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Nel discorso che il 19 ottobre 2006 il Papa ha rivolto ai partecipanti al quarto Convegno Ecclesiale Nazionale Italiano viene ribadito, con forza, il tema centrale dell’ Enciclica Deus caritas est: “all’inizio dell’essere cristiano…non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Questa affermazione può essere recepita in tutta la sua pregnanza solo dal credente e con ogni probabilità lascerà, almeno sulle prime, indifferente il non credente. Essa possiede però una valenza ulteriore, che va al di là del suo immediato carattere religioso ed ecclesiale; una valenza antropologica, che può essere utile mettere in luce e che si incentra sulla categoria dell’incontro. Il cristiano è colui che ha incontrato Gesù Cristo. Incontrare significa propriamente incontrare qualcuno e non genericamente qualcosa; significa attribuire all’evento che qualifichiamo come incontro una valenza che va al di là della mera accidentalità e che pertanto può (e a volte deve) essere percepita come portatrice di significato. E’ per questo che un incontro può aprire un uomo a nuove esperienze, può modificarlo, può dischiudere davanti a lui –come dice il Papa- nuovi orizzonti e addirittura può dare alla sua vita una “direzione decisiva”. A ben vedere tutto ciò che nell’ esperienzaumana si manifesta come nuovo (nel bene così come, purtroppo, anche nel male) dipende in definitiva da incontri; e poiché in ciò che chiamiamo esperienza dobbiamo inserire pure le nostre esperienze formative, intellettuali, culturali, non è scorretto dire che ciò che noi siamo come portatori di una visione del mondo dipende in buona sostanza da chi abbiamo incontrato.

Nella dottrina cattolica tradizionale, l’incontro con Gesù Cristo attiva nell’ uomo la fede, la speranza e la carità. Per il non credente si tratta di tre dimensioni su cui si può anche “ragionare” laicamente, ma che comunque è bene distinguere, perché appartengono a logiche diverse: la fede è un enigma epistemologico, la speranza è una dimensione psicologica, la carità è una possibile esperienza relazionale. Per il credente, naturalmente, fede, speranza e carità sono invece tre aspetti, indissolubilmente connessi, di un’esperienza di vita nuova. E sono anche il fondamento di un rapportarsi al mondo (cioè, come si diceva prima, di una visione del mondo) di carattere sintetico: il mondo, agli occhi del credente, non appare come un caos, dominato da forze casuali, a volte benevole, a volte minacciose, ma sempre e comunque cieche, bensì come un cosmo, portatore di un senso, nel quale l’uomo possiede un suo luogo e che si offre all’uomo perché l’uomo lo comprenda, lo ammiri, lo rispetti e, in questa orizzonte di rispetto, lo utilizzi per realizzare il suo bene. L’incontro con Gesù Cristo non si limita a orientare l’uomo (sia pure in una prospettiva escatologica) verso un altro mondo, ma gli dà la forza di accettare questo mondo come il suo mondo, un mondo buono –anche se lacerato dal male e dal peccato- come è buono tutto ciò che è voluto e creato da Dio; un mondo che l’uomo è chiamato a comprendere e a studiare, nel quale egli può legittimamente operare, nel quale egli può avere fiducia, perché è un mondo di tutti e per tutti, non dominato da forze esoteriche, ma governato da leggi che gli donano coerenza ed equilibrio e che l’intelletto umano può scoprire e formalizzare.

