione e integrazione, fino a investire l’ambito dell’economia e della politica energetica.
La politica estera italiana dalla caduta del Muro ad oggi è stata segnata nelle sue linee essenziali dal ruolo di Silvio Berlusconi e dal suo particolare approccio, con tutti i suoi meriti e i suoi limiti. Sul piano della forma Berlusconi ha impresso un elemento carismatico anche alle relazioni internazionali: la sua straordinaria capacità di tessere rapporti personali e di fiducia con i leader di tutto il mondo è stato un fattore che ha consentito all’Italia di contare spesso più del suo peso specifico nel contesto delle nazioni. Per contro questo non si può considerare un’acquisizione sistemica della politica estera italiana e come altri elementi del “berlusconismo”, è un fattore va in qualche modo istituzionalizzato e fin dove possibile “spersonalizzato”.
Sul versante dei contenuti, Berlusconi è riuscito, grazie ad una miscela di intuito e di comprensione non ideologica dei fatti, oltre che ad un più ampio spazio di manovra, a operare una sorta di sintesi tra le linee di fondo della politica estera italiana che va dal ’48 all’ ’89. Atlantismo, europeismo, politiche arabo-mediterranee, ostpolitik verso Mosca, sono state, durante la prima Repubblica, le bussole che hanno guidato di volta in volta personalità come De Gasperi, Moro, Fanfani, Gronchi, Andreotti, Craxi.
Berlusconi è stato in grado di mettere tutte queste politiche a fattor comune, a spazzare via la polvere accumulatasi negli anni e ad aggiungervi del suo. La politica estera degli ultimi quindici anni è stata tutto questo: un rapporto stretto con gli Usa sui valori e una sana competizione sugli interessi, senza fantasie contrappesistiche; un europeismo più esigente e meno di maniera radicato nelle legittimità nazionali ma consapevole delle possibilità sinergiche dell’Unione; aperture “revisionistiche” verso la Russia e il mondo arabo che certo non sarebbero state considerate legittime in vigenza di Guerra Fredda, ma che assumevano un rilievo importante sotto la voce “interessi” – pure con una significativa torsione dei “valori”- nel mondo globalizzato. A cui si è aggiunto una fortissimo elemento filo-israeliano, questo importante sotto la voce dei valori con magari qualche rinuncia in fatto di interessi.
E’ una ricetta complicata, venuta fuori dalle capacità di uno chef d’eccezione, sull’ispirazione del momento, con gli ingredienti a disposizione e senza un manuale di cucina pronto all’uso. Anche in questo caso occorre che questa ricetta trovi una sua formulazione sistemica e “ripetibile”, una dimensione strutturata nel patrimonio programmatico e di governo del centro destra italiano.
Dovrebbe essere chiaro a questo punto quanto sia importante ciò che accade in queste settimane nel Medioriente e in Nord Africa anche come banco di prova per l’Italia di saper esprimere una politica estera riconoscibile, autorevole, equilibrata sull’asse valori-interessi. E’ l’occasione per prendere il meglio di ciò che ha prodotto il berlusconismo su questo fronte, aggiornarlo sulla base di eventi destinati a cambiare lo scenario complessivo per anni a venire e farne una guida per qualsiasi azione futura.
Il “regime change” in Africa. Difficile trovare una vicenda di eguale portata che sfidi così profondamente quell’equilibrio tra valori e interessi di si parlava all’inizio. Ci si para innanzi, con le rivoluzioni arabe, un terreno inesplorato in cui pure siamo costretti ad avventurarci. Non avevamo previsto che tutto ciò potesse accadere, non abbiamo strumenti di analisi pronti, non ci sono canali aperti e affidabili con i nuovi poteri che si affacciano in quei paesi. Come non mai dunque abbiamo solo i principi di base a poterci guidare in situazioni anche molto diverse tra loro.
E’ certo che l’Italia, l’Europa, l’Occidente non possono che accogliere con soddisfazione e sollievo una spinta che appare spontanea, non eterodiretta e non ancora inquinata da forze fondamentaliste, di intere popolazioni verso una vita migliore, più degna, più giusta e più democratica.
