Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti la modifica della parte seconda della Costituzione, l’audizione di Giovanni Pitruzzella, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo. Siamo veramente costernati per il ritardo, ma non abbiamo potuto fare altrimenti; siamo appena all’inizio della nostra indagine conoscitiva, le domande sono molte e numerosi gli argomenti da approfondire. Le saremmo grati qualora ci potesse consegnare anche una relazione scritta, che apprezzeremmo senza alcun dubbio.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo. Signor presidente, sarà mia cura trasmettere una copia del lavoro svolto agli uffici di questa Commissione.
PRESIDENTE. La ringraziamo in anticipo. Se fosse possibile – ciò formerà comunque oggetto di valutazione dell’ufficio di presidenza – sarebbe nostra intenzione riunire in un unico volume tutti gli interventi dei giuristi che abbiamo consultato. Do la parola al professor Pitruzzella, che svolgerà una relazione sulla forma di Governo e sul Senato federale.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo. Signor presidente, ringrazio voi tutti per avermi invitato ad esprimere qualche opinione in una sede così autorevole. Forma di Governo e Senato federale sono strettamente connessi, considerato che composizione e funzioni del secondo sono capaci di incidere profondamente sul funzionamento complessivo del sistema di Governo in corso di definizione. Procedendo con enorme rapidità, indicherei, innanzitutto, quali siano gli obiettivi che si intende perseguire e le tecniche cui ricorrere per farlo, verificando se il modo in cui certi strumenti sono stati utilizzati sia o meno congruente al raggiungimento dei fini individuati.
Con riguardo agli obiettivi della riforma – su cui mi pare vi fosse certa condivisione da parte di forze politiche diverse – , in primo luogo, si intenderebbe consolidare il passaggio alla democrazia ed al parlamentarismo maggioritari, ovvero un sistema in cui il Governo è legittimato dagli elettori, esiste una distinzione fra maggioranza e opposizione ed una alternanza ciclica tra queste nelle funzioni di governo. In secondo luogo, si vorrebbe rendere la struttura dello Stato coerente con un regionalismo forte o addirittura con il federalismo e quindi rafforzare il collegamento tra articolazione territoriale e Parlamento. Non solo, nello spirito della riforma, tale rafforzamento sarebbe anche necessario per ridurre la conflittualità tra Stato e regioni. Sappiamo tutti, infatti, che la riforma del Titolo V ha innescato una grande conflittualità (la quale, non dimentichiamolo, è fattore di grave incertezza del diritto, a sua volta nociva per lo sviluppo economico ed i calcoli delle imprese). Il terzo obiettivo è quello di rendere più funzionale il sistema, secondo i concetti di governabilità, efficienza e rapidità decisionale.
Rispetto a questi fini, le tecniche da utilizzare sarebbero numerose. Certamente, non si può eludere che, a livello costituzionale, contino i fatti normativi, le convenzioni. In altre parole, si sarebbe potuto ottenere l’evoluzione verso la democrazia ed il parlamentarismo maggioritari anche con regole convenzionali; abbiamo anche rilevato trasformazioni che, nel linguaggio giornalistico e politico, sono state definite « passaggio alla seconda Repubblica » (espressione sulla cui correttezza, dal punto di vista giuridico-costituzionale, non mi pronuncio) e ciò è avvenuto senza modifiche formali. Probabilmente, nel testo, si sarebbe potuto rafforzare questo passaggio senza bisogno di intervenire sulle norme costituzionali.
Il fatto che in Italia si avverta, però, tale esigenza, risponde alla circostanza per cui le vecchie convenzioni si sono rotte, basti pensare a quanto è avvenuto dopo la crisi del primo Governo Berlusconi, a proposito del potere di scioglimento del Parlamento, oppure a ciò che si è recentemente verificato con riferimento alla titolarità del potere di grazia. Da tutti questi casi, in cui non si sono create nuove norme, è derivata la necessità di consolidare le trasformazioni occorse in un testo scritto, appunto, riformatore. È in ogni caso opportuno osservare che la riforma della quale si discute avviene in un contesto in cui a muoversi sono degli attori politici consolidati.