Si rende così pienamente comprensibile l’ulteriore indicazione del Papa, in merito a una fede amica dell’intelligenza. L’espressione può sembrare molto riduttiva, ma è significativamente pregnante. La fede che nasce dall’incontro con Cristo non sostituisce l’intelligenza, né le sottrae alcuna competenza; non pretende di assumere nei confronti della intelligenza umana una posizione di primato (e come del resto potrebbe farlo, se è vero che la intelligenza umana partecipa, come logos, della stessa ragione di Dio?), né quindi è abilitata a darle alcuna direttiva che la stessa intelligenza non sarebbe in grado di darsi spontaneamente. L’amico non è colui che dà ordini all’amico o lo condiziona psicologicamente, subordinandolo alla sua volontà. Dove si dà amicizia autentica, si dà condivisone di esperienza e comune orientamento di vita; dall’amicizia, soprattutto, traiamo fiducia e coraggio: chi possiede un amico sa che non è solo. Qualcosa di simile si può dire per il rapporto amicale tra fede e intelligenza: grazie alla fede, la intelligenza può resistere alla tentazione di perdere fiducia in se stessa e nel mondo, alla tentazione di ritenere il mondo vuoto di significato e di considerarlo non come un cosmos, ma come una macchina, il cui funzionamento noi siamo in grado di percepire, ma la cui finalità ci resta oscura. Quando la intelligenza perde fiducia in se stessa, non cessa naturalmente di operare come intelligenza, ma, per dir così, accorcia il proprio orizzonte, inaridisce le sue motivazioni, sostituisce allo sguardo globale lo sguardo circoscritto –sguardo che è a volte indubbiamente più preciso, ma anche inevitabilmente limitato. In quanto amica dell’intelligenza la fede ha il compito di richiamarla sempre alla propria dignità costitutiva e all’orizzonte di senso che le è proprio, quello di essere intelligenza umana, cioè una dimensione che vive solo nell’ esistenza concreta degli individui e non nel formalismo delle idee e delle teorie.

L’amicizia tra intelligenza e fede può manifestarsi secondo gradi diversi; può raggiungere quell’altezza e quell’ immedesimazione che in alcuni, anche se rari casi, può far vedere nell’amico un altro se stesso o può, più semplicemente, manifestarsi in tanti diversi gradi di solidarietà operosa. In questa prospettiva, operando per la massimizzazione del comune bene umano, fede e intelligenza devono riconoscersi e attribuirsi compiti diversificati, sempre basando il loro rapporto sul reciproco rispetto, non sull’indifferenza. Quando invece tra fede e intelligenza si perde il vincolo dell’ amicizia, si danno due diverse possibilità, altrettanto esiziali. Conosciamo bene a quali esiti si giunga quando la fede ripudia la intelligenza e quanto tali esiti possano (al limite!) essere cruenti. L’errore del fondamentalismo non sta nell’affermare che il credente deve nella sua esistenza dare il primato all’ascolto della parola di Dio, ma nel non comprendere che la parola di Dio si manifesta in modo molteplice: non solo nelle scritture rivelate (la cui letteralità viene assurdamente esasperata), ma (galileianamente) nel libro della natura, così come nella tradizione o nell’ordine storico della provvidenza e che a tutte queste manifestazioni (e non ad una soltanto) va data una doverosa attenzione. Altrettanto grave è ciò che avviene quando capita l’opposto ed è la intelligenza a rifiutare l’offerta di amicizia della fede: gli esiti in cui si cade sono percepiti forse con minor evidenza, ma hanno un carattere altrettanto drammatico, perché sono esiti propriamente disumani. Cadiamo infatti in quella desertificazione valoriale dell’esistenza che si manifesta quando non si è più in grado di percepire il rilievo che possiedono le domande di senso e le risposte che a queste domande solo la fede è in grado di dare. Torna alla mente la vicenda grottesca narrata da Musil (che, ricordiamocelo, era un ingegnere) in quell’opera capitale del Novecento che è l’Uomo senza qualità: al marito, che assiste impotente e sgomento alla morte improvvisa e inaspettata della moglie per un incidente stradale, e gemendo urla ad alta voce: Perché sei morta?, un passante, da freddo razionalista, risponde meravigliato in un modo che è assieme scientificamente esatto ed umanamente assurdo: Caro Signore, ecco la risposta alla sua domanda: sua moglie è morta per trauma cranico e conseguente arresto cardiaco. L’incapacità –tutta razionalistica- di percepire non solo l’umanità, ma la necessarietà delle domande di senso non va imputata alla intelligenza in sé e per sé, ma a coloro che non solo pensano che la intelligenza non abbia bisogno di amici, ma che addirittura vedono nella fede –inspiegabilmente- una nemica dell’intelletto umano.

Francesco D’Agostino è Presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica, membro della Pontificia Accademia per la Vita, ordinario di Filosofia del Diritto all’Università la Sapienza di Roma.