L’oltraggio di veder accumulare enormi ricchezze attraverso il controllo autocratico dello Stato e la dilagante corruzione, al cospetto di una crescente povertà e disperazione dei cittadini di quei paesi, ha raggiunto il livello di guardia ed è esploso come un contagio. La novità è che questa volta la rabbia non ha trovato sfogo lungo i canali sapientemente predisposti dai dittatori locali: l’odio verso l’Occidente e Israele, le teorie cospiratorie, e tutto l’armamentario di risentimento che ha per anni alimentato la “piazza araba”. Questa volta gli argini si sono rotti e quell’ondata di odio e di rabbia si è riversata tutta intera contro quegli stessi dittatori.
La piazza ha trovato parole d’ordine nuove: libertà, democrazia, dignità, parole che i regimi non potevano cavalcare e neppure comprendere e dalle quasi sono stati travolti (o stanno per). Non sostenere, incoraggiare, festeggiare questa novità equivale a tradire noi stessi al di là del lecito, significherebbe rendere la nostra secolare predicazione democratica e sui diritti umani nel mondo come carta straccia. Non ci sono interessi abbastanza grandi per l’Occidente da giustificare un atteggiamento diverso da questo.
Ma questo non vuol dire che gli interessi dell’Occidente siano destinati ad essere messi da parte: se analizziamo le cose con maggiore attenzione e lucidità forse ci potremo rendere conto che un equilibrio è ancora possibile e forse migliore di quello che ci ha tenuti legati ai regimi dell’area fino a qualche settimana fa.
Prendiamo il caso della Libia, quello maggiormente in bilico e che ci riguarda più da vicino. La stabilità del regime di Gheddafi ha arriso all’Italia, portando il paese ad essere il primo partner commerciale della Libia con un interscambio di circa 17 miliardi di dollari, specie nel settore strategico dell’energia. In più i buoni rapporti con il Rais sono serviti senza ombra di dubbio a chiudere una delle principali frontiere di emigrazione di tutto il nord-Africa. Una stabilità dunque che ha pagato ampiamente sul piano degli interessi e che abbiamo pagato (come tanti altri) su quello dei valori. Oggi è possibile immaginare un riequilibrio tra due corni del dilemma. Dei possibili esiti della guerra civile libica: il caos di una prolungata guerra civile, la riconquista da parte di Gheddafi, la vittoria dei ribelli e l’insediamento di un nuovo governo, non c’è dubbio che il terzo è quello che più si attaglia alla tutela insieme dei nostri interessi e valori.
Il tema è dunque come favorire questo esito e al contrario scongiurare gli altri. Per far questo non basta che l’Italia si accomodi diligentemente sulla linea dettata dall’Europa o dagli organismi internazionali, semmai ce ne fosse una. Fino ad oggi, al di là delle molte dichiarazioni ondivaghe, dettate forse dalla prudenza e dalla sorpresa, questo è sembrata la scelta italiana: allineati e coperti.
Ma sulla ribalta internazionale se si vuole avere un ruolo (e un premio) bisogna guadagnarselo venendo allo scoperto. L’interesse nazionale italiano è il più cospicuo e quindi il più esposto nello scenario libico: se vogliamo essere credibili con i nostri alleati e in futuro con il nuovo governo di quel paese dobbiamo esprimere un senso di leadership. Non è un caso che gli inglesi che da sempre ci contendono il primato degli interessi in quel paese, siano da tempo in prima linea. Ci sono consiglieri militari inglesi in Cirenaica e tecnici petroliferi della Bp in giro per pozzi già sotto il controllo dei ribelli. Per non parlare del premier, Cameron che ha già il piede sull’acceleratore dei suoi 400 Eurocaccia typhoon, pronti a partire in caso di no-fly zone. I francesi , con il nuovo ministro degli Esteri, Alain Juppè, non hanno perso tempo e con una fuga in avanti rispetto a tutto il resto d’Europa ha riconosciuto formalmente il Consiglio dell’opposizione libica. L’Italia ha in corso iniziative di questo genere o è pronta a recuperare il tempo perduto? Ci piacerebbe credere di sì e che il tutto si stia svolgendo per canali riservati e protetti, ma ne dubitiamo. Mandare pacchi di pasta e tende da campo è importante e siamo anche capaci di farlo con una certa efficienza ma se abbiamo capito dove risiede il nostro interesse nazionale e siamo convinti dei valori da proteggere dobbiamo alzare la posta. L’interesse degli altri è scalzare il primato italiano nei rapporti economici con la Libia – anceh con giochi non limpidissimi – , il nostro è difenderlo.