Non siamo, cioè, in una situazione storico-politica in cui sia possibile esercitare un potere costituente ed i soggetti politici risultino caratterizzati dalla non conoscenza delle conseguenze delle loro attività; al contrario, ognuno di essi può calcolare quali vantaggi e svantaggi – a livello partitico o personale – otterrà dalle riforme. È chiaro che da ciò derivino, dunque, taluni limiti allo stesso processo riformatore.
Detto ciò, andrò ad esaminare come le proposte presentate e approvate in prima lettura al Senato siano congruenti rispetto agli obiettivi, evidenziando ciò che è migliorabile e ciò che, probabilmente, non lo è – pur essendo accademicamente discutibile – in ragione di quei vincoli politici di cui parlavamo.
A questo punto, ritengo che il punto centrale da considerare sia, in primo luogo, la questione del Governo del Premier. Ricordo che riguardo a questo tema, in passato, si proponeva addirittura l’elezione separata del Presidente del Consiglio rispetto alla sua maggioranza.
Quanto alle posizioni attuali, sulla evoluzione e adozione di una forma di Governo di questo tipo, detta anche neoparlamentare, mi sembra di ricordare che, fino poco tempo fa, esistesse un largo consenso da parte di forze politiche diverse. Con particolare riferimento, poi, al disegno di legge approvato dal Senato, tra le varie ipotesi di Governo neoparlamentare si è preferito adottare un modello che è stato definito «debole». In questo testo, esiste un collegamento del candidato Premier ai candidati nei collegi, ciò che significa depotenziare ipotetici rischi plebiscitari della riforma. Tuttavia, parlare di rischi di autoritarismo, di plebiscitarismo, alla luce del testo approvato dal Senato, a mio parere, è francamente eccessivo. Se da una parte già esiste un sistema in cui l’elettore vota scegliendo, nella sostanza, il primo ministro, dall’altra, dobbiamo tener conto di come questa elezione si inserisca in un meccanismo in cui vengono mantenuti i tradizionali istituti di garanzia (Capo dello Stato, Corte costituzionale) e dove la divisione orizzontale del potere è affiancata, in modo forte, ad una divisione verticale, determinata dal federalismo. Le regioni, i comuni, le province, le città metropolitane rappresentano, infatti, i nuovi centri di potere in cui viene ad essere ripartita la sovranità, fungendo da limite nei confronti di un presidente del Consiglio eletto. Alla luce di ciò, parlare del rischio di derive autoritarie o plebiscitarie, sembra strumentale.
Altrettanto mi sembra insostenibile – per contrastare la riforma – sostenere, come invece fa Giovanni Sartori, che, là dove è stata introdotta una forma di Governo neoparlamentare, cioè Israele, le cose non abbiano funzionato. A me pare che i critici della forma di Governo del Premier cadano in contraddizione, perché, da una parte l’accusano di autoritarismo, dall’altra, facendo riferimento ad Israele, ne mettono in evidenza l’ingovernabilità e la difficoltà di assumere delle decisioni.
La verità è, invece, che al Governo di tipo israeliano, che nel 2001 è stato riformato, nessuno mai ha fatto riferimento; né questa riforma richiama in alcun modo quel modello, perché, appunto, il premierato, introdotto nel nostro sistema, verrebbe comunque collegato alla presenza di una sicura maggioranza in Parlamento.
Il problema più controverso riguarda, piuttosto, come voi ben sapete, il potere di scioglimento, a cui le critiche sono particolarmente indirizzate. È chiaro che, in quasi tutti i parlamentarismi maggioritari, questo potere spetti al Governo, come avviene per l’esperienza britannica. Qualcuno sostiene che in Inghilterra nei primi anni del secolo ventesimo il potere è stato del Premier, ma che tale strumento non sia stato usato contro la propria maggioranza riottosa ma per stabilire la data più propizia per svolgere le elezioni. In ogni caso, si è osservato come vi sia stata sempre la possibilità di cambiare Primo ministro, nel corso di legislatura. Il caso citato oltre modo, ovviamente, è sempre quello di Margaret Thatcher nel 1990.