Vale in Libia e per certi versi vale in Egitto, in Tunisia e ovunque si profili un regime-change che cambi lo status quo al quale ci siamo sino ad oggi adattati. Ovunque in questi paesi è possibile salvaguardare i nostri interessi facendo il possibile per instaurare governi più liberali e democratici, basta sapere che questo non accadrà senza il nostro massimo impegno e determinazione, perché le forze che vorrebbero volgere al peggio quanto sta accadendo in Medio Oriente sono da tempo all’opera e in vantaggio.
Immigrazione. Una nuova generazione di paesi mediorientali e nordafricani più liberi e democratici può rappresentare una rivoluzione anche culturale nel mondo in cui abbiamo concepito fino ad oggi il tema dell’immigrazione. Gli esodi a cui abbiamo assistito in questi anni erano sospinti dalla disperazione, dall’impossibilità di immaginare un futuro nel proprio paese, dalla rabbia di vivere in regimi corrotti e ingiusti, dall’assoluta mancanza di lavoro e sostentamento. A meno di non vivere all’ombra delle dittature con il minino necessario per una sopravvivenza assistita e la paura di perderla. Tutto questo potrebbe cambiare per il meglio. I nuovi cittadini egiziani, tunisini, libici – se gli esiti delle rivolte saranno quelli sperati – avranno un paesi ricostruire, lavori da imparare, vite da reinventare. Avranno bisogno di istruzione e formazione ben più che campi di pomodori da raccogliere. E sul nostro versante del mondo, nel tempo, potremmo cominciare a immaginare un’immigrazione non più subita come una piaga biblica ma scelta e governata secondo i nostri interessi…. e in nostri valori.
Nel frattempo non si può abbassare del tutto la guardia sulla nuova ondata migratoria verso l’Italia. Quelli che arrivano non sono profughi in fuga da guerre o persecuzioni o almeno non ancora. Si tratta di gente che aspettava magari da mesi di approdare sulle nostre spiagge e ora sta approfittando di una falla nei controlli nelle zone di partenza. Polizia e pattugliamenti sulle spiagge tunisine in particolare sono venuti meno, e anche dalla Libia ora si fa passare chiunque, così i trafficanti di uomini ora fanno affari d’oro. Ma occorre fare molta attenzione perche in queste fasi caotiche rischia di arrivarci in casa il peggio: evasi dalle carceri senza più sorveglianza, mercenari in fuga, manovalanza dei vari regimi che teme vendette. L’Europa predica e si volta dall’altra parte in un modo sempre meno tollerabile e pochi si rendono conto che i fuggiaschi arrivano da noi perchè in Grecia o in Spagna gli sparano. Invece in Italia, pure tra mille polemiche e con il governo accusato di disumanità verso i “migranti” (ma tanto a Berlusconi si può ormai infliggere di tutto) si sta facendo l’impossibile per accogliere in modo degno quelli che arrivano, e senza l’aiuto di nessuno. Questo non può continuare: la situazione d’emergenza giustifica invece un impegno più deciso della nostra marina militare per spingere più a sud la linea di demarcazione, quella oltre la quale si viene respinti in dietro e non rimorchiati in Italia. Se è il caso quella linea va spostata anche nelle acque territoriali di quei paesi, almeno come monito, perchè sia chiaro che non si sta facendo passare chiunque e comunque. Bisogna che le nostre televisoni, quelle stesse che vengono captate su tutte le coste del Nord Africa mostrino in modo convincente questo blocco navale e faccia capire a chi intende partire che il mare mosso non è l’unico ostacolo. Occorre trasmette sui canali in arabo disponibili della Rai o delle agenzie di stampa che in Italia non c’è possibilità di rimanere, che non c’è lavoro e che non ci sono sanatorie in vista. Verà il momento di riaprire i canali con progetti e idee nuove. Ma non è ora.