In realtà, la soluzione prospettata dalla riforma non contraddice tutti questi elementi; infatti, nel testo del disegno di legge è contenuta una previsione secondo cui, anche allorché il presidente del Consiglio richieda lo scioglimento, il Parlamento – o meglio la Camera «politica» – possa presentare una mozione, proveniente dagli stessi deputati della maggioranza usciti dalle elezioni, con cui sostituire il Premier con un altro. Si tratta, dunque, di una soluzione coerente con quella britannica; d’altra parte, bisogna osservare come anche i teorici dello scioglimento inglese dichiarino che questo possa essere utilizzato per risolvere problemi di conflittualità interna ai partiti.
Ricordo come un libro di Mauro Volpi, del 1984, quando ancora in Italia non si ipotizzava nemmeno questo tipo di riforma, sosteneva che esistono nell’esperienza dei regimi parlamentari casi di scioglimento governativo, molti dei quali – derivando da conflitti interni alla maggioranza – sono utilizzati come strumento, da parte del Premier, contro alcune componenti particolarmente turbolente della propria coalizione.
Riguardo al Senato federale – mentre esprimo un giudizio tendenzialmente positivo sulla soluzione per il Governo del Premier – la valutazione si fa più articolata.
Il Senato federale è necessario in un assetto ispirato all’idea di garantire effettivo spazio di intervento alle regioni, perché le materie non vengano divise e separate «a colpi di accetta».
L’illusione dei riformatori del Titolo V, presente nel nostro paese, è quella secondo cui, per rendere il sistema più federale, basti sottrarre una competenza al centro e trasferirla verso le regioni, idea a cui è, ovviamente, sottesa la convinzione che le materie possano essere separate con nettezza.
In realtà, come dimostra l’esplosione del contenzioso costituzionale, le materie sono indefinibili nei loro confini e sempre più sovrapposte tra di loro. Ciò anche perché noi dobbiamo risolvere per intero i problemi collettivi.
L’impossibilità di tracciare nette linee di confine significa che ciò che spetta allo Stato e ciò che spetta alla regione va definito di volta in volta sulla base dell’accordo. Ecco, quindi, la necessità del Senato federale, il luogo dove lo Stato e la regione si mettono d’accordo su quello che può fare l’uno e quello che può fare altro. Tutto ciò è coerente con la funzione del principio di sussidiarietà, che non è equivalente al decentramento, ma funziona come un ascensore: talora porta le cose verso l’alto, talora verso il basso, a seconda di come un problema può essere trattato avendo a riferimento determinate condizioni storico-politiche.
Ciò, significa che il Senato deve essere un luogo di composizione, di mediazione tra interessi statali e regionali. In ogni caso, questo Senato è in grado di fare tutto questo? Io ho dei dubbi, perché non vi è la presenza dei presidenti delle regioni, coloro che hanno la titolarità del potere di proporre l’impugnativa avverso le leggi dello Stato.
Tra l’altro, questo Senato, in realtà, ha una composizione politica diversa da quella della Camera dei deputati, perché viene eletto in tempi diversi – contestualmente all’elezione dei consigli regionali – e perché potrebbe anche essere eletto sulla base di un sistema elettorale anch’esso differente da quello attraverso cui si elegge la Camera.
In presenza di maggioranze politiche diverse nei due rami del Parlamento, vi è un grave rischio di stallo decisionale; ciò anche perché le competenze attribuite al Senato da questa proposta sono larghissime: non soltanto è molto ampio l’elenco delle leggi bicamerali, ma tutte le leggi che riguardano la competenza concorrente sono approvate in via esclusiva dal Senato. Da ciò consegue il rischio che un Senato con maggioranze diverse da quelle presenti alla Camera dei deputati introduca grandi elementi di stallo, di ostruzionismo e di incapacità decisionale; quindi, potremmo non raggiungere l’obiettivo della funzionalità decisionale e dell’efficienza.
Detto questo, certamente mi pare utopistica, fuori dalla realtà, l’idea di passare ad un Senato di tipo tedesco, nell’ambito del quale vi sono i rappresentanti dei governi locali. Ciò, infatti non tiene conto della nostra realtà, che prevede un Senato funzionante con un pezzo di classe politica ben presente e che ha anche un suo importante patrimonio di esperienza, di preparazione, di storia.
Quindi, da una parte bisogna tener presente la possibilità di un’integrazione con i presidenti delle regioni e dall’altra incidere sul versante delle competenze, probabilmente riducendo il numero delle leggi bicamerali – veramente enorme – e prevedendo altri due elementi ai quali attribuisco un’enorme importanza.
In primo luogo, se si vuole mantenere questo assetto – in cui il rapporto di fiducia è solo con la Camera dei deputati – bisognerebbe prevedere per le leggi necessarie per l’attuazione del programma di Governo una preminenza della decisione della Camera dei deputati. Ciò vuol dire che, se vi è un blocco o un orientamento contrario a quelle leggi, decide – magari a maggioranza qualificata – la Camera dei deputati.
Per quanto riguarda la seconda questione – anch’essa di particolare importanza -, poc’anzi avevamo detto che il problema più serio dei complicati assetti federali è che le materie non si possono dividere «con l’accetta»; non basta scriverle in Costituzione spostandole da un lato o dall’altro per far sì che il sistema funzioni.
Se questo è vero, è pur vero che i sistemi federali contengono delle clausole di flessibilità, come la legge fondamentale tedesca. Tali clausole di flessibilità consentono al Parlamento di intervenire anche in materia di competenze regionali, allorché sono in gioco i valori che riguardano l’unità giuridica ed economica dello Stato.
Infine, vedo con preoccupazione il coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella risoluzione delle questioni di interesse nazionale. Ciò perché la decisione su quello che deve considerarsi interesse nazionale è massimamente politica; infatti, non si può stabilire a priori cosa è l’interesse nazionale.
Il testo di riforma, a mio parere opportunamente, sceglie un presidente organo di garanzia, non un presidente governante. Se vogliamo essere coerenti con questa posizione del Capo dello Stato, dobbiamo escluderlo dalle decisioni massimamente politiche come, ad esempio, quella che stabilisce cosa è l’interesse nazionale.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi.
MARCO BOATO. Signor presidente, sia noi che lei siamo po’ affaticati, quindi rivolgerò al professor Pitruzzella domande abbastanza rapide.
Molte delle considerazioni relative alla seconda parte della sua relazione – da me condivise – sono coerenti e razionali rispetto alle ipotesi generali che lei ha prospettato all’inizio riguardo gli obiettivi. Da questo punto di vista le chiedo qual è il suo giudizio (critico o di riserva) rispetto al secondo e al terzo obiettivo che lei aveva indicato nella prima parte della sua relazione. Il primo obiettivo era quello del consolidamento relativo al passaggio alla democrazia maggioritaria, alla legittimazione del Governo da parte degli elettori, alla separazione netta tra maggioranza e opposizione e al principio dell’alternanza; fra l’altro, obiettivi che personalmente condivido.
Invece, il secondo e il terzo obiettivo erano il rafforzamento del collegamento con i territori – anche per ridurre il conflitto tra Stato e regioni – e la funzionalità del sistema: governabilità, efficienza e rapidità istituzionale.
Da quello che emerge, a me pare – anche avendo a riferimento la sua relazione – che, paradossalmente, ci possiamo trovare di fronte non a un Governo plebiscitario, ma ad un Governo depotenziato da una correlazione con un Senato che non può essere sciolto, che non ha un rapporto di fiducia con il Governo, che viene eletto attraverso un diverso sistema elettorale – che può originare una maggioranza diversa da quella della Camera dei deputati – e che ha dei poteri enormi.
In base a tutto ciò, a me pare che il primo obiettivo forse può essere raggiunto, ma il secondo e il terzo risultano pesantemente compromessi dal testo così com’è stato pensato.
Inoltre, professore, nella prima parte del suo intervento (dopo aver delineato gli obiettivi) – anche se in modo garbatissimo e diplomatico – ha polemizzato con quelle forze politiche che, avendo sostenuto in passato il modello Westminster, adesso invece ne sono preoccupate. Io sono fra coloro che hanno sostenuto questa ipotesi e non sono pentiti, quindi tutto ciò che possiamo fare in sede di riforma costituzionale per rendere coerente e conseguente quel modello, personalmente, io lo condivido.
In ogni caso, mi chiedo se, avendo a riferimento il quadro complessivo del disegno di legge approvato al Senato, venga fuori un modello di questo genere. Infatti, da una parte abbiamo questo strapotere del Senato, dall’altra l’articolo 28 del disegno di legge costituzionale – riguardante l’articolo 94 della Costituzione – afferma che il Primo ministro può chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati.
A me pare che questo sia uno di quegli elementi che – pur avendo a riferimento il modello Westminster, un rafforzamento del Primo ministro, il superamento del Presidente del Consiglio visto come primus inter pares – in realtà porta invece ad un Governo sottoposto ad un Senato potenzialmente ingovernabile. Quindi, al riguardo le chiedo se lei ritiene opportuno reinserire un’ipotesi – sia pure di scuola – di scioglimento del Senato. Infatti, da una parte abbiamo la Camera totalmente subalterna e dall’altro un Senato totalmente ingovernabile, due elementi che squilibrano totalmente il sistema.
KARL ZELLER. Signor presidente, il professor Pitruzzella ha giustamente evidenziato che le competenze tra Stato e regioni non possono essere separate nettamente. In passato vi era l’interesse nazionale – in seguito cancellato dall’ultima riforma costituzionale (in Germania vi è l’unità economica o giuridica per dirimere questo conflitto) – mentre oggi in Costituzione è presente il concetto della sussidiarietà. La Corte costituzionale nelle recenti pronunce ha fortemente criticato l’interesse nazionale che vigeva in precedenza; quindi per dirimere questo tipo di conflitti basta il concetto di sussidiarietà.
Lei ritiene che sia necessario introdurre altri principi, tipo l’interesse nazionale o il concetto di unità economica e giuridica, se oggi la Corte costituzionale non ne ha sentito la mancanza?
La seconda domanda riguarda la procedura di revisione degli statuti speciali che, a mio avviso, nel nuovo testo approvato dal Senato, appare abbastanza debole. Cosa proporrebbe per rafforzare il carattere pattizio del rapporto tra lo Stato e le regioni a statuto speciale?
PRESIDENTE. Do la parola al professor Pitruzzella per la replica.
GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo. Premettendo che sono in sintonia con quanto rilevato dall’onorevole Boato, ritengo che, tra gli obiettivi della riforma, sia abbastanza centrato quello volto a consolidare il passaggio verso un parlamentarismo maggioritario.
Tuttavia, se il Governo ha di fronte un Parlamento di cui una delle due Camere è svincolata dal rapporto di fiducia, ha una maggioranza politica diversa e non è sottoposta neppure a strumenti di pressione come la questione di fiducia, corriamo il rischio di avere un assetto dualistico, nel quale, in realtà, il Governo ha difficoltà nella realizzazione legislativa del suo programma. Il rischio, quindi, come sta già avvenendo a livello regionale, sarà che, per governare, si ricorrerà a circuiti decisionali il cui esito finale, il più delle volte, non sarà certamente una legge ma regolamenti o, addirittura, atti non normativi.
Sempre con riferimento agli obiettivi, mi permetto di osservare che bisogna evitare il pericolo di ritenere che la riforma possa essere scritta solamente dalla Camera dei deputati o dal Senato della Repubblica o che, comunque, essa non tenga conto della concretezza degli attori in campo. Per tali ragioni, riterrei che vadano apportate significative modifiche al testo approvato, almeno per quanto riguarda la parte relativa ai poteri del Senato federale, cercando nel contempo di valorizzarne il ruolo.
Le alternative sono due: o si ritorna ad una Camera politica – eletta insieme alla Camera dei deputati, legata da un rapporto di fiducia, scioglibile e sottoposta alla possibilità di una questione di fiducia – e si crea una differenziazione funzionale tra i due rami del Parlamento, che serve a rendere più spediti i lavori (cosa che, secondo me, sarebbe stata auspicabile, anche se credo che ormai il processo politico abbia preso un’altra direzione e non si tornerà più indietro dalla contestualità delle elezioni o dall’idea del Senato come rappresentante dei territori); oppure, bisognerà cercare di rafforzare il legame con i territori – alludo alla presenza nel Senato dei presidenti delle regioni -, fare in modo che, in certi casi, come diceva l’onorevole Boato, si possa procedere allo scioglimento anticipato dell’organo ed introdurre meccanismi per i quali, in alcune ipotesi, prevale comunque la decisione della Camera politica.
Tutto ciò va portato a termine con realismo, giocando in modo da condurre in porto la riforma con l’accordo del Senato, altrimenti il risultato sarebbe quello di paralizzare il processo decisionale.
Riguardo alla polemica con le proposte sollecitate da alcune forze del centrosinistra sul governo del Premier, ci tengo a sottolineare che, in Italia, il consenso su tale ipotesi di Governo era vasto. Inoltre, non si tratta di una sorta di trapianto di meccanismi organizzativi derivanti da altre esperienze, ma dell’evoluzione naturale di un processo storico politico avviato dal tempo, per giunta con l’assenso di quasi tutti.
Credo, allora, che dovremmo lavorare per recuperare queste ragioni iniziali di unità, tenendo conto che molte delle critiche appaiono strumentali rispetto ad un modello che non reputo sia particolarmente rischioso, chiunque sia l’inquilino di Palazzo Chigi.
Semmai, avendo a cuore il problema del controllo sul potere, si dovrebbe lavorare di più sullo statuto dell’opposizione. Mi permetto di richiamare la vostra attenzione sul fatto che il testo approvato parla ambiguamente di opposizioni. Attraversando la Manica, ci accorgiamo che lì l’opposizione è una sola, come unica è la maggioranza. Bisogna quindi assicurare al capo dell’opposizione, che è giustamente contemplato nel testo, uno spazio uguale a quello del Premier in Parlamento e soprattutto un’adeguata possibilità di incidenza sulla programmazione dei lavori parlamentari.
Inoltre, questo discorso vale anche per le Commissioni di inchiesta, le quali, già alla fine degli anni ’60, venivano definite, da un autorevole costituzionalista, il professor Alessandro Pace, strumento della maggioranza. È indispensabile, in tale ottica, che esse siano uno strumento di controllo forte che possa essere richiesto dall’opposizione.
Per quanto attiene all’articolo 28, riterrei opportuno che fosse attenuato e reso più flessibile il meccanismo previsto che ritengo sia un’arma nucleare del Premier nei confronti della Camera, mantenendo l’ipotesi di voto bloccato, che però non sia necessariamente collegato alle dimissioni e allo scioglimento.
Le domande poste dall’onorevole Zeller sono molto stimolanti. Egli ha acutamente fatto riferimento al principio di sussidiarietà e al fatto che la Corte, proprio in relazione alla celebre sentenza sulla cosiddetta legge-obiettivo, ha utilizzato tale principio, tratto dall’articolo 118 della Costituzione, per arrivare all’idea, già sostenuta da tempo, secondo la quale le competenze non si separano con l’accetta. La sussidiarietà, infatti, comporta che una competenza ora sale verso l’alto, ora scende verso il basso. Ci si potrebbe chiedere se sia indispensabile una sua consacrazione nel testo costituzionale, essendosi già pronunciata la Corte. Probabilmente, ciò sarebbe opportuno al fine di stabilire quale sia la Camera che decide se far salire o meno la competenza. A mio parere, dovrebbe essere la Camera dei deputati, in quanto Camera politica, a dire se avocare verso l’alto una determinata competenza.
Riguardo agli statuti speciali, condivido la suggestione sollevata dall’onorevole Zeller in relazione al rafforzamento del carattere pattizio dei rapporti tra lo Stato e le regioni, che ritengo sia uno dei tratti fisionomici della specialità.
PRESIDENTE. Ringraziando il professor Pitruzzella per la sua partecipazione, dichiaro conclusa l’audizione.